Machshevet Israel – Come si dice ‘metafisica’ in ebraico

massimo giulianiCome si dice ‘metafisica’ in ebraico? Questa domanda è ovviamente retorica: anche in ebraico ‘metafisica’ si dice ‘metafisica’, perché è un termine tecnico, che nelle lingue moderne abbiamo ereditato dal greco e che dobbiamo ad Aristotele. Come del resto il termine ‘filosofia’, l’amore per la sapienza. Come vi sono termini ebraici sostanzialmente intraducibili in greco (shabbat, qodesh, rachamim…), così avviene nell’altra direzione. Gli ebrei che, nel corso della storia, vollero coltivare l’arte dell’argomentazione razionale – appunto essere filosofi, da Sa‘adia Gaon in poi – ne erano ben consapevoli. Un brillante esempio è Moses Mendelssohn, di cui Irene Kajon ha appena tradotto e introdotto i poco noti Dialoghi filosofici (pubblicati da Morcelliana), che potrebbero ben titolarsi ‘dialoghi metafisici’, dato che si occupano dei temi classici di quella branca della filosofia: Dio, il mondo e l’uomo. E proprio in quest’ordine, se si segue il racconto della creazione; nell’ordine inverso, se si se segue il processo conoscitivo che risale dalla coscienza umana all’ambiente circostante e da questo al Principio primo o Radice ultima di tutte le cose: Shoresh shorashim. Questi dialoghi sono un modo, per il Socrate di Berlino (che complimento, per un ebreo misrachì che arriva a Berlino a quattordici anni e deve imparare non solo il latino e il greco e le altre lingue europee, ma anche il tedesco!), di entrare nel dibattito colto del suo tempo, che consisteva nel ponderare ed esprimere giudizi intelligenti su Spinoza, Leibniz e Wolff, appunto i grandi pensatori metafisici della prima modernità. Ma se quelle ponderazioni e quei giudizi oggi appartengono alla sfera tecnica della storia della filosofia, il ‘modo’ in cui Mendelssohn li affronta potrebbe sorprenderci e forse ha ancora qualcosa da dire.
La chiave di questa possibile sorpresa ce la offre la curatrice, Irene Kajon, là dove mostra, forse su intuizione di Alexander Altmann, il maggior biografo di Mendelssohn, che l’interpretazione che quest’ultimo dà di Spinoza passa attraverso la sua conoscenza della lezione di Maimonide, soprattutto del Morè nevukhim, la Guida dei perplessi. E’ con la Guida alla mano che il giovane filosofo ebreo-tedesco cerca di scagionare lo scomunicato di Amsterdam – Spinoza ebbe la scomunica dalla comunità ebraica portoghese nel 1656 – dall’accusa, allora ricorrente, di ateismo: la Guida infatti poteva capovolgere l’idea che Spinoza avesse dissolto Dio nella sostanza del mondo, dato che Dio e mondo sono sostanzialmente incongruenti (infinito il primo e finito il secondo); non sarebbe stato alieno allo spirito ebraico, invece, pensare il mondo potenzialmente in Dio. Come del resto la qabbalà (alias la metafisica dei mistici ebrei) ha sempre affermato: Dio è il maqom (il ‘luogo’) del mondo… Ma c’è di più. Afferma Irene Kajon: “L’approccio di Mendelssohn ispirato alla Guida dei perplessi nei confronti delle discussioni filosofiche della Germania del suo tempo è soprattutto visibile là dove egli enuncia il suo ideale di stile filosofico: la profondità e la serietà unita alla grazia e alla capacità di attrazione dell’esposizione”. Che vuol dire? Qui il riferimento immediato è al conflitto tra ‘filosofia tedesca’ con fama di rigore pedantesco e ‘filosofia francese’ con fama di leggerezza poetante. Ma alla luce del Rambam si tratta del connubio tra linguaggio preciso ma astratto del pensiero da una parte e dall’altra immagini e metafore facili per tutti da percepire, anche da parte dei non filosofi. E’ a questa combinazione che Mendelssohn si ispira nei suoi pur complessi Dialoghi filosofici.
“Interpretare metafore in modo razionale da un lato, esprimere in metafore i pensieri e i concetti dall’altro, è il compito di ogni filosofia che non voglia rinunciare alle sue profondità, ma che voglia essere anche bella, piacevole, alla portata di ognuno” dice la curatrice, che cita Maimonide: quando si insegna rinunciando a metafore ed enigmi si finisce con il sostituirli con oscurità e dogmi. Aggiungo io: è quanto avvenuto con quel filosofo tedesco che voleva rifondare la metafisica (sto parlando di Heidegger) ma alla fine è divenuto l’oracolo oscuro e dogmatico di un sistema totalitario. Sì, anche la metafisica è traducibile ed è stata tradotta in ebraico: attraverso il mashal, il midrash e l’aggadà, che colpiscono l’immaginazione e dànno a pensare; attraverso il dialogo con l’altro (un tempo il greco, due secoli fa il tedesco); attraverso la letteratura, il teatro e il cinema. “Avendo presente Maimonide nel momento in cui tratta di Spinoza, di Leibniz e di scrittura filosofica, Mendelssohn introduce nel pensiero del suo tempo punti di vista innovativi: è la sua formazione ebraica a permettergli di vedere la cultura filosofica circostante da un’angolatura particolare”. Eterna questione del cosa sia machshevet Israel: concetti stranieri declinati in ebraico o concetti ebraici tradotti in lingua straniera?

Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI