In ascolto – Made in Israel

Maria Teresa MilanoChe cos’è la musica israeliana? Possiamo cercare il significato nella sua stessa definizione, forse un po’ tautologica e dire che la musica israeliana è la musica di Israele, una terra in cui convivono gli echi dell’antico salmodiare, le variegate tradizioni della memoria diasporica e una ricca produzione originale ebraica, classica e popolare, intrigante miscela di Europa e Medio Oriente, con richiami ad Africa e Asia. Insomma, un melting pot vocale e strumentale che fotografa le mille sfaccettature di uno stato giovane e in continua evoluzione.
La musica è la voce di ogni paese, lo specchio della storia, degli ideali e delle vicende di un popolo. Ritmi, armonie e melodie, intrecciandosi con le parole in quel binomio inscindibile, oggetto di studio fin dall’antica Grecia, definiscono la fisionomia delle tradizioni, permeano religione e cultura e contribuiscono alla formazione dell’identità personale e collettiva. Si può dunque ritenere l’ars canendi determinante nella nascita e nell’espressione viva di ogni società. E Israele non fa differenza.
Doveva esserne cosciente il sionismo dei primordi, che si pose come obiettivo la creazione e la diffusione capillare di una musica popolare in Palestina, al fine di far sorgere la nuova cultura nazionale ebraica per la futura generazione dei sabra. Nascevano così i Shirei Eretz Israel, un corpus cresciuto ininterrottamente per tutto il XX secolo, che oggi conta 155.000 canzoni, espressione musicale della memoria collettiva israeliana.
I musicologi hanno proposto di suddividere questa complessa produzione in diverse fasi, che tengono conto del contesto storico e sociale, degli stili, delle tematiche trattate (Shahar 1989; Eliram, 2000; Seroussi 2004). È però arduo segnare confini precisi, dal momento che i criteri utilizzati sono soggetti a variabili e gli stessi compositori talvolta appartengono a più epoche e formazioni.
Si possono comunque distinguere all’incirca quattro fasi temporali: l’arco cronologico che va dalla prima ondata immigratoria, l’aliyah del 1882 fino agli anni ‘20, in cui si attinge soprattutto al repertorio canoro della diaspora; allora la lingua ebraica, relegata alla scrittura e alla liturgia per secoli, riprende vita, rivestendosi di melodie russe e talvolta di motivi arabi. Nei quarant’anni successivi, con l’immigrazione massiccia di musicisti dall’Est Europa, proliferano le composizioni d’autore, opera di professionisti e non, immigranti e oriundi, abitanti dei kibbutz (David Zehavi, Yehudah Sharet) o dei centri urbani (Nahum Nardi, Mordechai Zeira). Nel ventennio ‘60-‘80 la produzione di canzoni vede il suo apice nei valori e nelle atmosfere legate alla Guerra di Indipendenza e alla Guerra dei Sei Giorni, ma in qualche modo l’importazione del rock da Gran Bretagna e Stati Uniti prima e la nascita del rock israeliano poi, rischiano di minare questa quasi secolare istituzione musicale. Il gruppo dirigente, temendo la “corruzione culturale” dei giovani, nel 1965 annulla il concerto dei Beatles a Tel Aviv, che già in prevendita aveva fatto il tutto esaurito. Quest’anno lo Stato di Israele ha chiesto ufficialmente scusa e ha invitato Paul Mc Cartney e Ringo Starr a esibirsi in occasione dei festeggiamenti per i 60 anni della fondazione dello stato. L’ultima fase della produzione ed esecuzione delle canzoni di Eretz Israel, dagli anni ‘80 a oggi, invece, è vissuta soprattutto grazie all’istituzione socio – culturale della Shira beTzibbur, il canto di gruppo, che fin dai primi anni del Novecento ha svolto un ruolo determinante nella diffusione della musica popolare e nella realizzazione del progetto educativo sionista.
La pratica di riunirsi per cantare i Shirei Eretz Israel, nei kibbutz, nelle caserme o nelle sale – concerto, per lo più con accompagnamento di chitarra, pianoforte o fisarmonica, aveva una valenza sociale di grande importanza e soprattutto, serviva a insegnare l’ebraico agli immigranti. Con il passare del tempo, la matrice europea, cominciò a contaminarsi di elementi esotici quali il trillo yemenita e i modi arabi e a essere influenzata dai ritmi delle danze levantine, di cui la più famosa è la debka di origine libanese.
La struttura dei canti era semplice, per lo più in tonalità minore e in tempo binario. Spesso venivano utilizzati i testi di celebri poeti come Chaim Nachman Bialik, Nathan Alterman, Chaim Guri, in cui si narrava l’esperienza di coltivare la propria terra, di difenderla, di essere un popolo unito che sperimenta l’esperienza del collettivo e dipinge sognante le geografie dello Yishuv, come si riflette nella pittura di Reuven Rubin; si descrivevano i valori della vita e i cicli della natura, si tratteggiavano le infinite sfumature dell’amore, anche attraverso il linguaggio biblico. Nella splendida lirica Shir Leyl Shabat (Canto della sera di sabato,di Yehuda Amichai) l’amore tra uomo e donna, in una casa al confine con la guerra, osserva la sacralità dei precetti, chiudendosi ogni sera su tutto ciò che è bene e male.
La creazione di nuovi brani e l’esecuzione in concerto, così come la pubblicazione di numerosi canzonieri (shironim) fu appoggiata fortemente dall’apertura di conservatori e Accademie musicali nelle città e dalle istituzioni dello Yishuv: il Keren Hayesod, la cassa del sionismo e la Histadrut, sindacato operante soprattutto nei kibbutz e nelle zone rurali. È del 1924 il documentario Banim bonim (Figli edificatori) nella cui introduzione si legge che il Fondo Keren Hayesod, oltre ad avere responsabilità nell’incoraggiare l’immigrazione dei chalutzim, i pionieri, e nel sopperire alle loro esigenze, dall’educazione alla salute, provvede anche a fornire “tutte le amenità proprie di una normale vita nazionale”. I fotogrammi in bianco e nero scorrono accompagnati dal pianoforte, come nella tradizione del film muto. Una decina di anni dopo, nel 1935, il Keren Hayesod commissionò la realizzazione del film propaganda Lekhayyim Khadashim, distribuito in lingua inglese con il titolo di Land of Promise e fin dai primi minuti fu chiaro che era “tutt’altra musica”. La colonna sonora è imponente, uomini e donne evidentemente avvezzi alla Shira beTzibbur, cantano all’unisono, con vigore, le canzoni composte da Daniel Samburski su poesie di Nathan Alterman, mentre qua e là nel documentario fanno capolino i melismi arabi. Il cast – the Jewish People Rebuilding Palestine – è sostenuto da una grande orchestra, quasi a segnare l’inizio di una nuova era musicale, parte anche dell’epopea sionista.
La famosa filarmonica, infatti, attualmente una delle migliori al mondo, si esibì per la prima volta il 26 dicembre 1936 con il nome di Palestine Orchestra presso la Levant Fair Hall di Tel Aviv e la sua stessa costituzione ebbe risvolti decisivi nella vita dei 75 musicisti che il direttore, Bronislaw Huberman, salvò dalla Shoah. Molti di loro, già cacciati dalle più grandi orchestre europee in seguito alla promulgazione delle leggi razziali, potevano avere in sorte la deportazione a Terezin, il ghetto modello in cui Hitler aveva fatto internare i più grandi musicisti ebrei del tempo, o Auschwitz, in cui le orchestre là formatesi, suonavano una “musica infernale”, come la definì Primo Levi. Per loro fortuna, invece, andò diversamente. Huberman li convinse a lasciare l’Europa per stabilirsi nella nascente Tel Aviv ancora circondata dalle dune di sabbia, come si narra nel bellissimo romanzo musicale di Nathan Shaham Il quartetto Rosendorf, in cui lo scettico protagonista afferma: “Sarà cosa insolita suonare Mozart nel deserto”.
Nello stesso anno veniva fondata l’orchestra sinfonica di Gerusalemme e nei decenni successivi si moltiplicarono le formazioni da camera e quelle orchestrali, impegnate nella musica classica di ogni epoca, ma anche in quella prodotta in loco da autori di elevata statura come Stefan Wolpe, Paul Ben Haim, Josef Tal, Marc Lavry, offrendo al mondo eccellenti direttori quali Daniel Oren, Daniel Baremboim, Asher Fisch, Shlomo Mintz.
Quasi a sottolineare il legame indissolubile tra musica e società, in Israele uno dei luoghi più prolifici di artisti è sempre stato l’esercito, in cui si sono formate decine di Lehaqot Tzvaiot (ensemble militari) che per circa 20 anni, dalla metà degli anni ‘50 alla metà degli anni ‘70, hanno dominato la sfera della musica popolare in Israele, portando alla fama importanti artisti tra cui: Arik Einstein, portavoce rock del desiderio di integrazione nella “cultura globale”, senza dimenticare le proprie radici; Naomi Shemer, grande chansonnière mancata nel 2004, esecutrice e pianista della Shira beTzibbur nel kibbutz fin da ragazzina. Cultrice delle tradizioni musicali etniche, religiose e popolari, è divenuta famosa per aver composto, subito dopo la Guerra dei Sei Giorni, la patriottica Yerushalaim shel zahav; Shlomo Artzi, cantante e membro della “Band della Marina” ha conquistato il pubblico dei primi anni della televisione israeliana, vincendo il festival del 1970 con Ahavtiha, una canzone d’amore nostalgica in stile rock melodico; Chava Alberstein, divisa tra la nostalgia delle ballate yiddish e la grinta della musica di protesta, sulla scia del folk americano delle grandi battaglie, rappresentato da Bob Dylan e Joan Baez; Matti Caspi, eclettico e lirico musicista e cantante, ha rivisitato temi della vita quotidiana, personaggi biblici e canzoni per bambini, alla luce di sonorità nuove, con una predilezione per il sound latino americano; Achinoam Nini, al secolo Noa, israeliana di famiglia yemenita, cresciuta a New York, che ha saputo creare, linguisticamente e stilisticamente, quel sincretismo tra occidente e oriente a lungo indagato dal musicologo Avraham Zvi Idelsohn, cantore e studioso russo (1882 – 1938), pioniere nelle ricerche di etnomusicologia e auspicato da Paul ben Haim che nel 1961 scriveva: “Io sono per nascita ed educazione occidentale, ma ho le radici in Oriente. Il problema di una sintesi tra Occidente e Oriente occupa i musicisti di tutto il mondo”. Negli anni ’90 Noa incide la splendida “Pines”, su testo di Leah Goldberg, in cui la lacerazione tra i due mondi apre uno spiraglio al desiderio di conciliazione: “Perhaps only the migrating birds can ever know as they’re suspended beween the heavens and the earth below…But my roots on both sides of the sea…”
Suona strano, eppure fu proprio una band dell’esercito, la Nachal Brigade Band a portare al successo un canto sulla pace, Shir laShalom, non senza spiacevoli conseguenze. La canzone fu bandita dal Comandante Rekhavam Ze’evi subito dopo la Guerra dei Sei Giorni e ora è segnata tristemente nel cuore degli israeliani, in quanto fu eseguita la sera del 4 novembre 1995 dalla cantante Miri Aloni, pochi istanti prima dell’assassinio di Yitzhak Rabin.
Oggi in Israele si produce e si ascolta ogni genere musicale, l’educazione nelle scuole e nei conservatori ha un livello eccellente e da vent’anni si è aperto il sipario sul jazz che, pur in un territorio così piccolo, ha già saputo creare due diverse correnti: il jazz di Gerusalemme è morbido, europeo, mentre quello di Tel Aviv richiama le atmosfere newyorkesi e il groove di locali come il Birdland o il Blue Note.
Hip hop, rap, metal e dance convivono tranquillamente con musica classica, pop e musika mizrachi, ovvero la vasta produzione sonora etnica legata alla cultura mediorientale.
E intanto ci si continua a chiedere: “ma cos’è la musica israeliana?” Forse la risposta va cercata proprio in quel profondo legame tra produzione musicale/musicista e vita dell’individuo/popolo. La storia della musica di Israele segue fedelmente le vicende dei suoi abitanti.
A rappresentare la comunità yemenita, trasferita in massa con l’operazione Tappeto Volante (1949-51) c’era la conterranea Shoshana Damari, donna imponente e appariscente che cantava in un ebraico dal forte accento sefardita, mentre a difenderne i diritti, negli anni ’80, si è levata la voce cristallina di Ofra Haza, interprete raffinata e colta, pur vicina al popolo, che contro i soprusi sulle donne cantava “Un tempo e un luogo dove una donna non può mostrare il proprio volto e dove la sua vita è governata dagli uomini, non dovrebbero mai più esistere”
Negli anni ‘80 e ‘90 sono giunti i falasha, trasportati con le tre operazioni Mosè, Saba e Salomone, le sonorità etiopi hanno sposato l’ebraico e il giovane Idan Raichel, accompagnato da musicisti africani e caraibici, si esibisce in tutto il mondo e suona per creare un ponte con questa comunità strappata dalla sua terra e per avvicinare gli israeliani alla comprensione del nuovo “vicino di casa”.
Con intento simile lavora Shlomo Gronich, musicista versatile e di grande cultura, che ha fondato il coro Sheba, formato da giovani immigranti con cui ha registrato brani di straordinaria bellezza, come Hot Soil. La musica ha un ruolo formativo, i ragazzi alloggiano in un kibbutz e studiando si affacciano ai linguaggi occidentali, conciliandoli con gli stilemi tipici della musica mizrachi e i ritmi africani di casa propria. Shlomo Gronich, con questo progetto, ha finalmente realizzato il suo sogno di ragazzo, quando suonando al pianoforte il klezmer ereditato dal padre polacco, trillava con la voce alla maniera araba, profondamente convinto di eseguire autentica musica zingara. “Forse ero un po’ confuso, ma mi sentivo come Robinson Crusoe che si mette in viaggio verso isole sperdute, per incontrare gli indigeni, sedere con loro in una giungla e fare una jam session.”
La musica delinea l’anatomia di un popolo, narra la sua storia e ne esprime i desideri più profondi, esplorando nuove vie affinché questi divengano realtà. Ne è certo Daniel Baremboim, che insieme all’intellettuale palestinese Edward Said, nel 1999, ha fondato la West-Eastern Divan Orchestra, composta di israeliani, palestinesi e arabi dei paesi limitrofi, nella speranza che, imparando a suonare insieme oggi, si metteranno le basi per una conoscenza reciproca e per il dialogo di domani.
Israele è un palcoscenico aperto al mondo su cui, ogni giorno, si reagisce agli eventi e ai cambiamenti interni della società. E mentre si intona la Shira beTzibbur in un pub di Rishon Letzion, a Tel Aviv si canta in yiddish e si discute sull’opportunità di eseguire Wagner; i cantori della sinagoga pubblicano cd di successo e giovani musicisti si dedicano alla musica della shoah, tutti impegnati nel processo di memoria e trasmissione alle generazioni future. Da un lato la cantante Zehava Ben conferisce dignità alla musica mizrachi, facendola passare dalle bancarelle del Shuk haCarmel, mercato di Tel Aviv, alle vette delle Hit Parade in Israele e in Egitto, dall’altro il coro della Rimon School of Jazz si cimenta con il gospel.
La musica israeliana, radicata negli antichi piyyutim e nigunim, dopo un lungo processo tra il sacro e il profano, oggi vive l’originalità creativa del “Made in Israel”.

Maria Teresa Milano

MELTING POT PATRIOTTICO
di Ronny Someck
Io sono un «irakeno pigiama», mia moglie è rumena
e nostra figlia è il ladro di Baghdad.
Mamma si ostina a far bollire Tigri ed Eufrate,
mia sorella ha imparato a cucinare i piroshki
dalla madre russa del marito.
Il nostro amico «marocchino coltello» affonda una forchetta
d’acciaio inglese nel pesce nato sulle coste norvegesi.
Siamo tutti muratori licenziati, tirati giù
dai ponteggi della torre
che volevamo erigere a Babele.
Siamo tutti aste arrugginite lanciate da Don Chisciotte
contro i mulini a vento.
Noi tutti facciamo ancora fuoco alle fulgide stelle
un attimo prima che vengano inghiottite
dalla Via Lattea.
(Tratta da Ronny Someck, Il bambino balbuziente, a cura di Sarah Kaminski, Mesogea 2008 (traduzione di Sarah Kaminski e Maria Teresa Milano)
Riferimenti bibliografici
Eliram T., On the musical and Social Characteristics of the “Songs of the Land of Israel, Bar Ilan University 2000 (in ebraico)
Regev M.- Seroussi E., Popular Music and National Culture in Israel, University of California Press, 2004
Shahar N., The Eretz Israeli Song 1920-1950: Sociomusical and Musical Aspects, Hebrew University of Jerusalem, 1989 (in ebraico)
Filmati dell’archivio Steven Spielberg

(19 aprile 2018)