Segni di ebraismo

calimani darioPiù ci si confronta con l’antisemitismo, più si è tentati di interrogarsi sull’identità ebraica. Anche per non sentirsi ebrei grazie all’odio e al disprezzo altrui. E per non farsi condizionare dagli altrui pregiudizi.
Si fa un gran discutere sulle varie modalità di essere ebrei e sui diversi livelli di osservanza. Dall’ortodossia più rigida alla laicità più spinta e lontana da qualsiasi segno di ebraismo attivo. Non è diplomazia pensare che le due posizioni estreme siano entrambe portatrici di valori, siano essi quelli della tradizione rabbinica, dell’osservanza e dello studio, o quelli della cultura laica sviluppata nei secoli sulla base di principi che, ereditati dalla cultura del Libro, hanno assunto nella Golah nuove forme e si sono adattati (assimilati?) a modalità e principi di vita che la società, dintorno, offriva. Non si vuole negare nulla di ciò che la storia ha fatto di noi e di ciò che noi abbiamo prodotto attraverso la storia.
La posizione che ciascuno di noi si trova a occupare più o meno consapevolmente, nell’ebraismo, la si è spesso ereditata dalla tradizione familiare. Quando così non sia, quando cioè si arriva all’ebraismo attraverso un qualsiasi genere di ritorno, di teshuvah, si è tentati di scegliere uno dei due poli opposti, con l’orgoglio di chi fa la scelta ‘giusta’ ed è in grado di escludere ogni ogni altro valore, che viene relegato così nel territorio dell’errore.
Da tale prospettiva, vien fatto di chiedersi se sia possibile, coerente, aderire a un ebraismo di posizione mediana, che non si senta di aderire in toto a una scelta estrema ma non si senta, d’altro canto, di negare, o rinnegare, in toto i principi e i valori e le acquisizioni della storia e della cultura dell’ebraismo.
In una discussione con un’amica israeliana mi sono sforzato, e mi sto sforzando, di spiegare, come sarà capitato più volte a molti di noi, che cosa significhi essere ebrei nella diaspora, quando non ci si può affidare all’israelianità per sostituire l’osservanza della Torah, quando non si ha l’uso della lingua ebraica a dirti in ogni attimo – consapevole o meno che tu lo sia – che stai parlando nella lingua della Bibbia, quando non hai una nazione ebraica – con fatica acquisita e preservata, da amare e da difendere – a dirti ogni giorno che il tuo destino è legato a quello di tutti gli altri ebrei (e non ebrei) del paese. Quando non hai, nel bene e nel male, il confronto continuo e la quotidiana dialettica fra i diversi gradi di religiosità a fare da centro d’attenzione nella politica della nazione.
Ciò che ci accomuna nella Golah è un’indefinibile miscela di cultura e di pratica (o non pratica) dell’ebraismo che difficilmente riusciamo a definire per noi stessi. Ci stiamo barcamenando in un mare in continua tempesta, sempre a rischio di naufragio e di annullamento.
Dell’osservanza estrema temo il rischio dell’allontanamento per esecrazione dei non osservanti e la caduta in un solipsismo che si risolve nella realizzazione del proprio essere religioso, a danno, specie nelle piccole comunità, del sentire collettivo. Del laicismo estremo, temo una sterilità che si possa risolvere, non troppo in là nel tempo, nel dissolvimento di ogni valore tradizionale e di ogni pratica, anche minima, che preservi il principio dell’essere comunità.
Essere ebrei, penso, e potrei sbagliarmi, non è una scelta che si faccia una volta per tutte e poi basta. Quando si è ebrei, e se ne potrà convenire per esperienza personale, finisce per essere una forma mentis. Non diversamente dall’essere cristiano, o fabbro, o calciatore, o ingegnere. Ma tu sei ebreo, e pensi da ebreo. Qualche volta, sei tentato anche di agire da ebreo, meglio se te lo imponi da dentro.
Mi colpisce sempre scoprire, ad esempio, che figure più o meno istituzionali, o ebrei impegnati nel rappresentare il proprio ebraismo possano partecipare di Shabbat a dibattiti pubblici, a trasmissioni televisive, o anche solo avviare discussioni sui social o nei gruppi di WhatsApp, quando potrebbero benissimo sospendere per poche ore la loro attività pubblica o la loro presenza sociale e cercare di sentirsi ebrei per scelta, anziché per destino, quando non per fatalità. Ci si può riposare di Shabbat per se stessi, ma ci si può anche riposare per gli altri, per affermare agli altri il comune valore dello Shabbat che, almeno idealmente se non nella pratica, ci lega.
Non è stato difficile vivere da ebreo ‘laico’ cercando di evitare impegni pubblici di Shabbat, o non accendendo di Shabbat la pipa. Inserire nella mia vita un piccolo segno – o più piccoli segni – di ebraismo mi ha forse aiutato a sentirmi tutt’uno, anche di fronte all’antisemitismo, con il popolo cui appartengo. Andare al tempio anche in un giorno in cui non sia necessariamente Kippur può rafforzare un’identità incerta, o chiarirla a chi sta per perderla. Non mi sto impegnando nella propaganda per una maggiore osservanza, bensì per un rafforzamento della coscienza identitaria, almeno individuale, se non anche collettiva.
Se proprio non riusciamo ad attenerci ai principi della posizione più faticosa, possiamo cercare quanto meno di mantenerci in bilico, garantendoci quel precario equilibrio che è spesso stato il segno distintivo della nostra identità. Se non altro per ricordare non solo da dove si viene ma soprattutto verso dove si è diretti. A meno che non ci si voglia definire in negativo come ‘Ebrei riluttanti’ (vedi il recente volume di Sandro Gerbi), nel qual caso è forse preferibile rinunciare a definirsi.

Dario Calimani

(12 novembre 2019)