Dei sepolcri e dei vivi

sara valentina di palma“Non vive ei forse anche sotterra, quando / gli sarà muta l’armonia del giorno, / se può destarla con soavi cure / nella mente de’ suoi?” ci chiedeva retoricamente il vate ‘avverso al mondo’, e mi è sovvenuto ascoltando ieri pomeriggio in Comunità a Firenze rav Amedeo Spagnoletto presentare il quarto quaderno della Fondazione Ambron Castiglioni, L’arte dell’eternità. Iconografia, storia e tradizione nei cimiteri ebraici dell’Emancipazione, curato da Dora Liscia Bemporad e Giovanna Lambroni (Edifir – Edizioni Firenze, 2018).
Due sono, ad avviso del rav, le funzioni ebraiche delle sepolture, in onore delle quali l’architetto David Palterer ha rammentato l’uso di lasciare un sasso in ricordo della propria visita al defunto e come segno di cura per il sepolcro – usanza derivata probabilmente dall’antica abitudine di segnare il tumulo con un cumulo di sassi, in modo da identificarlo.
Il primo scopo, essere indicazione per i coanim, affinché non si avvicinino all’impurità dei defunti. Il secondo, appunto, la funzione che il sepolcro assolve non per i defunti ma per i vivi, che per mezzo di esso onorano e celebrano il ricordo dei propri cari – ed in particolare dei chachamim e dei rabbanim. Paradossale, se si vuole, quest’ultimo scopo: il sepolcro assolve una funzione non per i defunti ma per i vivi; ai viventi resta il compito, trascorso un numero tale di generazioni da far cadere l’oblio sulle sepolture e sulle persone di cui esse dovevano destare ricordo ed esempio, di preservarle. Un impegno immane, ha ricordato l’architetto Renzo Funaro citando il lavoro di restauro compiuto per il cimitero monumentale settecentesco di Viale Ariosto, ove diverse lapidi in arenaria sono state degradate dagli agenti atmosferici: limitati sono potuti essere gli interventi di pulizia delle lapidi, lettura delle epigrafi, catalogazione e restauro, a causa degli ingenti costi di tali operazioni. Così l’architetto Renzo Funaro, presidente dell’Opera del Tempio Ebraico di Firenze e vice presidente della Fondazione per i Beni Culturali Ebraici in Italia, ha proposto tra il serio e il faceto l’istituzione di una nuova confraternita dedita al recupero, allo studio e alla manutenzione degli antichi cimiteri ebraici italiani. Sull’importanza della raccolta di finanziamenti e sull’uso dei medesimi è intervenuta anche una delle due curatrici, la professoressa Liscia, la quale si è soffermata poi sulle peculiarità dei cimiteri sorti in epoca emancipatoria. Se già rav Spagnoletto aveva sottolineato come raffigurazioni, stemmi, simboli evocativi fossero già presenti in secoli ben più remoti, e che i responsa rabbinici emessi dal Settecento in avanti rispondano alla principiata adesione a modelli culturali non ebraici, la Professoressa Liscia ha evidenziato alcune delle caratteristiche sepolcrali nei cimiteri ebraici dell’Emancipazione, in linea con il gusto dell’epoca, commissionati dai futuri defunti a professionisti affermati dell’epoca e realizzati secondo lo stile architettonico urbano del tempo. Anche i testi delle epigrafi, volti ad esaltare il ruolo sociale avuto dai defunti quando erano ancora in vita, rispondono sempre più all’esigenza di parlare ad una cittadinanza allargata, non più in ebraico ma anche in italiano (o solo in italiano), così come i simboli raffigurati richiamano sempre più quanto si trovava nei cimiteri cattolici e non cattolici – così come medesimi sono i disegnatori ed i marmisti.
I morti si trovano ad avere poco a che fare con i cimiteri, dunque, e questi riguardano parlano non solo dei defunti ma anche delle dinamiche di identità e di memoria contemporanee all’epoca di erezione delle lapidi e poi dei monumenti sepolcrali. Penso alla tomba di Carlo Cammeo a Pisa e alla funzione civica svolta non tanto dalla sua fotografia, quanto dall’epitaffio (‘glorificando col sangue la santità della scuola e la sua fede nell’idea socialista”) ed al simbolo di falce e martello che lo accompagna, o viceversa ad alcune vicine sepolture in stile razionalista e decorazioni ispirate alla retorica del ventennio.
Proprio per dettare indicazioni sullo stile, ricorda il moderatore dell’incontro, l’architetto Alberto Boralevi, un’anziana signora commissionò la propria lapide a lui, giovane neolaureato, piuttosto che ad illustri ed affermati professionisti i quali avrebbero fatto a modo loro: lui invece, come in italico uso, sarebbe stato eterodiretto e messo a tacere. Così vanno le cose dalle nostre parti.

Sara Valentina Di Palma

(28 novembre 2019)