Di ritorno da Israele

baldacciSono appena tornato dal mio ottavo viaggio in Israele: tanti miei amici ebrei (e anche qualche non ebreo) ne hanno fatti molti di più, ma l’esperienza del viaggio è sempre soggettiva, perché si fonda su un vissuto fatto di emozioni e di sentimenti, oltre che, naturalmente, di esperienze concrete e di riflessioni sulle stesse. Tanto più che quello che ho appena concluso è un viaggio dell’Associazione Italia-Israele di Firenze (il terzo) e quindi ho continuamente confrontato le mie impressioni con quelle degli altri compagni di viaggio.
Tante cose si potrebbero dire ma voglio sottolinearne una su tutte: la grande difficoltà di trasmettere all’esterno, soprattutto in Europa, la realtà di Israele. Una realtà fatta di impetuoso sviluppo economico, di ottimismo, di fiducia, di gioia di vivere, di realismo e al tempo stesso di grande progettualità proiettata sull’avvenire. In Europa quando si parla di Israele scatta automaticamente – sia in chi è ostile ma anche in chi è favorevole – il riflesso di pensare al conflitto con i palestinesi. Ma vivendo la vita quotidiana di Israele ci si rende conto che il conflitto – che naturalmente esiste – occupa un ruolo assai inferiore rispetto al lavoro, allo studio, al divertimento, a qualsiasi altra attività.
Si ha nettamente l’impressione che la famosa frase di Abba Eban (“i palestinesi non perdono l’occasione di perdere un’occasione”) non abbia più valore perché quella frase sottintendeva che ci sarebbero state altre occasioni (che magari i palestinesi avrebbero di nuovo perso). Sembra che oggi non sia più così: le occasioni sono finite, non ci saranno più, non ci sarà più l’occasione di costituire uno Stato palestinese. Troppi e troppo privi di senso sono stati i rifiuti: dalla Risoluzione ONU 181 del 27 novembre 1947 agli accordi di Oslo del 1993, dal piano Clinton a Camp David del 2000 fino alla dimenticata (per fortuna) offerta di Olmert del 2007. Non è un caso che il piano Trump – comunque sia configurato nei particolari – prenda atto della realtà e faccia cadere il tabù dello Stato palestinese.
Che cosa resta allora? Resta la realtà di Israele, uno Stato ebraico ma al tempo stesso multinazionale: gli arabi che vivono in Israele e ne sono cittadini sono in grande maggioranza integrati, vivono una realtà non molto diversa da quella che noi conosciamo – fatte le debite differenze – in Alto Adige, lavorano, studiano, occupano i ruoli più vari in maniera non molto diversa dai cittadini ebrei: sono operai, impiegati, professionisti, medici, professori, giudici. Certo, le proporzioni non sono le stesse per i ruoli più alti, ma la linea di tendenza è chiara.
E per la Giudea e la Samaria che cosa accadrà? Anche qui per chi vuol vedere senza pregiudizi la tendenza è chiara: sempre più la presenza ebraica si rafforzerà e si estenderà, ma si rafforzerà anche la simbiosi tra arabi e israeliani. Già oggi una buona parte degli arabi di Giudea e Samaria è impegnata in attività strettamente legate all’economia israeliana. Il movimento BDS è chiaramente fallito, anche se qualche colpo di coda si sentirà ancora. Certamente esiste il problema della rappresentanza politica degli arabi di Giudea e Samaria, ma credo che la famosa teoria di Sergio Della Pergola (se Israele vuol essere uno Stato ebraico non potrà essere democratico a causa della preponderanza demografica araba) appaia oggi molto più teorica che corrispondente alla dinamica dei fatti. Nel lungo periodo l’integrazione della popolazione araba nelle istituzioni israeliane avverrà in maniera assai meno traumatica di quanto si poteva prevedere alcuni anni fa. E ciò a causa della politica fallimentare di Arafat e del suo successore Abu Mazen, che si sono progressivamente estraniati dalla realtà del loro popolo, che – non teorizzandola ma praticandola – ha scelto un’altra strada rispetto alla contrapposizione frontale con Israele.
Resta il problema di Gaza e della presenza di Hamas. Ma Il radicalismo estremistico di Hamas è qualcosa di diverso, appartiene a un conflitto più generale, quello che vede impegnato soprattutto il mondo arabo a combattere l’islamismo politico. Gaza è comunque una realtà esterna a Israele, anche se la minaccia dei missili non può essere sottovalutata; ma è una minaccia militare, che può essere contenuta e poi eliminata, non coinvolge il processo di integrazione degli arabi di Israele, e di quelli che vivono in Giudea e Samaria.
Perché questa realtà non emerge in Europa, dove si continua ad avere una rappresentazione di Israele più o meno identica a quella di decenni fa? In primo luogo va tirata in ballo l’insipienza delle istituzioni internazionali: l’ONU (soprattutto attraverso alcune sue Commissioni, quella per i profughi e quella per i diritti umani), che ha alimentato nella dirigenza palestinese l’illusione di essere una reale rappresentanza statuale; l’Unesco, che in alcuni casi è andata assai oltre la decenza, giungendo a negare la presenza storica ebraica a Gerusalemme; l’Unione Europea, con i suoi vari esponenti, in particolare l’Alto rappresentante per gli affari esteri. C’è poi il ruolo svolto dalla crescente diffusione dell’antisemitismo in Europa, che ha attecchito non solo tra gli immigrati musulmani ma ha contagiato anche alcuni partiti europei, come il partito laburista britannico; né può certo essere ignorata l’ambiguità (per essere prudenti) della politica della Chiesa cattolica e in particolare dell’attuale Pontefice; infine va messo in evidenza il ruolo negativo svolto dai media, che si sono rivelati costantemente incapaci di dare una rappresentazione corretta della realtà, rifugiandosi pigramente nelle consuete rappresentazioni di comodo.
Ma la realtà è più forte della comunicazione distorta e chi la vuol guardare in faccia vada a Gerusalemme per Yom Yerushalaiym il giorno che celebra la riunificazione della città e che è diventata la vera festa dei giovani, e si unisca a quella meravigliosa gioventù, alla sua gioia, alla sua voglia di vivere.

Valentino Baldacci

(13 giugno 2019)