L’intervista a Mauro Covacich
“Il cuore è l’altro dentro di noi”

Terza media. Prima di cominciare a leggere ad alta voce, la professoressa abbassava le tende, accoglieva la penombra, lasciava che gli sguardi riposassero, che i pensieri prendessero il volo. Poi erano pagine vive, stampate dal libro alla mente, impossibili da cancellare. Qualcuno a Trieste la ricorda per l’aiuto che quel momento di lettura ha offerto a chi voleva diventare un cittadino migliore, qualcuno decise allora che da grande avrebbe fatto lo scrittore.
Mauro Covacich, per esempio: come molti suoi concittadini che si sono fatti valere ha deciso di navigare nel mare grande, oggi vive stabilmente a Roma. Arrivato al successo, alla sua città ha dedicato di recente un omaggio indimenticabile (La città interiore, La Nave di Teseo editore) e oggi è già in libreria Di chi è questo cuore, il suo ultimo libro. Proprio su quelle pagine, tutte dedicate alle questioni di cuore e alle questioni del cuore, dalla cardiologia all’urgenza di amare e di dichiarare i nostri sentimenti, la sua maestra è tornata con la sua calda voce e lo scrittore le rivolge un pensiero struggente.

Che cosa si leggeva, in quella classe?
Letteratura di vario genere, brani scelti con cura, apparentemente difficili, anche da Dante, Canetti, London, ma sempre resi alla nostra portata. Parole che non posso dimenticare.

Eppure è su una lettura particolare, apparentemente la più scontata, in un’aula scolastica, che in Di chi è questo cuore ci si sofferma.
Sì, ho voluto porre innanzi a tutto il resto le pagine del Diario di Anne Frank ascoltate allora per la prima volta. Abitavamo allora nella periferia triestina, nel rione di Valmaura, non lontano dalla Risiera di San Sabba, che fu l’unico campo di sterminio operante in Italia. Conoscevo il luogo e mi aggiravo spesso lì intorno per portare all’aperto il cagnolino che avevamo allora. Ma solo ascoltando quelle pagine ho cominciato a capire, a pormi delle domande.

Vedere, constatare non bastava?
No, non basta vedere. Bisogna capire.

Che tipo di lettura, che tipo di letteratura è quella del Diario, vista oggi con gli occhi di uno scrittore affermato? Si tratta solo di educazione civica, di raccontare ai giovanissimi quello che è stato?
Da allora ho riletto e riascoltato più e più volte il Diario. Ovviamente la forza della testimonianza è immensa. Ma enorme, forse ancora più grande, è il valore letterario. Chi ha assassinato quella ragazzina non ha compiuto solo un mostruoso delitto. Non ha solo spento un grande cuore. Ha anche privato l’umanità di una promessa. La promessa di una scrittrice senza pari.

Eppure la scoperta di Anna sembra intuire abbia costituito anche la scoperta del mondo femminile, anch’esso fortemente presente nei tuoi libri e in questo ultimo in particolare.
Certo, la voce dal Diario era quella di una coetanea delle mie compagne di classe. E ho cominciato a guardarle, a pormi delle domande, a chiedermi se erano dunque questi i pensieri di cui potevano essere capaci le ragazze. Devo confessare che in quella voce che continua a parlarmi senza mai declinare io credo di ascoltare anche la voce della figlia che non ho mai avuto, che non potrò mai avere.

Un’altra voce che fa risuonare sofferenza e valore letterario ricorre nelle pagine di questo ultimo romanzo.
Sì, quella di Etty Hillesum. Anche lì un passaggio necessario, inevitabile, per comprendere che come la scrittura può certo costituire una testimonianza lancinante, ma in quel picco dove si spinge oltre ogni limite immaginabile e si fa pienamente umana, dove apre il suo cuore al mondo, lì sta il suo massimo valore letterario. C’è una voce che mi parla di cui riferisco in questo ultimo mio libro. E mi dice che non basta dire la verità. La verità assume tutto il suo valore quando comporta un costo, quando porta con sé l’inevitabile messa a nudo di sentimenti inconfessabili e di paure che non vorremmo ammettere. Anne Frank e Etty Hillesum sono per me la più limpida dimostrazione di questo fatto.

Torniamo sui banchi di scuola. Nel libro lo scrittore Covacich osservato dall’adulto di oggi ha appena nove anni. Accanto a lui appare un compagno di classe che gli impartisce una lezione per la vita.
Eravamo poco più che bambini, inconsapevoli eppure tormentati. Facevo la strada per raggiungere la scuola con un coetaneo, Umberto. Lungo la via eravamo amici. Appena entrati in classe,
in mezzo agli altri compagni mi trasformavo e partecipavo attivamente, senza complessi, alla crudeltà dei più forti che facevano di quel bambino una facile preda. Agivo nel gruppo e mi nascondevo nel gruppo. Fu proprio quel compagno di classe a insegnarmi che io, come tutti, non solo ho un nome, ma devo anche rispondere del mio nome. Devo rispondere delle mie azioni, mimetizzarmi nel branco non può in ogni caso aiutarmi.

Quella lezione che si comprende leggendo il libro è una lezione per noi tutti e per i nostri tempi. Cosa avvenne allora?
Eravamo assieme, Umberto e io, sulla via del ritorno. Lui mi chiese di tenergli un attimo la cartella per togliersi la giacca. Poi mi guardò negli occhi e mi chiese:
“Ma tu, perché quando siamo soli mi aiuti e mi sei amico e quando sei con gli altri invece sei tutto diverso”? Ho cominciato allora ad aprire gli occhi e da allora per tutta la mia vita ho continuato a pensarci.

Fino ad arrivare a questo libro. Un libro dove il cuore è il muscolo al centro della nostra fisicità senza essere nostro e contemporaneamente lo svincolo delle emozioni e degli affetti, della sete di giustizia che non si lascia mettere a tacere.
Il cuore è la sede della nostra vita e del nostro amore. Ma anche della nostra capacità di sentire il mondo. Della nostra capacità di esserne testimoni. Anch’io, che non sono reduce di niente, per quanto possibile voglio essere un testimone. Non voglio mettere il mio cuore a tacere. Non voglio restare in silenzio. Al di là della prova letteraria, il mio libro vorrebbe servire a dire al mondo che noi non rispondiamo solo al nostro nome, ma anche del nostro nome.

Torniamo alla fisicità che apre Di chi è questo cuore e alla passione, quasi all’ossessione, per la prova sportiva, per l’allenamento individuale, per la gara del corpo che pervade tutti i tuoi romanzi. Il libro si apre con la scoperta di un’anomalia cardiaca.
Il corpo è la nostra unica certezza, ma talvolta qualcosa ti dice: “Non è così come tu credi”. Perché il cuore non è il corpo. Continua a battere a prescindere da noi e può smettere di battere anche quando vorremmo che continuasse. Ci lascia quando non vorremmo. Per questo, se il corpo siamo noi, il cuore è la presenza dell’altro dentro di noi. La cosa più intima e più nostra, in realtà, non ci appartiene.

Guido Vitale, Pagine Ebraiche Marzo 2019