“Levi, un messaggio attuale”

Vorrei ringraziare non formalmente il presidente Castagnetti e e il sindaco di Carpi Alberto Bellelli per l’ospitalità che ci vede oggi riuniti per ricordare la partenza di Primo Levi per Auschwitz settantacinque anni fa.
È un evento di grande significato che apre le iniziative dell’anno centenario della nascita di uno dei maggiori scrittori del Novecento non soltanto italiano, che è diventato un patrimonio dell’umanità.
Saluto con particolare affetto i figli di Primo, Lisa e Renzo, che sono oggi con noi e che per questa ricorrenza ci hanno voluto fare dono di un documento straordinario che segna il Big Bang del Levi scrittore: la lettera che il loro padre, un mese dopo essere tornato avventurosamente a Torino, nel novembre 1945 scrisse ai cugini rifugiati in Brasile per raccontare la sua storia e dare notizie di un’Italia convalescente, ancora lontana dall’essere guarita dalla devastante infezione del fascismo. Consentitemi di dire che non siamo completamente guariti nemmeno 75 anni dopo, visto che siamo ancora qui a spiare ansiosamente i segni di una recidiva che non è soltanto italiana.
Saluto il professor Walter Barberis, presidente della casa editrice Einaudi, e autore di pagine molto belle su Levi. La Einaudi ha concluso di recente la pubblicazione delle Opere complete in tre volumi, a cura di Marco Belpoliti, dopo aver pubblicato una bellissima biografia per immagini, l’Album Primo Levi, a cura di Roberta Mori e Domenico Scarpa. Altre importanti novità editoriali sono attese nel corso dell’anno.
L’esplorazione sempre più accurata e approfondita del continente Levi, che non finisce di stupirci e di sorprenderci per la sua ricchezza, è merito del Centro Studi Primo Levi, che ha appena festeggiato i dieci anni di vita, ed è magnificamente diretto dal professor Fabio Levi, con la collaborazione di uno staff esemplare per dedizione e competenza, in cui spicca la consulenza scientifica di Domenico Scarpa.
Fabio Levi non ha potuto essere con noi oggi, come è invece il vicepresidente del Centro, Dario Disegni, cui molto dobbiamo sin dalla fondazione del Centro. Disegni è tra l’altro il presidente e l’anima del MEIS, il Museo dell’Ebraismo italiano di Ferrara. Saluto e ringrazio Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche italiane, che ha voluto convivere questa giornata.
Last not least, vorrei dire a Fabrizio Gifuni tutta la nostra ammirazione per le sue superbe qualità di attore, supportate da una speciale sensibilità letteraria (tra i suoi autori di culto ci sono anche Pasolini e Gadda), e la nostra gratitudine per la sua generosa disponibilità.
Calvino diceva che un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha dire. Vorrei aggiungere una piccola variante: che continua a darci sempre di più con il passare del tempo. Se questo è un uomo è un classico che è stato scritto da un ragazzo di ventisei anni che per modestia si è nascosto a lungo dietro l’autodefinizione riduttiva, molto riduttiva, di scrittore della domenica o di chimico che scrive: come se la chimica fosse una lieve ma evidente disabilità mentre, al contrario, semmai offre un più di strumenti conoscitivi.
Lo sappiamo: Primo Levi non ha mai voluto sollecitare emozioni, né tanto meno si è atteggiato a vittima da compiangere. Da buon tecnico di laboratorio, che si diceva “studioso di vortici”, ha cercato di capire: come funzionava la macchina dello sterminio, come funzionava la testa dei tedeschi, come funzionano le società umane e come funziona la nostra testa, di noi che non siamo stati chiamati ad essere vittime o aguzzini, e ce ne possiamo stare comodamente acquattati in quella che lui ha chiamato “zona grigia”, categoria che rappresenta un autentico caposaldo dell’antropologia contemporanea.
È la zona di quelli che per la loro buona pace, perché tengono famiglia, perché devono fare carriera, perché se non lo fanno loro lo fa qualcun altro, fingono di non vedere e di non sapere, e così facendo hanno avallato e avallano le imprese più criminose di cui è tristemente ricco il Novecento ma anche il Terzo Millennio.
Primo Levi non fa l’archeologia di un evento mostruoso e irripetibile: indaga, analizza, riflette, scrive guardando all’oggi, al futuro prossimo. L’ultima frase della lettura di Gifuni che sentirete è tratta dalla conclusione de I sommersi e i salvati, il libro in cui Levi ha condensato mirabilmente quarant’anni di riflessioni e che dovrebbe consegnato ad ogni cittadino italiano al raggiungimento della maggiore età, insieme a una copia della Costituzione. Dice: “È avvenuto, quindi può accadere di nuovo: questo è il nocciolo di quanto abbiamo da dire”. E difatti è puntualmente accaduto da quell’11 aprile 1985 in cui Levi ci ha lasciato. È cronaca di tutti giorni. Da noi c’è un senatore della Repubblica che nel febbraio 2019 riesce ancora a sventolare un falso storico ignobile e conclamato come i Protocolli dei Savi dei Sion, in Francia e altrove si moltiplicano gli episodi di antisemitismo.
Nelle stesse pagine conclusive dei Sommersi e i salvati, Levi scrive che si è spesso sentito chiedere dai ragazzi delle scuole con cui andava spesso a parlare chi erano, di che stoffa erano fatti, i suoi «aguzzini». Scrive:
“Il termine allude ai nostri ex custodi, alle SS, e a mio parere è improprio : fa pensare a individui distorti, nati male, sadici, affetti da un vizio d’origine. Invece erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni , non erano mostri, avevano il nostro viso, ma erano stati educati male. Erano, in massima parte, gregari e funzionari rozzi e diligenti: alcuni fanaticamente convinti del verbo nazista, molti indifferenti, o paurosi di punizioni, o desiderosi di fare carriera, o troppo obbedienti. Tutti avevano subito la terrificante diseducazione fornita ed imposta dalla scuola quale era stata voluta da Hitler e dai suoi collaboratori, e completata poi dall’addestramento delle SS”.
C’è un interrogativo implicito, in queste righe, che ci tocca da vicino, perché come tutto quello che Levi scrive, è scritto per l’oggi: se l’educazione, la formazione decidono le sorti di una società, chi educa, oggi? Cosa insegna? Con quali strumenti, con quali obiettivi? E se è vero che l’educazione si fa in primo luogo con i comportamenti, cosa insegnano le famiglie, che sembrano aver abdicato dai loro fondamentali compiti formativi?
Che cosa possiamo cavare dalla miniera delle Opere di Primo Levi, che sono un inno alla gioia della conoscenza e della competenza, in un’epoca un cui il sapere sembra diventato una colpa?
Tra le tante altre cose, dobbiamo imparare a far nostre le qualità professionali che distinguono il chimico: l’attitudine a pesare, misurare, distinguere, sperimentare, sottoporre a sempre nuove verifiche i risultati che ci sembra di avere raggiunto.
Dunque il rigore, la precisione, la capacità di imparare dagli insuccessi, la tenacia, la progettualità, ma anche l’estro combinatorio, la curiosità creativa che spinge a testare nuovi modi di mettere insieme gli elementi del sistema periodico. Nella scrittura, questi elementi sono rappresentati dai meravigliosi giacimenti delle parole che abbiamo a disposizione. Tra i tanti interessi di Primo Levi, accanto all’etologia c’è stata anche la linguistica, l’etimologia. Le sue divagazioni linguistiche, raccolte nel volume L’altrui mestiere, sono tra le letture più gratificanti che si possano fare.
Mai nella storia della civiltà è stato fatto e si fa ogni giorno un uso così sciatto, volgare, cinico, truffaldino e in definitiva spregiativo del linguaggio, ridotto a pochi lemmi svuotati di autenticità, abbrutito dal turpiloquio, usato per le furberie di una sorta di gigantesco marketing di massa che mira a ingannare milioni di creduloni e di odiatori. Murati nell’eterno presente delle orribili favelle dei social, ci stiamo rassegnando a vivere nello squallore di una miseria linguistica che diventa miseria morale e civile. L’esatto contrario della misura rigorosa, della strenua esattezza che sta nel DNA della scrittura di Levi, che è riuscito a saldare nella sua pagina la tradizionale scissione tra scienza e letteratura che rende anemica la nostra cultura.
Leggere Primo Levi ci fa capire una volta di più, sempre di più, che solo la grande letteratura e la grande arte saranno in grado di salvarci dalle acque del diluvio globale.

Ernesto Ferrero

(22 febbraio 2019)