Machshevet Israel – Pensieri politici

massimo giulianiSul tema “È esistito un pensiero politico ebraico?” un gruppo di storici dell’età medievale e proto-moderna ha recentemente promosso uno stimolante laboratorio presso l’École française de Rome. Per rivisitare e ribaltare, naturalmente, il mito della passività ebraica e soprattutto il famoso asserto di Hannah Arendt: “Gli ebrei non hanno esperienza né tradizione politica”. A dispetto della sua dissertation – sul concetto di amore in Agostino (o forse proprio a motivo di quella ricerca) – e forzata dalle circostanze storiche, Arendt è divenuta una delle più significative “filosofe della politica ebraica” del Novecento. Il suo controverso asserto voleva indicare che diciannove secoli di powerlessness, ovvero di assenza di potere in diaspora, hanno lasciato un vuoto di vissuto e di pensiero nella storia ebraica, che solo il sionismo ha riempito: ma quanto del pensiero sionista è davvero ‘ebraico’ e quanto deve piuttosto alle ideologie risorgimentali, ai valori della tradizione liberale (soprattutto anglosassone) e, almeno fino a pochi decenni fa, agli ideali dell’umanesimo socialista? Gli storici contemporaneisti, infatti, preferiscono parlare direttamente di sionismi, al plurale. Il ritorno a Sion è certamente un valore ebraico, ma la combinazione tra dimensione politica e dimensione religiosa, per tacere della declinazione messianica, di questo valore lascia aperti infiniti problemi. Yeshayahu Leibowitz disse più volte che lo Stato di Israele è una ‘questione extra-halakhica’ per significare che nelle pagine talmudiche la politica fa più da contesto che da tema delle discussioni dei maestri.
Tra gli storici presenti al laboratorio coordinato da Serena Di Nepi, Ilan Greilsammer – dell’università Bar Ilan e autore del volumetto Il Sionismo, edito dal Mulino – ha giustamente impostato il problema del ‘pensiero politico ebraico’ in termini di rottura e/o continuità tra la tradizione politica biblica (sebbene nel Tanakh vi sia più esperienza che elaborazione) e le dottrine politiche moderne. I massimalisti, come Daniel J. Elazar, vedono piena continuità tra il giudaismo antico, imperniato sulla nozione di brith, e l’attuale Stato di Israele; i minimalisti, come Michael Walzer, propendono per una lettura discontinuista e sottolineano l’impatto ovvero i prestiti politici della modernità sul pensiero ebraico; a metà strada, forse, le intuizioni di Rav Kook sulle misteriose vie divine per riportare il suo popolo nella terra di Israele e nella storia… Ancora: in siffatte coordinate, quanto pesano le esperienze di autogestione giuridico-sociale delle qehillot nei ghetti d’Europa o dei mellah delle città arabe? Aveva ragione Salo Wittmayer Baron nel dire che il ghetto è il luogo dove gli ebrei hanno imparato a fare politica? Oppure Josef Hayim Yerushalmi nel sostenere che il pensiero politico ebraico altro non è che il riflesso di un pragmatico adattamento alle circostanze? Il dibattito è aperto, come aperto (e affascinante nella sua complessità) è il più grande esperimento teologico-politico del mondo occidentale: la società e lo Stato di Israele, appunto.
In un vivace incontro di pochi giorni fa con gli ebrei romani, lo scrittore israeliano Eshkol Nevo ha ricordato di essere cresciuto con tre dogmi politici: la certezza della democrazia, il rispetto quasi sacro per la magistratura e il diritto di libertà di parola, la convinzione cioè che nella società israeliana esistesse la possibilità di criticare anche i propri governanti senza timore di essere censurati. Non senza una vena di amarezza, ha fatto notare come a volte oggi quei dogmi, quei pilastri della vita pubblica e del pensiero politico, sembra siano messi in discussione anche in Israele. Una proposta di legge tesa a limitare quella libertà di parola, pur bocciata dalla Knesset, lo inquieta. Ma quei tre pilastri, non sono forse valori moderni? Non valgono per ogni democrazia liberale? E la loro limitazione, se non negazione, non è oggi una minaccia che percorre tutto l’Occidente? Cosa apportano ‘di più’ le fonti ebraiche? Non ho risposte precise. Del resto, in ogni sua fase storica il pensiero ebraico ha trattato i temi politici: prima che Itzchaq Abrabanel celebrasse il repubblicanesimo della Serenissima e Spinoza scrivesse il suo Trattato teologico-politico, già Maimonide aveva messo il “benessere del corpo” ossia la politica, al pari del “benessere dell’anima” (la moralità e la conoscenza di Dio), tra gli scopi della Torà.
Nell’inquietante romanzo L’uomo di Kiev, che affronta con prosa angosciata il dramma dell’antisemitismo di Stato, Bernard Malamud fa dire al protagonista Yakov, dopo due anni di isolamente e di torture a motivo dell’assurda accusa del sangue: “Una cosa ho imparato: non esiste un uomo impolitico, specialmente se è ebreo. Non puoi essere l’uno senza essere l’altro, è sufficientemente chiaro. Non puoi assistere con le mani in mano alla tua distruzione (…) Dove non c’è lotta per la libertà, non c’è libertà”. Se sia pragmatismo o teoresi, non so decidere. Ma la lezione, per gli ebrei (e non solo), viene da lontano.

Massimo Giuliani, Università di Trento