Pagine Ebraiche maggio 2019
“Il mio viaggio è il fregio della vita”

È stata la mitica Scuola popolare di musica di Testaccio diretta da Giovanna Marini ad ospitare nelle scorse ore la presentazione di “Al rombo del cannon” (ed. Neri Pozza), l’ultimo poderoso lavoro di Emilio Jona scritto assieme a Franco Castelli e Alberto Lovatto. Un’opera che ricorda come la Grande Guerra, nonostante l’orrenda carneficina, sia stata anche una straordinaria fucina di canti popolari. Il dolore della partenza, l’orrore della trincea, la morte negli assalti alla baionetta, lo strazio delle famiglie, il lutto infinito di un’intera popolazione che vedeva decimata la sua gioventù.
Oltre a questa densa opera di ricostruzione Jona ha voluto lasciare il segno con nuovo romanzo, Il fregio della vita (sempre pubblicato con Neri Pozza). Racconta Jona nella grande intervista pubblicata sul numero di maggio di Pagine Ebraiche in distribuzione: “Ho cercato di riannodare i fili di tante cose che mi è capitato di incontrare nella vita. Certo, c’è il dramma dell’Europa in fiamme, ma anche la sofferenza e l’enigma che sta nella vita di ognuno. Ho pensato molto scrivendo al ritmo della Sonata a Kreutzer di Tolstoj, alla tragedia della Mite di Dostoevskij. Insomma, c’è un’ambientazione storica e geografica, ma anche la speranza di un racconto universale. Il passato non è altro che una dimensione del presente”.

Schermata 2019-05-07 alle 13.47.41Emilio Jona è in viaggio. Chi lo conosce bene e lo segue con affetto sa che non è facile trovarlo a casa. Troppo da scrivere, troppa gente da incontrare. E con due libri freschi di stampa in libreria troppe presentazioni in giro per l’Italia da curare. Fra pochi giorni sarà a Roma per una giornata dedicata al canto della Grande guerra. Il suo “Al rombo del cannon”, uno studio colossale di quasi mille pagine sul canto popolare che faceva vibrare l’Italia di cento anni fa prenderà suono alla Scuola di musica di Testaccio assieme a una vecchia amica, Giovanna Marini. Cuori instancabili e momenti indimenticabili per chi ha la fortuna di vedere da vicino il loro amore per la vita e il loro impegno a partecipare alla vita della gente. Ma non basta, perché Emilio Jona continua il suo viaggio e senza mai abbandonare la trasversalità della grande cultura torinese del Novecento, fra una cosa e l’altra, ha deciso di concedersi, se novantadue anni vi sembran pochi, anche lo svago di un nuovo romanzo. Lo ha titolato “Il fregio della vita”. Un romanzo che segue a molti suoi altri, e che apparentemente assomiglia a molti scritti altrui, perché è ambientato nel cuore della Mitteleuropa. Eppure porta con sé qualcosa di nuovo. Lo scenario è inequivocabile. Vienna alla vigilia dell’Anschluss, ma anche il lago di Costanza su cui si affacciano tutte le identità dell’Europa centrale, l’orizzonte indimenticabile di Bregenz, il Grossglockner. E lo sbalzo geografico non basta, perché qui si sfiorano i grovigli di Schnitzler e la psicanalisi.

Con questo romanzo sembrano lontane le cadenze, che segnano anche le pagine di Fenoglio, della grande scrittura piemontese che ha segnato le tue prime opere. Lontana la maestà di un Manzoni che hai tanto amato. Che ci fai in giro in un territorio letterario sovraffollato come la Mitteleuropa?
Era tanto tempo che pensavo di scrivere questa storia. Semplicemente ho pensato di ambientarla nella cornice che mi sembrava più adatta. Ma un romanzo non è solo uno sfondo, un paesaggio. Sono soprattutto i protagonisti e le loro vicende a parlare.
C’è la storia intima, accidentata e misteriosa di un amore. C’è la grande storia dell’Europa e l’inizio della tragedia della Seconda guerra mondiale, delle persecuzioni, dello sterminio. Un binocolo capace di guardare lontano, ma anche dentro l’animo della gente. C’è un nano che sa molte cose… Prova a spiegare senza svelare i segreti riservati a chi arriverà alle ultime pagine.
Devo confessarti che faccio molti sogni in cui appaiono dei nani. Li vedo come dei personaggi trasversali, capaci di aprire le porte di un mondo segreto. Per me il nano è Karl Kraus, il polemista e giornalista solitario che tormentava la coscienza viennese dicendo la scomoda verità a ogni costo. In questo caso volevo riannodare in una storia tante questioni di passione e di amore, che in fondo sono quelle più inesplicabili, più affascinanti. Sono i misteri che accompagnano in un modo o nell’altro la vita di noi tutti. E volevo provare a farlo in un modo per me nuovo.
Che modo?
Ho cercato di riannodare i fili di tante cose che mi è capitato di incontrare nella vita. Certo, c’è il dramma dell’Europa in fiamme, ma anche la sofferenza e l’enigma che sta nella vita di ognuno. Ho pensato molto scrivendo al ritmo della Sonata a Kreutzer di Tolstoj, alla tragedia della Mite di Dostoevskij. Insomma, c’è un’ambientazione storica e geografica, ma anche la speranza di un racconto universale. Il passato non è altro che una dimensione del presente.
Romanzo caleidoscopio, ma anche romanzo nel romanzo, a giudicare da come si dipana il tuo racconto.
C’è un diario che è un libro a sé stante. Racconta di una stessa relazione, di uno stesso amore, ma vista dall’altra parte, dalla prospettiva avversa.
Mentre ti misuravi con questa prova letteraria stavi lavorando al grande studio dedicato al canto della Grande guerra. Un altro viaggio fra la tua esperienza di ricercatore delle tradizioni musicali popolari e la passione per le vicende umane flagellate dalla storia.
Avevo già lavorato a lungo sull’espressione musicale popolare, concentrandomi soprattutto sul canto degli operai e dei contadini. Il lavoro, la lotta alla miseria, la speranza di giustizia. Una miniera di atmosfere, di vicende, di espressioni che appartengono alla vita vera della gente vera. Ma questa ricerca sul canto degli italiani nella stagione della Grande guerra è stato per me molto importante.
Non è un periodo storico già sufficientemente esplorato?
Attraverso l’espressione popolare e attraverso la cultura di massa, ma anche leggendo con le chiavi della storia, della sociologia, dell’analisi economica, è possibile comprendere molto di più.
Per esempio?
Sappiamo tutti che in quegli anni, di fronte all’emergenza e di fronte al dramma, si è fatta l’Italia e si è formata una lingua italiana collettiva. Ci rendiamo meno conto di quanto si sia prodotto, di quanto si sia scritto. Si scambiavano circa 800 mila lettere al giorno. Miliardi di segni, il più delle volte molto semplici, ma sempre vivi. Testimonianze indelebili e spontanee di milioni di persone che soffrivano. Se cerchiamo in quell’orizzonte troviamo un continente di umanità da esplorare come oggi è forse difficile immaginarselo. E ho ritrovato nel canto dei militari lo spirito che ho tanto frequentato del canto delle mondine. Perché le mondine sono come soldati. Il viaggio, i treni, le tradotte, il rancio, la libera uscita, la necessità di resistere alla fatica.
A cosa serviva tutto questo cantare?
Certo c’era il canto di propaganda. Ma il canto spontaneo serviva anche a lavorare meglio, a darsi coraggio a ritrovare la speranza. È ora di rimettersi in ascolto di quelle voci. In questa stagione infame di muri, barriere, complottismi e piccole ambizioni di sovranità, questa è la mia militanza culturale.

Guido Vitale, Pagine Ebraiche maggio 2019

I canti del coraggio al rombo del cannone

Il 1918 sembra lontano, ma le ferite dell’Europa tornano incessantemente a ricordarci come i nodi irrisolti di un secolo fa gravino ancora sui nostri destini. E al rombo del cannon, per prendere a prestito le parole di un celebre canto di quella stagione che oggi fa il titolo di un grande libro di Emilio Jona, si continua a cantare. Sarà proprio Emilio, infatti, con Giovanna Marini e i tanti amici raccolti a Roma attorno alla celebre Scuola di Musica di Testaccio a far vibrare in una serata di maggio quei canti di disperazione e di speranza tradita che accompagnarono la stagione insanguinata del 14-18.
A cento anni dalla sua conclusione, spogliata dalle retoriche nazionaliste che hanno avvelenato il Novecento e che ora si riaffacciano in maniera inquietante sotto altre forme, la Prima Guerra mondiale appare ormai chiaramente come un bagno di sangue senza precedenti, che all’Italia costò seicentomila morti e oltre un milione di feriti e che nessuna ideologia nazionalista è mai stata capace di giustificare. Tenendo la barra dritta in un oceano di rievocazioni e approfondimenti storici, Emilio Jona ha deciso di guardare più a fondo nel cataclisma che travolse l’Europa e aprì le tragedie del secolo scorso, tornando allo studio del canto popolare e all’espressione, spontanea e indotta, della gente comune, della collettività degli italiani. “Al rombo del cannon”, il poderoso studio di quasi mille pagine che arriva ora nelle librerie, è un lavoro coerente con le precedenti ricerche sul canto popolare che Jona ha condotto negli scorsi anni, ma offre anche qualcosa di nuovo, perché ci porta lontani dalle scrivanie degli strateghi militari e dai salotti della politica per aiutarci a rileggere gli anni del conflitto mondiale e delle grandi sofferenze ascoltando la viva voce di chi lo strazio di quegli anni lo ha sofferto in prima persona.
Un lavoro enorme e straordinario, corredato, nella bella edizione allestita da Neri Pozza, da due dischi ricchi di testimonianze sonore.
Per compiere questa grande opera Jona ha messo in campo tutto il cuore e tutta l’esperienza che ha raccolto nel corso di una vita, ma si è anche avvalso di compagni di strada formidabili. Franco Castelli dirige il Centro di cultura popolare presso l’Istituto di storia della Resistenza e della società contemporanea di Alessandria. Oltre a saggi sulle fonti orali ha pubblicato lavori sulla ritualità carnevalesca e sulla poesia dialettale.
Alberto Lovatto ha svolto ricerche di storia orale e di memoria del movimento operaio e si è occupato di storia e di memoria della deportazione.
Opera vastissima e accessibile in modi diversi agli studiosi così come anche ai comuni lettori, la grande ricerca dimostra che nonostante l’orrenda carneficina la Grande Guerra fu anche una straordinaria fucina di canti popolari. Durante il conflitto si cantò molto, come non era mai avvenuto in passato e come non avverrà più nel futuro, ma mentre i canzonieri ufficiali risuonarono di inni patriottici colmi di retorica, la guerra realmente cantata dalle classi popolari ci racconta il dolore della partenza, l’orrore della trincea, la morte negli assalti alla baionetta, lo strazio delle famiglie, il lutto infinito di un’intera popolazione che vedeva decimata la sua gioventù. Si tratta di uno studio di ampio respiro storico, antropologico, sociologico e folklorico che tenta una lettura e una sistematizzazione a tutto campo. “Al rombo del cannon” compendia gli esiti di un’ampia ricerca effettuata, nel corso di molti anni, dagli autori del libro e dai maggiori ricercatori italiani di cultura orale tra i soldati reduci da quel conflitto e tra le persone che ne hanno conservato memoria. Corredato da illustrazioni d’epoca e accompagnato da due cd con 161 registrazioni originali, il libro restituisce le ansie, gli affetti, le sofferenze, le invettive, in una parola le passioni di chi partecipò a quell’immane conflitto, che fu un’immersione terribile e cruenta nella modernità e nei suoi nuovi terrificanti strumenti di morte: cannoni a lunga gittata, aeroplani, carri armati, gas asfissianti. Con sei milioni di soldati mobilitati, fu anche una guerra che ruppe i limitati confini linguistici e culturali, fece incontrare e dialogare popolazioni lontanissime l’una dalle altre e realizzò una prima reale unificazione nazionale dando vita a un italiano popolare comune. “Al rombo del cannon” indaga tutti questi versanti della «guerra cantata» analizzandone le forme musicali e letterarie.
“Ci si può legittimamente chiedere – si domandano oggi gli autori – a più di cento anni dall’inizio della Grande Guerra, che senso abbia proporre un libro sul canto popolare sbocciato in mezzo ai soldati combattenti sui monti del Trentino o nelle trincee del Carso, quando da subito (la prima raccolta di canti di guerra è del 1917) siamo stati inondati da canzonieri più o meno ufficiali, dai titoli variamente espliciti: Canti della trincea, Canti di guerra, Le canzoni della guerra, Canzoni in grigioverde, Canti dei soldati, Canti degli Alpini e così via. Ci sono ragioni molteplici che giustificano questa nostra ricerca, e che consistono sia nell’importanza non comune dell’impetuoso fiume di canti ispirati da quella guerra (più di tutte le altre che la precedettero o la seguirono), sia nella particolare articolazione del nostro lavoro. Iniziamo ricordando l’osservazione di Roberto Leydi, secondo cui l’Italia, che non aveva conosciuto la formazione di un “canzoniere nazionale” già nell’Ottocento (come invece la Francia), trova, nei canti alpini e militari connessi alla Prima Guerra mondiale, la base per un suo repertorio appunto “nazionale”, interclassista, cioè comune al mondo popolare e alla società borghese e anche interregionale. In quella guerra di cento anni fa non nacque solo un ricco e importante canzoniere nazionale ma anche l’Italia moderna, poiché, come è stato ampiamente dimostrato e documentato dagli storici della lingua, primo fra tutti Tullio de Mauro, l’esperienza inedita di un esercito di massa formato in prevalenza da contadini dialettofoni e illetterati, buttati all’improvviso nella fornace di un conflitto di lunga durata, determinò e impose, in una situazione di emergenza estrema, la creazione di un codice di comunicazione comune, che fu l’italiano popolare”.
Il resto è lacrime, è ferite impossibili da guarire. Ma è anche canto, molto spesso espressione spontanea e sincera. Coraggio di affrontare il buio giorno dopo giorno. Liberazione di una ardua speranza.

(7 maggio 2019)