Controvento – Il Giallo Pitti

kasamGiallo come ricerca indiziaria del colpevole, ma anche come contrassegno discriminatorio degli ebrei. Così, con due parole, si può riassumere la genesi dell’interessante libro Nessuno sa di lui – Carlo Pitti, il vero artefice del ghetto ebraico di Firenze recentemente uscito per i tipi di Le lettere. L’autrice, Ippolita Morgese, è una archivista fiorentina, che ha partecipato all’ideazione e allo sviluppo del Medici Archive Project – l’archivio on-line della storia fiorentina. Proprio trascrivendo per questo progetto due “filze” che riguardavano le pratiche per l’apertura di banchi dei pegni da parte di prestatori ebrei invitati a Firenze da Cosimo I nel 1557, e, dieci anni dopo, nel 1567, i processi istruiti contro quegli stessi ebrei per cacciarli, Morgese si imbatte nel nome di Carlo Pitti, la cui firma appare su tutti gli atti. Chi era Carlo Pitti? E che cosa era successo in quei dieci anni, a giustificare il voltafaccia di Cosimo? La risposta alla seconda domanda è nota: Cosimo de’ Medici aspirava a un titolo che lo ponesse al di sopra di tutti i sovrani italiani. Glielo rifiutarono sia l’imperatore Massimiliano II al Nord, che il re di Spagna che governava il sud Italia. Glielo concesse invece, per assecondare il suo scaltro gioco politico, il papa Pio V. A un prezzo: azzerare a Firenze la presenza dei banchieri ebrei, cacciandoli o chiudendo le loro attività e relegandoli a vivere in ghetto.
Iniziò così un processo-farsa affidato a Carlo Pitti, che fa parte del Magistrato Supremo, l’ordine giudiziario più alto sotto Cosimo I de’ Medici. Il casato è ben noto, ma molto ramificato, e di questo Pitti in particolare non si trova nessuna notizia. Morgese, da bravo segugio come dev’essere un serio archivista, si mette a caccia di informazioni. “Ogni famiglia importante” spiega “aveva un archivio, per conservare le carte genealogiche, gli atti di successione, gli incarichi pubblici, i registri di affari. Sono partita quindi dal presupposto che un magistrato importante come Carlo Pitti dovesse necessariamente avere tenuto un archivio, e mi sono messa a cercarlo”. La “caccia” è narrata nel libro, e lo rende diverso da un saggio e intrigante anche per un pubblico di non addetti ai lavori. Ippolita legge tutta la bibliografia sull’epoca e, seguendo la pista dello stemma di Carlo Pitti, riesce a ricostruire l’albero genealogico di questo ramo della famiglia, strada maestra nella ricerca degli archivi familiari, che si trasmettevano per via ereditaria al primogenito, e, in mancanza di un maschio, a una figlia femmina che li inglobava nella documentazione della sua nuova famiglia. Il filo d’Arianna del passaggio di mano in mano degli archivi la porta al principe Piero Ginori Conti, imprenditore, letterato, bibliofilo, che alla sua morte nel 1939 decreta di istituire una Fondazione per rendere pubblici e accessibili a tutti gli archivi e i cimeli collezionati dalla famiglia. Ma lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale blocca il progetto e fa perdere le tracce dell’agognato archivio proprio quando sembrava raggiunto. Morgese non demorde. E scopre che l’archivio era stato donato negli anni ‘80 al Gabinetto Viessieux, e da questo smembrato: la parte più antica spedita all’Archivio di Stato, dove però non era stata catalogata. Un lungo giro per tornare dove era partita. All’Archivio di Stato Ippolita è di casa, e riesce finalmente a mettere le mani, sulle agognate carte. E qui arriva il vero colpo di scena. Studiando i documenti inediti, scopre che Calo Pitti non è solo il magistrato incaricato di indagare sui banchieri ebrei, prima per accoglierli poi per cacciarli. È anche l’artefice del ghetto di Firenze, un progetto segreto noto solo al Papa, al Granduca e a lui, fidato cortigiano, dal momento dell’ideazione nel 1567 fino all’inaugurazione nel 1571. È Pitti a scegliere il luogo (il Quadrilatero del Mercato Vecchio, oggi Piazza della Repubblica), ad acquistare per pochi scudi gli edifici, a risistemarli, ad affittarli alle famiglie degli ebrei. Ideando uno spregiudicato gioco di finanza virtuale, bitcoin ante litteram -rimando alla lettura al libro per godersi i dettagli della funambolica operazione economica.
Perché la decisione di raccontarlo sotto forma divulgativa invece che documentarlo in una ben più prestigiosa pubblicazione scientifica? “Mi ha stimolata l’idea di far comprendere a tutti la bellezza del mio lavoro e, più in generale, della cultura e della storia, oggi così denigrate. E infatti ho scritto un libro smilzo, in formato tascabile, leggero anche nell’aspetto. Non solo. Questa vicenda fa riflettere su come una piccola ambizione personale può sconvolgere il destino di tante famiglie che non c’entrano nulla. Non è così anche oggi?”
E di Carlo Pitti, che idea si è fatta? “Non era un uomo malvagio. Piuttosto un funzionario solerte, che cercava l’approvazione del suo padrone per acquisire potere e ricchezza. Non odiava gli ebrei, che erano solo pedine nella sua scacchiera e in quella di Cosimo. Più realista del re, applicò meticolosamente e senza fare eccezioni gli ordini ricevuti. La banalità del Male, una volta di più”.

Viviana Kasam