Synonymes, le parole che contano

Molti ebrei francesi, a quanto si dice, hanno abbandonato Parigi in questi ultimi anni.
E la grande maggioranza fra loro ha scelto Israele.
Il protagonista di Synonymes, l’ultimo lavoro di Nadav Lapid, è qui per raccontarci il percorso inverso, un’altra storia. Anche solo per questo la vicenda, ampiamente autobiografica, scelta dal regista israeliano trapiantato nella capitale francese, racconta di un percorso differente, di un cammino a ritroso che vede un giovane lasciare la patria e cercare con ogni mezzo di cancellare nazionalità, identità, relazioni, vicende, linguaggio.
Va bene tutto pur di essere parte di una realtà nuova, lontana, che lo distacchi e lo porti lontano dal pesante, talvolta insopportabile groviglio di problemi da cui proviene.
Così la fuga da Israele diviene una feroce fuga da sé stessi, l’impegno crudele a rinunciare a tutti gli ancoraggi, alle proprie parole, anche alle proprie storie, pur di liberarsi dell’identità di provenienza.
Attraverso questo processo crudele di distacco, che certo sarà visto con fastidio da chi ama e guarda con passione a Israele, Lapid spiega molto di più e molto meglio sulla realtà israeliana che quintali di paccottiglia della propaganda nazionalista. Certo, Synonymes fa male, ma parla chiaro, e aiuta a capire. A capire la centralità della lingua ebraica, che non a caso il giovane protagonista rifiuta ormai di pronunciare. A capire la necessità delle nostre storie, di cui non possiamo liberarci, che non possiamo cedere ad altri. Così proprio l’ebraico risuona come non mai là dove lo si vorrebbe mettere a tacere. E questo avviene, miracolo di un cinema israeliano che sembrava aver spento lo slancio straordinario per il quale si era fatto apprezzare in tutto il mondo, proprio grazie al coraggio di un giovane regista.
Uno che come il protagonista di questa vicenda largamente autobiografica ha scelto di vivere a Parigi.
Ancora più straordinario, in questa raffinatissima prova di maturità che ha conquistato una giuria della Berlinale presieduta da Juliette Binoche (non a caso non solo grande protagonista del cinema francese, ma anche una coltissima cinefila e conoscitrice del cinema europeo) è la lezione di regia che Lapid ci offre.
Il cinema di Israele è tornato fra i protagonisti e con Synonymes, senza cedere nulla della vocazione israeliana alla creatività, è capace di evocare anche la massima tradizione del cinema francese. Nell’intensità del dialogo, nell’intimità dell’inquadratura, nella poesia dello sguardo sul mondo, la tecnica di Lapid parla il linguaggio della migliore Nouvelle Vague. E cita Bresson, Godard, soprattutto Rohmer riprendendo i loro fili e rimettendoli al centro dello strazio, del tormento e della speranza.
Certo il cinema, dice Nadav Lapid, può essere salvato, forse può salvarci. E certo questo film doloroso e vero rimette al centro il senso della vita ebraica: ci sono stagioni in cui si può
evolvere, ci si può distaccare, si possono anche accantonare le proprie storie. Ma è inutile scappare lontano, presto a tardi i conti con l’identità bisogna pur farli.
Non bastano i sinonimi dietro i quali abbiamo cercato riparo a salvarci.

Guido Vitale, Pagine Ebraiche Marzo 2019

© Guy Ferrandis / SBS Films