JCiak – I fantasmi della Storia

Kurt è uno studente d’arte. Quando s’innamora di Ellie, non immagina che le loro vite sono legate da un orrendo crimine. Il responsabile è il padre di lei, il professor Seeband, che negli anni del nazismo è stato responsabile del programma T4 per l’eutanasia di disabili e persone con disturbo mentale. Fra le sue vittime, l’amatissima zia di Kurt. Mentre il segreto si svela e il giovane artista cerca con fatica la sua strada, sotto i nostri occhi scorrono trent’anni di Storia tedesca.
Opera senza autore di Florian Henckel von Donnersmarck – Oscar nel 2006 per Le vite degli altri, spaccato inquietante dello spionaggio ai tempi della Dddr, è un fiume in piena. In tre ore, sulle tracce di un melodramma familiare passiamo dagli albori del nazismo al socialismo alla Guerra fredda seguendo il consolidarsi di una vocazione artistica che nelle ferite del reale trova la sua ragione d’essere. In tanta abbondanza c’è il rischio di perdersi o annoiarsi. La critica di fatto si è divisa, ma la sfida di un lavoro di questa portata è appassionante.
Candidato dalla Germania all’Oscar come migliore film straniero, Opera senza autore è un grande affresco che nella tradizione di Novecento, citato dal regista come una delle fonti d’ispirazione, intreccia Storia e microstorie esplorando un periodo con cui la Germania e la stessa Europa non hanno ancora chiuso i conti.
La vicenda di Kurt Barnert (Tom Schilling), Ellie (Paula Beer) e il professor Seeband (un Sebastian Koch al suo meglio) s’ispira a fatti realmente accaduti. A dare lo spunto, l’incontro del regista con il pittore tedesco Gerhard Richter. Segnato dalla sorte dell’amata zia Marianne sterilizzata e poi uccisa perché schizofrenica, in una celebre fase della sua carriera artistica Richter ha ritratto i suoi familiari negli anni del nazismo sfumandone i volti fino a renderli impenetrabili.
Nel film è la zia a introdurre il nipote bambino a quella che Hitler considerava “arte degenerata” – Van Gogh, Chagall, Grosz, Kandinskij e Dix. Ed è lei a insegnargli a “non distogliere mai lo sguardo”. Corre lungo questo filo la riflessione di von Donnersmarck sul significato dell’arte e sulla sua capacità di superare i totalitarismi per giungere al cuore della verità.
Solo quando riuscirà a scavare nel suo dolore il protagonista Kurt Barnert riuscirà infatti a superare le rigide cornici imposte dall’epoca – prima dal regime nazista, poi dal comunismo – trovando la sua vera voce. “Richter ha detto che l’arte esiste per dare consolazione”, spiega il regista. “Ho riflettuto a lungo e concordo. Anche a rischio di apparire melodrammatico, credo significhi che ogni grande opera d’arte sia la prova concreta del fatto che un trauma può essere trasformato in qualcosa di positivo”.

Daniela Gross

(18 ottobre 2018)