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Un bel romanzo, quando è veramente bello, va recensito. Se poi quelle pagine hanno a che vedere con questo tempo di transizione, in cui le costruzioni di identità nazionali ed etniche teorizzate e inconsistenti sembrano prevalere sulla ricerca di senso e sulla conoscenza della storia, il ragionarci su diventa quasi un obbligo, un servizio civile. Sorprende quindi che il libro di Federico Maria Sardelli, L’affare Vivaldi (Sellerio, 2015) sia passato relativamente sotto silenzio. E sì che se ne è fatta anche una riduzione teatrale, che conosce un certo successo. Sarà che l’autore è noto più come maestro d’orchestra e massimo esperto vivaldiano che non come romanziere, o sarà che lo stesso si esprime di norma su “Il Vernacoliere”, godibilissimo e assai scurrile periodico livornese tenuto tuttavia non in gran conto dalla critica letteraria nostrana. Sta di fatto che l’assordante silenzio che ha accolto il libro è immeritato, e avendolo scoperto io stesso con colpevole ritardo provo a fare ammenda, almeno personalmente, proponendomi di promuoverlo sia su queste pagine, sia in altro modo altrove. Il romanzo, costruito per quadri spazio/temporali che saltano dalla Venezia del Settecento al Piemonte degli anni Trenta per ricadere sulla Liguria di fine Ottocento, ricostruisce con un registro linguistico colto e nel contempo leggero e a tratti comico (godibile una citazione della supercazzola, anticipata al Settecento) la vicenda della riscoperta dei testi musicali di Antonio Vivaldi. Icona musicale italiana assai nota nel mondo (troppo spesso ridotta alle Quattro Stagioni che ci ossessionano nelle attese telefoniche di gran parte dei call center dei nostri uffici pubblici), in realtà la musica di Vivaldi fu prima rifiutata perché fuori moda, e poi per molto tempo dimenticata. La sua riscoperta all’inizio degli anni Trenta, dove vennero identificati alcuni manoscritti depositati alla Biblioteca Nazionale, si deve in buona sostanza all’intervento dell’allora direttore della biblioteca Luigi Torri – appassionato musicologo – ma anche al decisivo intervento di ebrei italiani che a vario titolo parteciparono all’impresa. Alberto Gentili, grande storico della musica e primo cattedratico della materia in Italia, venne incaricato dello studio e della catalogazione del fondo musicale che comprendeva oltre ai manoscritti originali di Vivaldi anche tutta una serie di altre partiture fino ad allora ignote. E le due famiglie di ebrei torinesi che finanziarono il riscatto dei fondi archivistici effettuato dallo Stato per sottrarli all’oblio a cui erano stati condannati. Un doppio finanziamento offerto per onorare il ricordo di due figli prematuramente scomparsi, Mauro Foà e Renzo Giordano. Ma siamo agli inizi degli anni ‘30, per cui la vicenda si intreccia inevitabilmente con l’appropinquarsi delle leggi antiebraiche. Leggi “identitarie” per eccellenza, nell’obnubilata ottica fascista accolta in modo più che accondiscendente dai funzionari dello stato e delle soprintendenze. Sicché i manoscritti vengono sottratti alle cure di Alberto Gentili (che viene espulso anche dall’università) e le famiglie dei due finanziatori vengono perseguitate come la storia sa, anche grazie all’intervento di un esaltato Ezra Pound (equamente appassionato di Vivaldi e di antisemitismo) che farà in modo di accelerare le dinamiche di espulsione dei pericolosi ebrei dall’orizzonte della musica del Prete Rosso. Mi permetto di consigliare la lettura del romanzo avendo a disposizione l’ascolto dei numerosi brani del repertorio vivaldiano che vengono citati. Una modalità che arricchisce un testo già di per sé godibile, che cresce fino ad autoconsacrarsi nella descrizione finale del lavoro di ricerca che è stato intrapreso dall’autore per la sua scrittura. Per terminare con la facile e tragica ironia riservata alla figura patetica del rettore dell’Università di Torino Azzo Azzi, condannato dal nome e dalla storia ad esibirsi nell’espulsione degli ebrei dall’ateneo piemontese nel nome di una ipotetica identità italica, pura di razza e piena di zeta.

Gadi Luzzatto Voghera, Direttore Fondazione CDEC

(18 gennaio 2019)