Società – Il 1938 e le ferite dell’antisemitismo giuridico

Baldassare-Pastore
La legislazione antiebraica del 1938 rappresenta un esempio paradigmatico di come il diritto possa operare come fattore di “vulnerazione”. La parola rinvia alla vulnerabilità che, pur essendo un fenomeno di ampio spettro, è tuttavia riconducibile ad un nucleo semantico riguardante la suscettibilità a venire feriti, offesi.
La vulnerabilità, in ambito politico e giuridico, risulta associata alle diverse situazioni nelle quali discriminazioni, stigmatizzazioni, violenze diventano salienti nel produrre il non-riconoscimento nei confronti degli individui e si connette tipicamente alle esperienze dell’umiliazione, della vessazione, dello spregio. Tali esperienze toccano: a) l’integrità e la libertà, minacciate dalla violenza che ci pone nell’impossibilità di esercitare l’autonomia personale; b) la comprensione che una persona ha di sé, negata da atti e comportamenti che colpiscono un soggetto escludendolo dal soddisfacimento di pretese legittime, rappresentando un attacco al rispetto e alla stima che poniamo in noi stessi; c) l’identità individuale, ferita con l’esclusione dello status di partecipanti all’interazione e di eguali soggetti di diritto. Si tratta di esperienze che negano la dignità umana. La nozione di vulnerabilità, in questa prospettiva, diventa una categoria euristica e un indicatore qualitativo e quantitativo delle violazioni alla eguale dignità degli esseri umani.
Le leggi antiebraiche (razziste) del 1938 e i successivi provvedimenti amministrativi introdussero divieti e obblighi di varia natura, ognuno dei quali produceva effetti notevoli sui destinatari e sull’insieme della società italiana. Si è trattato di disposizioni e provvedimenti che realizzavano la sinergia tra le pseudo-scienze della razza e un progetto totalitario che individua e sceglie il tema della razza come elemento costitutivo e fondante della sua ideologia e come centro delle sue politiche. L’adozione del razzismo fu un momento di un programma di trasformazione dello Stato, della società e del regime in una fase delicata e decisiva della sua vita interna e della politica internazionale. Si è trattato di un momento di svolta che ha segnato una rottura nella storia dell’Italia unita attraverso la demolizione della tradizione liberale risorgimentale e del suo concetto di cittadinanza.
Con l’introduzione dei provvedimenti per la difesa della razza del 1938 il regime diede al razzismo e all’antisemitismo una definita e compiuta dimensione anche giuridica.
La fase storica iniziata col conseguimento dell’unità nazionale era caratterizzata dall’eguaglianza dei diritti. Tale principio era sancito dall’art. 24 dello Statuto albertino, per il quale tutti gli appartenenti al Regno erano eguali dinanzi alla legge, godevano egualmente dei diritti civili e politici e potevano accedere alle cariche civili e militari.
La persecuzione antiebraica generalizzata varata nel 1938 ebbe per oggetto dei cittadini dello Stato. Il diritto stabiliva la differenziazione tra cittadini e introduceva una diseguaglianza di diritti tra essi. L’emanazione di quelle “leggi abominevoli” e vergognose, di poco preceduta dal Manifesto della razza (pubblicato sul “Giornale d’Italia”, il 15 luglio 1938, con il titolo Il Fascismo e i problemi della razza), costituì – come disse Piero Calamandrei – la più grave lacerazione dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico e dello Stato di diritto. L’esito di quel “monstrum pseudolegislativo” (sono parole di Alessandro Galante Garrone) fu la discriminazione dei cittadini di origine ebraica e la loro espulsione dal contesto sociale ed istituzionale dell’epoca.
Emblematica, al riguardo, è la vicenda relativa alla formulazione dell’articolo 1 del libro primo del progetto del nuovo codice civile. Proprio negli ultimi mesi del 1938 la bozza di tale articolo conobbe una modifica, che lo rese coerente con i principi fondanti delle nuove leggi antiebraiche. Il suddetto articolo venne riscritto e ampliato sì da mutarne profondamente il significato. Il testo recitava: “La capacità giuridica si acquista al momento della nascita. […] Le limitazioni alla capacità giuridica derivanti dall’appartenenza a determinate razze sono stabilite da leggi speciali”. Si introduceva solennemente il principio dell’ineguaglianza di possesso della capacità giuridica. Al centro, ora, non vi era più l’individuo con i suoi diritti (il codice civile italiano del 1865 stabiliva all’articolo 1: “Ogni cittadino gode dei diritti civili”), bensì lo Stato con il suo diritto a limitarne la capacità giuridica.
La discriminazione razziale diventava contenuto della legge. Proprio la legge, che nel costituzionalismo dell’epoca liberale era ritenuta lo strumento più idoneo a garantire i diritti dei cittadini, si era trasformata in uno strumento di oppressione, esiziale per la dignità e l’esistenza stessa della persona.
Le leggi razziali posero ai giuristi il problema del rapporto tra legge e diritto, tra la forza e la ragione. Come potevano considerarsi “diritto” “la cacciata dei bambini ebrei dalle scuole, l’espulsione degli adulti dall’insegnamento, il divieto di esercizio delle professioni, il diniego della licenza al venditore ambulante, il divieto di matrimonio “con persona appartenente ad altra razza”?
Riflettere, da parte della cultura giuridica odierna, sull’infamia rappresentata da quei provvedimenti significa riflettere sul ruolo svolto dai giuristi italiani nella loro formazione e nella loro applicazione concreta; nel male, ma anche nel bene, con ombre e (alcune) luci, considerando che alcuni esponenti del mondo accademico, alcuni magistrati, alcuni avvocati non si piegarono al volere del regime e si opposero all’antisemitismo dominante.
Si tratta di ricostruire gli orientamenti dottrinali, l’architettura delle leggi e delle circolari in materia, il quadro d’assieme degli atti e delle sentenze dei giudici, la struttura e le concrete modalità di funzionamento di una poderosa macchina amministrativa. Elementi, tutti, che hanno prodotto un grave vulnus al principio di eguaglianza e al principio della dignità umana.
Le leggi antiebraiche (razziste) del 1938 sono espressione di quella “negazione legale del diritto” – per riprendere l’efficace espressione usata da Gustav Radbruch nel saggio Gesetzliches Unrecht und übergesetzliches Recht del 1946 – che mostra in maniera drammatica il carattere volutamente e intollerabilmente ingiusto di provvedimenti normativi, che sono in realtà meri atti di arbitrio. Di fronte alle vicende riguardanti le esistenze degli ebrei in Italia, spezzate, private della libertà e dell’identità, espunte dalla vita civile, vessate sul piano materiale e morale, tali leggi ci rendono consapevoli di come la subordinazione del diritto al potere politico conduca il diritto stesso a divenire strumento di ingiustizia, tradendo, così, il suo senso più profondo.

Baldassare Pastore, Università degli Studi di Ferrara

Il testo è una rielaborazione dell’Introduzione al Convegno 1938: antisemitismo giuridico italiano. A ottant’anni dalle leggi razziali che si è svolto al Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, il 20-21 novembre 2018