Ebrei di Romania

francesco bassano“Questo ristorante è per israeliani, lei è israeliano?” mi chiede cortesemente un cameriere rom – come fieramente afferma di essere in seguito – appena entro in uno dei quattro, forse anche di più, ristoranti kasher di Bucarest. Grazie al suo collega, il quale mi aveva visto anche la sera precedente riesco a trovare senza problemi un posto a sedere nel locale affollato la sera del 31 dicembre. Intorno a me tavolate di famiglie israeliane, alcune delle quali parlano un misto di ebraico e rumeno. Penso mentre degusto un humus troppo mitteleuropeo che l’ebraismo in Romania sia mantenuto in vita soprattutto grazie ai turisti israeliani, tra cui qualcuno che ha deciso persino di restare per abitarvi. La comunità rumena non supera le 4mila anime, di quelli almeno “dichiarati” nei censimenti, perché poi causa anche il vivo antisemitismo, come in tutta l’Europa Orientale quella stimata è per lo meno il doppio. Il paese ha una quarantina di comunità con i propri presidenti, un mensile di tutto rispetto “Realitatea Evreiasca”, e a Bucarest ci sono cinque sinagoghe (di cui una Chabad). Nel 1930 nel Regno della Romania di Re Carol II vi erano circa 730.000 ebrei, nel 1956 invece nella Repubblica Socialista di G. Gheorghiu-Dej ne erano rimasti poco più di 150.000. Rispetto agli inizi degli anni ’50 quando sotto l’effetto di Stalin, numerosi ebrei vennero discriminati o anche espulsi dal partito con l’accusa di “sionismo”, tra cui Ana Pauker, il feroce Ceausescu pare avesse un rapporto meno ostile nei confronti degli ebrei. Nel regime alcuni personaggi di famiglia ebraica conservarono qualche incarico, la Romania fu poi l’unico paese del blocco orientale che anche dopo il 1967 mantenne delle relazioni diplomatiche con Israele, in cambio di un pagamento e di aiuto economico da parte di quest’ultimo, a un certo numero di ebrei era permesso emigrare. Grazie anche alle buone relazioni del dittatore con il rabbino capo Moses Rosen, agli ebrei rumeni non era negata una vita culturale, con il permesso del regime venne aperto il museo ebraico e l’ottocentesco teatro ebraico, attualmente attivo, fu “nazionalizzato”. Non che l’antisemitismo, propagandato anche sulla stampa ufficiale, fosse assente, e ciò non cambia di una virgola il giudizio sul presidente comunista. Dovrebbe anzi ricordare ancora come si possa essere tranquillamente “amici degli ebrei e di Israele” solo per alcuni frangenti, per poi continuare ad essere dei dittatori repressivi e sanguinari per tutto il resto.
Ma tutt’oggi questo paese ricco di contrasti ed “irriconoscibile”, come lo descrisse quest’estate Giorgio Berruto proprio su queste pagine, costellato di enormi blocchi prefabbricati e fatiscenti, è uno tra i luoghi che ha contribuito di più alla formazione dell’odierna società israeliana. I cittadini di origine rumena sono tra le comunità più importanti e numerose di Israele. Senza dimenticare poi gli ebrei rumeni che invece hanno contribuito a dare risalto alla cultura occidentale, come Tristan Tzara, Norman Manea, Stan Lee, Paul Celan, Elie Wiesel o Aharon Appelfeld solo per citarne alcuni. Camminando per Bucarest sembra che gli odierni rumeni di questo non ne siano granché consapevoli, più propensi a lodare nei nomi delle strade e nei monumenti solo i vari regnanti di uno-due secoli fa e i condottieri della Roma antica, o quei personaggi illustri con un’identità rumena più “ravvisabile”. Ma gli israeliani invece sono forse ben più consci di quanto la Romania in qualche misura sia parte del loro retaggio.

Francesco Moises Bassano

(3 gennaio 2019)