Le donne nell’ebraismo,
tra diritti e parità di genere

kotelIl recente scontro al Kotel (Muro Occidentale) di Gerusalemme tra le attiviste di Women of the Wall – movimento femminista religioso che rivendica la parificazione di ruoli tra uomini e donne all’interno dell’ebraismo – e un folto gruppo di giovani haredim ha generato in queste settimane un dibattito che va al di là dell’episodio stesso. In molti ambienti del mondo ebraico ortodosso la vicenda ha riportato l’attenzione sul ruolo della donna all’interno dell’ebraismo, su come si concilino le regole di una tradizione millenaria con l’emancipazione femminile, con l’uguaglianza di genere, su come regole diverse per uomini e donne siano da intendere come una discriminazione o meno. La discussione ha trovato posto anche sul Portale dell’ebraismo italiano (leggi) e abbiamo interpellato alcune voci, soprattutto femminili, per avere un quadro più chiaro su quali siano le questioni più sentite. “Credo che il tema vada diviso in due parti: da una parte il ruolo della donna in generale nella tradizione ebraica, dall’altra i tempi moderni. – spiega a Pagine Ebraiche rav Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano e presidente dell’Assemblea rabbinica italiana – La donna ha sempre avuto un ruolo fondamentale per l’ebraismo: c’è un passo della Torah in cui c’è una discussione tra Sarah e Avraham, e Sarah a un certo punto dice più o meno, ‘Decide Dio chi ha ragione’. E Dio risponde ‘Tutto ciò che Sarah ti dice, ascoltalo’. Da questo i chachamim deducono che Sarah è superiore ad Avraham in profezia. Quindi non possiamo parlare di un ruolo secondario. Abbiamo profetesse donne, donne capi politici, e così via”. Il rav, nel ricordare l’importanza delle donne nelle fonti, porta poi l’esempio di un midrash in cui compare Miriam davanti al padre, capo del Sinedrio, “che aveva deciso durante la persecuzione in Egitto di non fare più figli perché ‘tanto sarebbero stati uccisi’. Miriam gli dice, ‘il tuo decreto è peggiore di quello del faraone perché lui ha deciso di uccidere i maschi, tu di non far vivere nessuno. E poi il decreto del faraone prima o poi finirà, i malvagi non durano’. Il padre ascolta Miriam e decide di avere figli. E da quella decisione nasce Moshe Rabbenu”. “Questo per dire – aggiunge il rav – quanto la donna abbia un ruolo chiave nella fonti dell’ebraismo. E va ricordato che nelle discussioni talmudiche tra uomini e donne i ruoli sono sempre alla pari”. Diversa è la situazione sul fronte delle regole ed è questo il tema più sensibile. “Ci sono degli obblighi che la Halakha (la legge ebraica) prevede per gli uomini e da cui le donne sono esentate, in particolare parliamo delle cosiddette mitzvot a tempo determinato. Qui le cose per uomini e donne non sono parallele”. Il riferimento è all’esenzione, ad esempio, dall’obbligo di dire le tre preghiere giornaliere, di mettere i teffillin (i filattèri) ogni mattina, di mettere il talled (lo scialle che si usa durante la preghiera). Obblighi validi solo per gli uomini, come solo gli uomini officiano le preghiere in pubblico. “Non c’è da stupirsi di questa impronta, che deriva da migliaia di anni di storia e tradizione – sottolinea Livia Ottolenghi, assessore alla Scuola dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane – Certo la nostra società oggi è molto diversa e il ruolo femminile non è quello di allora: le donne sono professioniste, indipendenti, emancipate, con una famiglia. Forse bisognerebbe cercare di far partire da noi una riflessione maggior sul coinvolgimento delle donne al culto, sempre però nel rispetto dei confini della Halakha. Sono esigenze culturali che esistono oggi e credo non potranno che crescere in futuro”. Ottolenghi sottolinea l’importanza formativa per i giovani maschi di condurre la tefillah, la preghiera. “Questo per le ragazze manca. Anche se per il secondo anno ho partecipato alla lettura della Meghillat (il Rotolo – in questo caso di Esther – che si legge per Purim) delle donne al Pitigliani di Roma (una lettura condotta dalle donne per un pubblico di sole donne, permessa nell’alveo dell’ortodossia): è difficile ma è un’esperienza molto bella proprio perché impegnativa”. Proprio la lettura della Meghillah ha aperto una nuova strada per Miriam Camerini, regista milanese e prima donna italiana a iscriversi al percorso offerto in Israele dal Beit Midrash (Casa di studio) Har’El di due rabbini ortodossi, rav Daniel Sperber, docente di Talmud all’Università di Bar Ilan, e rav Herzl Hefter, già docente alla Yeshiva University. L’istituto di studi rabbinici è aperto sia a uomini sia donne e quindi queste ultime possono, al termine del percorso, essere ordinate rabbini. Un’opzione che però per molto mondo ortodosso non è considerata valida (si veda una recente lettera di rabbanim americani). Ma per Camerini questo non è un problema: “Chi decide cosa è superato dalla storia oppure no? Io mi sento all’interno di un’onda lenta che macina a acqua e piano piano porta al cambiamento. Un esempio? Le partenership minianim (comunità di preghiera egalitarie) in cui solitamente un uomo conduce la tefillah obbligatoria (Mincha e Shachrit) mentre a una donna è affidata la conduzione ad esempio della kabalat Shabat. Un modo per rispettare l’Halakha e allo stesso tempo affidare anche alle donne un ruolo di prestigio nel culto”. Camerini spiega di aver trovato nel Beit Misdrah Har’El una naturale risposta al suo desiderio di studio. “Sicuramente un uomo, che non ha provato sulla propria pelle il peso di queste esenzioni, non può capire cosa si prova. Non può capire cosa significa sentire e soffrire l’esclusione, come la sentivo io fino a 10 anni fa quando sono arrivata a Gerusalemme, dove poi ho capito che le cose non sono inamovibili”. Per lei come per Susanna Calimani, economista veneziana che lavora a Francoforte, è inevitabile parlare di un sistema in cui “le discriminazioni esistono”. “Io sono per trovare dei compromessi all’interno dell’ortodossia. – spiega Calimani – Ma un primo passo sarebbe ammettere che forse un minimo di discriminazione c’è. Credo che valga per tutte le questioni, anche per quelle laiche: non è facile per un uomo capire cosa significhi essere una donna, serve una buona dose d’empatia oppure di contatto con la problematica. Anche mio padre, per quanto sensibile, fino a che non sono nata io, finché io non gli ho posto dei problemi, per lui non erano probabilmente così importanti. Finché non ha visto che io soffrivo perché non contavo per minian, perché rimanevo fuori al tempio perché nella sinagoga piccola di Venezia non c’era il matroneo, lui come altri non si erano mai posti il problema ‘le donne dove si siedono?’. Sono problematiche che esistono ed è inutile negarle”.
Sulla divisione all’interno della sinagoga tra uomini e donne, il rabbino capo di Milano Arbib spiega che è una “divisione fondamentale e lo ricorda anche un Maestro come rav Joseph Soloveitchik. Se le donne però non sentono la tefillah, questo è un problema della struttura della sinagoga, si può mettere una mehizah (divisione) per rendere a tutti accessibile l’ascolto. Ma il Bet HaKnesset (la sinagoga) non è un luogo di incontro, è un luogo di preghiera, e mescolare uomini e donne rende difficile la preghiera, la separazione è un modo per concentrarsi sulla teffilah e non pensare ad altro”. A riguardo Calimani, in un discorso tenuto per la Giornata della Cultura ebraica dedicato alla donna, allarga la prospettiva e spiega la sua sensazione di marginalità: “Qualcuno si dimenticava di portare i libri in matroneo? Poco male, andavo a chiederne agli uomini. Il matroneo era inaccessibile causa lavori in corso? Poco male, mi mettevo a spostare le macerie e le seggiole rotte. Ci si scordava di mettere le candele per Tishabeav in matroneo? Poco male, scendevo a prenderle. Le donne avevano poco spazio durante il Tashlich? Poco male, chiedevo il permesso per avere uno spazio più ampio dedicato alle donne. Ma ogni volta pesava sempre di più. Un po’ alla volta capii che il problema era bidirezionale: da un lato gli uomini con la frequente disattenzione al mondo femminile e alle esigenze di chi, pur non essendo obbligato, sceglieva di adempiere alle mitzwoth; dall’altro le donne rassegnate e un po’ passive, che stavano là dove le avevano messe. Forse perché quello era sempre stato il loro posto, o forse (e allora beate loro) non ci si sentivano tanto a disagio quanto mi ci sentivo invece io”. Serve, aggiunge a Pagine Ebraiche, un impegno femminile, che le donne “si scrollino di dosso un po’ di passività: per le conquiste ci vuole impegno. Se no rimane lo status quo. Anche le suffraggette all’inizio non erano ascoltate”. L’esigenza, sottolinea, non è quella di rivoluzionare come nel caso dei reform ma “sapere ad esempio dai nostri rabbini quale la loro posizione rispetto alle donne che hanno voglia di fare”.
Per rav Arbib, il cambiamento chiave nella modernità rispetto al ruolo della donna è stato il peso dello studio: “prima, a parte rare eccezioni, le donne non studiavano. Succedeva fra gli ebrei, succedeva nel mondo circostante. Questa cosa è cambiata: ci sono scuole di altissimo livello, ortodosse, che preparano studi molti approfonditi. La scuola Beit Yaakov in Polonia è stata capostipite di questo cambiamento ed è un dato molto importante. E da qui ne sono nate molte altre”. Se a questa evoluzione possa seguire ad altre novità sul ruolo femminile, il rav risponde: “il cambiamento non può venire a sconvolgere la Halakha. L’argomentazione che tutti possono interpretare l’Halakha è tipicamente riformata. Non è così. Ci sono autorità rabbiniche in ogni epoca, a cui tutti facciamo riferimento. Le citazioni di opinioni più o meno facilitanti di vario tipo sono citazioni di persone rispettabili che molto spesso lasciano il tempo che trovano. Quello che non si capisce che il mondo ortodosso ha i suoi tempi, io pongo una domanda che può avere un risposta oggi ma anche in un periodo molto più lungo, però io devo aspettare una risposta, e devo fare riferimento ai grandi di una generazione. Solo così le cose possono andare avanti. Così è accaduto ad esempio per il Beit Yaakov e così accade per il resto”. Serve dunque tempo e, riconosceva su queste colonne Anna Segre, docente di un liceo a Torino, “nel mondo ebraico ortodosso negli ultimi decenni sono stati fatti grandi passi avanti per quanto riguarda il ruolo della donna (ed è questa la ragione per cui, personalmente, ritengo che non sia necessario allontanarsi dall’ortodossia per sperare di vedere un giorno riconosciuti quei diritti che oggi ci sono negati)”. Dall’altro, aggiunge Segre, meglio non usare la tradizione come scudo: “la storia dell’umanità, in tutte le tradizioni e culture, è in gran parte una storia di diseguaglianze e prevaricazioni, ma questa non è una buona ragione per mantenerle”. Le problematiche sono dunque sul tavolo e la discussione si evolve ed diretta a orecchie in grado di ascoltare e rispondere. “Tutto ciò che Sarah ti dice, ascoltalo”.

Daniel Reichel