Bulli senza pupe

claudio vercelliEsistono forme di dominio e servaggio che rivendicano, esibendolo apertamente, il loro contenuto prevaricatorio. Lo considerano al pari di un titolo di merito. Non sempre la violenza è occultata. Una di queste, senz’altro tra le più note, è il bullismo. Il termine deriva dal verbo inglese «to bully», fare il prepotente ma anche tiranneggiare, opprimere, costringere in malo modo e così via. Una sintetica ed efficace definizione, di origine non clinica (altrimenti si va nel campo della psicologia), è quella che indica con una tale parola quell’insieme di condotte di natura lesiva, ripetute nel tempo in quanto sistematiche e coordinate tra di loro, intenzionalmente rivolte contro un individuo o un gruppo di individui identificati come bersaglio da colpire con continuità. Il bullo, o il gruppo di prevaricatori seriali, reitera il comportamento aggressivo giocando sul fatto che il destinatario di tale condotta sia concretamente impedito a difendersi adeguatamente. Non di meno, l’obiettivo della bullizzazione, oltre al gusto di ripetere nel tempo la violenza verbale, psicologica o al limite fisica, sancendo un rapporto di costante subalternità della vittima, è quello fatto proprio dal prevaricatore laddove egli ritiene di potersi affermare come soggetto superiore attraverso l’esibizione stessa dei suoi atti in pubblico. Il bullismo, infatti, è manifesto e spesso rivendicato. Poiché oltre a ribadire la preminenza del carnefice deve indurre nella platea degli osservatori (nelle dinamiche sociali c’è sempre un pubblico che osserva, valuta e perlopiù accetta quanto avviene) il convincimento che la vittima abbia una qualche responsabilità per le violenze di cui è fatta destinataria. E che quindi tali violenze, quando siano anche solo di ordine verbale, abbiano a loro volta un fondamento. Il bullismo, se in origine giustifica la forza come legittima in sé, in quanto manifestazione viriloide di potenza, cerca comunque sempre consenso sociale. Il fatto stesso che l’asimmetria del rapporto tra vittimizzante e vittimizzato si basi sulla paralisi di quest’ultimo, ossia sull’incapacità o l’impossibilità di reagire in maniera appropriata per neutralizzare la minaccia, ripiegando quindi su di sé, è un elemento che concorre al discredito che, nel corso del tempo, l’opinione collettiva potrà formulare verso la vittima. La quale, così sarà giudicata, “se l’è cercata”, “non reagisce ma sa solo subire”, è debole e – quindi – da ritenersi “colpevole” della sua condizione fino alla più sofisticata attribuzione di un’inaccettabile differenza (culturale, sociale, fisica e così via) in ragione della quale l’arbitrio altrui sarebbe legittimato a prescindere. Quindi non costituirebbe un sopruso ma la risposta ad una minaccia. L’attrazione che sul pubblico, sia quello composto da un gruppo di adolescenti sia quello di un’ampissima platea di adulti, esercita l’esibizione mascolina della forza non va quindi mai sottovalutata. Fino a non molto tempo fa il bullismo era relegato alle aule scolastiche. Così come il mobbing rimane ancorato ai luoghi di lavoro e il cosiddetto «nonnismo» (da «nonno», ossia recluta anziana o di lungo corso) alle caserme. Poi è tracimato al di fuori della sua sede originaria, per assumere una connotazione più generalizzata. Al netto della necessità di non usare con troppa disinvoltura certi termini – poiché è bene che rimangano relegati a specifici campi di applicazione – rimane il fatto che le dinamiche richiamate dal bullismo hanno assunto, in più di un caso, le dimensioni e l’esposizione tipica dei fatti pubblici, riversandosi nella sfera politica. In quanto hanno travasato in essa la dose di compiaciuto esibizionismo che è parte integrante dell’agire bullistico. Il quale, essendo fenomeno a più dimensioni, non ha ad oggetto, necessariamente, la sola prevaricazione della vittima, ma cerca soprattutto di fare grande esibizione di muscoli. Quand’anche essi, alla resa dei conti, possano rivelarsi inesistenti. Il bullo, infatti, non è colui che è forte in sé ma chi si presenta come tale e chiede di essere acclamato da un pubblico di complici compiaciuti e gratificati. Qualcosa e qualcuno che, alle fine della fiera, potrebbe rivelarsi «tutto chiacchiere e distintivo». Ma che intanto, proprio attraverso quelle chiacchiere e quel distintivo, fa parlare di sé, attirando l’attenzione collettiva. Il bullismo si accompagna, nella sua girandola di molestie, offese, vituperi, attacchi verbali se non aggressioni fisiche, alla discriminazione dal gruppo sociale più ampio delle persone che ne sono bersagliate. La vittima, per essere o divenire tale, va sempre isolata dal suo contesto e indicata come un target. Così fanno i predatori, quando vogliono colpire nel “branco”, dividendone i componenti attraverso la paura che deriva dallo scompiglio, generato dall’aggressione. Se si vuole avere un valido esempio letterario, che arriva a mettere in luce le dinamiche del capro espiatorio per consolidare le logiche di gruppo, basta leggersi quel capolavoro della letteratura che è «il signore delle mosche» di William Golding. Dove si parte da un prevedibile ambito scolastico per arrivare alla logica della sopravvivenza dei sodali attraverso il sacrificio di alcuni individui. È una metafora molto secca della politica quand’essa torna ad una sorta di matrice elementare, quasi etologica, poiché basata sull’istintualità. Eletta a manifestazione di «buon senso», sinonimo in questo caso di ovvietà. Sarebbe meglio dire, in franchezza, di banalità. Quella dell’animalità. Il bullismo è un fenomeno sociale ma quando si trasfonde nell’agire istituzionale, rivestendosi di una falsa legittimità, rischia di fare precipitare l’incauta cordata di scalatori nel baratro. Quand’anche chi li guida dica di avere l’esperienza, gli strumenti e la competenza, poiché sa a priori qual è l’interesse della «gente».

Claudio Vercelli

(4 agosto 2019)