Anniversari
e lunghe durate

claudio vercelliIl fascismo italiano non è nato in piazza San Sepolcro, il 23 marzo 1919, con la fondazione dei Fasci italiani di combattimento. Come movimento (poi partito ed infine regime), doveva ancora fare molta strada per definirsi al pari di un soggetto politico unitario, quindi in grado di condizionare per davvero la vita del nostro Paese. Ne è riscontro che alla fine di quell’anno i Fasci potevano contare su una trentina di circoli in tutta Italia, con meno di diecimila aderenti complessivi. Nel novembre del 1919, presentandosi alle elezioni politiche nel collegio di Milano (nelle loro liste avevano, oltre a Mussolini, anche Tommaso Marinetti e Arturo Toscanini), i fascisti non riuscirono ad eleggere nessun candidato. Solo due anni dopo, trentacinque deputati riuscirono ad entrare in Parlamento, tuttavia grazie alle candidature nei Blocchi nazionali, ossia liste con candidature di coalizione. La vera svolta sarebbe poi stata definitivamente impressa da Mussolini nel novembre del 1921, quando fu fondato il Partito nazionale fascista. Ma si trattava già di un’altra storia, poiché in quesi due anni si erano consumate molte vicende: il «biennio rosso», con lo scontro tra capitale industriale e agrario, da una parte, e i lavoratori dall’altra; l’impresa dannunziana di Fiume; lo sviluppo repentino, prezzolato da alcuni datori di lavoro e tollerato da molte istituzioni, dello squadrismo; il clima da guerra civile che si respirava in diverse parti del nostro Paese, con la crisi della democrazia liberale; lo sviluppo di una retorica sulla «vittoria mutilata» che, nascondendo le concrete ragioni per le quali l’Italia era stata trattata al tavolo dei vincitori come parte minore, ossia subalterna, rilanciava invece il nazionalismo più esasperato. Più in generale, tra la fine della Grande guerra e la crisi dell’ottobre del 1922, quando Mussolini, comunque leader di una minoranza, sarebbe stato chiamato da Vittorio Emanuele III a presiedere il governo, la politica italiana aveva subito una velocizzazione e una radicalizzazione senza pari. Le classi dirigenti liberali, surclassate anche dalla rappresentanza parlamentare socialista e popolare, si erano rivelate al medesimo tempo impotenti, inadeguate e velleitarie. Impotenti dinanzi all’evidenza che con il conflitto bellico la collettività era entrata definitivamente in gioco rispetto alle dinamiche politiche: ad essa, infatti, andava ora chiesta una qualche forma di consenso rispetto alle decisioni da assumere nella gestione del Paese. Inadeguate poiché incapaci di pensare ad una società che non fosse, per più aspetti, ancora quella notabiliare dell’Ottocento, nel mentre – per l’appunto – tutto, o quasi, stava cambiando. Velleitarie, commettendo poi un tragico errore, nel momento in cui una parte di esse pensò di potersi giovare della presenza dello squadrismo fascista per gestire pesantemente i molti conflitti sociali ed economici. Tuttavia, se è vero che il fascismo per come poi l’abbiamo conosciuto (e studiato) assume una fisionomia politica e ideologica più compiuta solo dopo il 1919, non è meno vero che la sua impronta profonda l’aveva già maturata, essendo il prodotto della precedente esperienza bellica. La Prima guerra mondiale, infatti, è stata l’autentica matrice di tutti i totalitarismi novecenteschi, alimentando una serie di suggestioni che si sarebbero tradotte in opzioni politiche antidemocratiche: la convinzione che la pace sia la continuazione della guerra sotto altre spoglie; l’idea che il partito possa e debba essere essenzialmente un organismo militarizzato o che comunque debba rimandare al sistema di relazioni della caserma così come della trincea; la visione di una società dove la prevaricazione organizzata dei più forti debba comunque avere la meglio, poiché i “deboli” non hanno diritto di esistere; l’avversione, se non l’orrore, contro ogni forma di pluralismo, non solo politico ma anche e soprattutto sociale e culturale; il disprezzo per tutto ciò che non sia espressione celebrativa e apologetica dei “valori” dei vincitori. L’elenco è lungo e potrebbe quindi proseguire per molte righe. Se non pagine. Continuare a liquidare il fascismo storico (quello che cessò di esistere con la vittoria nella Seconda guerra mondiale degli Alleati e dei sovietici) come il prodotto di “ignoranza”, di pavidità, di calcolo occasionale e così via rivela – a tutt’oggi – l’incapacità di comprenderne la vera fisionomia. Soprattutto laddove invece esso intervenne, con crescente consapevolezza, nelle società europee, fornendo false risposte a problemi reali: la nuova rappresentanza politica collettiva; la redistribuzione della ricchezza sociale (ed in particolare di quella patrimonializzata e incamerata da pochi con la guerra medesima); le inquietudini, le paure ma anche le molte attese che accompagnavano larghe parti della popolazione italiana ed europea; il bipolarismo antagonistico che andava sempre più accentuandosi con l’Est russo, dove la rivoluzione del 1917, dopo un quadriennio di lacerante guerra civile, venne invece consolidandosi. In queste, come in altre cose, il fascismo – che manifestava un notevole grado di opportunismo e di camaleontismo – seppe inserirsi abilmente, giocando le sue poche carte a disposizione e trasformandole in formidabili strumenti di autopromozione. Il 1919, a ben pensarci, segna la fine di un mondo, quello che ancora si era confrontato sui campi di battaglia. Da allora in poi, infatti, nulla sarebbe stato più come prima.

Claudio Vercelli