Philip Roth, l’ultima intervista
“Sempre consapevole della mia ebraicità”

Sono passati poco più di due anni: il 21 dicembre 2017, la studiosa italiana Elèna Mortara attraversava l’Upper West Side di Manhattan per un appuntamento unico, un’intervista con il leggendario scrittore americano Philip Roth.
Il risultato di quell’incontro speciale, frutto di quella che si rivelò essere l’ultima intervista rilasciata da Roth, deceduto poche settimane dopo, è stato pubblicato sulla rivista della Philip Roth Society, il “Philip Roth Studies”.
elena-mortara“Al dodicesimo piano, vicino alla soglia, appena fuori dalla sua porta aperta, c’è Philip Roth, che mi dà il benvenuto. Quando entro, sono inondata dalla luce del soggiorno luminoso e spazioso, con grandi porte-finestre che si aprono sulla parete opposta da cui si scorge la città. Roth indossa una camicia blu ardesia e pantaloni di lana marrone. Ci sediamo in questo spazio inondato di luce, con un tavolino pieno di libri accanto a noi, e iniziamo a parlare. È una conversazione amichevole, che passa dai ricordi della sua esperienza a Roma a memorie di famiglia, dai suoi incontri con altri scrittori alle riflessioni sui suoi libri. Ci sono momenti di grandi risate e talvolta sorprendenti scoperte. Roth non è solo accogliente, ma ha anche un aspetto magnifico. ‘Sono felice’, ammette con tutta semplicità, quando gli chiedo come si sente, ora che ha appena pubblicato una nuova splendida raccolta di saggi (Why Write?, 2017) negli Stati Uniti”, scrive Mortara.
Docente di Letteratura americana all’Università di Tor Vergata a Roma, Mortara è la redattrice del primo volume delle opere di Roth nella più prestigiosa serie letteraria italiana, i Meridiani Mondadori.
COF_31_8_roth_meridiani.inddAl momento dell’intervista, il volume era stato pubblicato solo due mesi prima.
Tra gli argomenti trattati nel colloquio, l’influenza di Kafka sul lavoro di Roth e le sue radici ebraiche.
“La prima generazione [di immigrati ebrei] fece fatica, ma i loro figli, che avevano fatto un passo in avanti, che erano più borghesi, formarono delle associazioni familiari. Erano molto comuni tra gli ebrei. Erano delle specie di società di assistenza sociale, prestavano denaro per le sepolture, si occupavano di chi si ammalava, avevano un fondo per borse di studio destinate ai ragazzi che andavano al college e non avevano mezzi. E poi c’era una grande atmosfera familiare tra loro. Io, da piccolo, adoravo andarci!” spiega Roth a Mortara mostrandole una foto con circa 150 persone sedute a lunghi tavoli in un’elegante sala da pranzo, tutti i suoi parenti.
“Sai, i miei genitori sono stati molto importanti per me, perché erano bravissimi e hanno allevato me e mio fratello con tanto calore e amore. Ma anche la comunità in cui sono cresciuto, quel quartiere, un grande quartiere ebraico, era in un certo senso come un genitore più esteso. Questo perché erano tutti ebrei, c’erano alcune famiglie ‘gentili’, ma non molte. Una volta ne parlavo con uno dei miei vecchi amici delle superiori al telefono. Lui vive in Florida, ci sentiamo ogni tanto. Discutendo di Weequahic, il nostro quartiere, mi ha detto ‘era così sicuro’, ‘ci sentivamo così al sicuro’. E ci sentivamo davvero al sicuro,” aggiunge lo scrittore.
“Sento che per te l’ebraicità è stata molto importante, non l’ebraismo come sistema di pensiero, come religione, ma ebraicità, l’esperienza di essere ebreo”, osserva Mortara.
“Sì, potremmo dire l’ebraismo etnico. Certo, perché ero sempre consapevole di me stesso come ebreo, anche se non sono mai stato osservante. Il mio bar-mitzvah è stata l’ultima volta che sono andato in una sinagoga. La difficile situazione storica degli ebrei mi è diventata chiara molto presto, quindi ne sono sempre stato consapevole. Per quanto riguarda la scelta della mia gente nei miei libri, ho scritto su di loro perché era ciò di cui sapevo”, risponde Roth.
I due hanno anche discusso della presenza dell’Italia nei suoi romanzi.
“L’Italia si trova nei miei libri?” si stupisce Roth all’inizio. “Non me ne sono nemmeno accorto! Puoi dirmi in quali?”
Dopo che Mortara gli ricorda alcuni passaggi, l’autore condivide il ricordo della sua prima volta nella Penisola.
“La prima volta che sono andato in Europa sono stato a Parigi, e poi ho fatto l’autostop fino a Firenze. Ho fatto tutte le cose che facevano i giovani – avevo venticinque anni. Ho visto tutto, sai, ho visto tutto meticolosamente. Ma è proprio questo che mi ha fatto venire voglia di tornare nel 1959: volevo vedere di più dell’Italia. In quel momento in America non era più Parigi a essere la meta da visitare. Era diventata Roma”, spiega.
“È commovente per me che ero lì ad ascoltare di nuovo la voce di Roth, godendomi la meraviglia delle quasi tre ore che ho trascorso con lui in una conversazione intensa ed emozionante”, ha concluso Mortara nel pezzo pubblicato sulla rivista. “Non molti giorni dopo il nostro incontro, il New York Times del 16 gennaio 2018 ha pubblicato un’intervista con lui a firma di Charles McGrath, che si era però effettivamente svolta, come specificato all’inizio dell’articolo, poche settimane prima del nostro incontro” continua la studiosa.
“Alla fine di quella giornata, poco dopo il tramonto, mentre me ne andavo, Roth mi mostrò i disegni satirici appesi accanto alla porta d’ingresso del suo appartamento. Erano i famosi disegni di Philip Guston ispirati al suo racconto ‘Il seno’: la sua versione grottesca e autoironica della novella di Kafka ‘Le metamorfosi,’ raccontata dal professor David Kepesh, che, ossessionato dal sesso, si ritrova ‘inspiegabilmente’ trasformato in un seno gigantesco. Con un tono tra serietà e giocosità, Roth ha osservato, con un certo orgoglio: ‘Con questo romanzo, ho anticipato la cultura transgender!’ Sapeva di essere stato rivoluzionario non sempre compreso,” conclude Mortara.
“Quando sono andata via, ci siamo abbracciati, vicino alla porta. Separandomi da lui – che sembrava ancora così alto e dritto ed era così gentile con me – ho pensato che il nostro fosse un addio amichevole e promettente, un arrivederci, come diciamo in italiano; invece, è stato un saluto definitivo, un addio.”

Rossella Tercatin

(7 gennaio 2020)