Quirinale, intervento di Noemi Di Segni
“Alberto, Piero e Franco: vostre parole
una lezione da custodire per sempre”

Di generazione in generazione si trasmette l’ebraismo e si è fede e tradizione attraverso riferimenti a un testo – la bibbia – che ha una narrazione scritta e orale. Con accadimenti che hanno travolto esistenze o generata libertà, con lo studio e la cultura nei secoli, si è tessuto quel filo identitario che lega figli e genitori, che li rende comunità e popolo ebraico.
Questo filo, con la Shoah, è anche un filo spinato che si è attorcigliato intorno ai nostri padri, nonni e bisnonni; che dopo il 27 gennaio ‘45 non ha cessato di incidere la nostra pelle e le nostre anime. Un filo che intreccia ancora oggi le vite delle seconde generazioni che hanno vissuto indirettamente la Shoah; che avvolgerà quelle dei nostri nipoti, che ancora ne sono ignari.
Nei primi decenni del “dopo” ci fu un patto del silenzio. Si pensava che soffocando il ricordo, l’orrore avrebbe fatto parte solo del passato; non parlandone, il futuro dei propri figli sarebbe stato più protetto. Per loro, per molti di noi, il patto del silenzio si è trasformato nel sapere senza sapere. Il racconto si è delineato attraverso sensi di colpa e incubi, attraverso lo sviluppo di un atteggiamento protettivo delle fragili esistenze e aspettative dei genitori sopravvissuti. E su quel silenzio regnava già allora, e ancor più oggi, quello degli assenti, mai tornati, mai nati, mai divenuti parte di un legame.
In un mondo parallelo i figli e i nipoti dei nazisti affrontavano il loro dramma di un’eredità marchiata dal genocidio.
Voi ragazzi avete zii, nonni, cugini, con i loro nomi, soprannomi e luoghi di calda dimora. Non è stato così per i figli della Shoah. Esisteva solo un futuro da costruirsi quasi soli o da cui ripararsi per timore che si replicassero le ombre del passato.
Una generazione formata da individui raccolti nel loro destino in Israele e sparsi in tutto il mondo, esiliati con un cuore che giaceva nella terra nativa, ma uniti da quel filo del tormento. Negli anni, attraverso il supporto di istituzioni ed esperti, è venuto maturando un percorso di partecipazione ad iniziative esterne al proprio nucleo famigliare per trasmettere la conoscenza della Shoah in ogni sede. Candele della memoria, rappresentate nel collettivo dalla fiamma che arde perennemente a Yad Vashem.
Allora, cosa significa oggi il “giorno della memoria”, una data fissata con legge 20 anni fa? una generazione di memoria istituzionalizzata? Cosa significa oggi ricordare il 75° anniversario dalla liberazione di Auschwitz? Ci siamo recati a Gerusalemme con altre 50 delegazioni. Il Presidente Mattarella, i capi di stato presenti hanno dato un significato a questa celebrazione con l’impegno a rendere la memoria un atto di consapevole responsabilità. Di concreto agire con percorsi educativi, con l’adozione della definizione articolata di antisemitismo dell’IHRA e nomina di un commissario. A lavorare con determinazione per un’Italia, un’Europa che sia legata da un filo che si chiama speranza.
Un filo teso a proteggere la verità senza annodarla, che avvolge e abbraccia comunità e collettività, ribadisce la dignità di ciascuno di noi e alimenta i sogni di vita che coltiviamo. Come ci insegna magistralmente Israel De Benedetti, i sogni non passano in eredità, e io mi permetto di aggiungere – la forza e la fiducia in sé di chi li ha sognati sì, quando non sono incubi.
Giusto e doveroso dedicare una data solenne e altrettanto doveroso essere coerenti negli altri 364 giorni. Esserlo noi tutti – come singoli, come istituzioni – per dare senso compiuto alle firme apposte su dichiarazioni e trattati.
Solo se si ascoltano le voci sempre più flebili dei pochissimi sopravvissuti e il loro dono di testimonianza, se i luoghi di memoria sono preservati e rispettati, se non si riduce la narrazione della Shoah attribuendone le responsabilità unicamente ai nazisti e alla Germania, si potrà dire che siamo coerenti con l’impegno assunto.
Per essere coerenti non si accetta la derisione della Shoah che fa riemergere quel tratto di propaganda preparatoria dello sterminio, né la pronuncia di pregiudizi e di falsi scritti. Non si accetta la banalizzazione con uso goliardico in altri contesti; l’abbinamento alle onorificenze rese ai sopravvissuti di strade intitolate a fascisti o terroristi che hanno perpetrato l’odio; non si accetta il ribaltamento della Shoah attribuendo il termine nazista allo stato di Israele.
Con la prontezza di riesaminare l’efficacia complessiva delle norme di legge rispetto al vero bene tutelato, agendo di concerto con tutte le altre nazioni che si sono riunite nel ‘48 per promuovere pace e solidarietà, si potrà tradurre quell’impegno di memoria in quello di combattere oggi l’antisemitismo ed ogni nostalgica rievocazione di fascismo e del nazismo da parte di gruppi ben articolati o di singoli fan, talvolta anche molto dotti. Tutto ciò non solo per attuare quel principio costituzionale di tutela delle minoranze, ma quale caposaldo fondamentale di salvaguardia di ogni libertà civile.
Siamo tutti figli dei saggi che ci hanno trasmesso il testo della Costituzione. Il filo conduttore deve allora essere quello del bene superiore da proteggere. La pretesa di libertà di espressione del pensiero – quando il pensiero diventa verbo ostile, dilagane sulla rete, gruppi squadristi, violenza reale – è pretesa di sopraffazione. Non più diritto. È pretesa che non persegue quella tutela del bene che si chiama dignità umana, ma tesse nuovamente fili spinati, che feriscono ogni impegno di coerenza, che soffocano soprattutto voi giovani che desiderate semplicemente vivere. L’impegno per combattere l’antico male dell’antisemitismo deve portare chiara memoria di ciò che è stato, chiara comprensione delle sue diverse espressioni. Che non può essere oggetto di dialettica divisiva o servente in alcun contesto politico, perché riguarda noi tutti.
Ci hanno lasciato in questi ultimi mesi Alberto Sed, Piero Terracina e Franco Schonheit z’l. Le loro parole di dolorosa testimonianza riecheggiano assieme a quelle di tutti i nostri sopravvissuti. Con coraggio considerano noi, voi ragazzi, come loro figli e nipoti cui tramandare il monito antico di non dimenticare, di non restare indifferenti, di saper chiedere perché e ragionare con la vostra mente anche nell’istante digitale.
Se farete vostro questo monito, se agiremo anche noi istituzioni dell’Italia qui rappresentate dai massimi vertici, con coerenza e rigore tenendo sempre stretto nelle nostre mani unite quel filo che lega verità storica e dignità della vita, tenendo a mente il testo costituzionale, scritta e orale, allora sì che voi ragazzi sarete una generazione capace di amare e maturare, capace di sognare e partecipare; che saremo capaci di generare figli e nipoti che non vivranno i nostri silenzi tormentati ma affronteranno le loro sfide di maturazione con coraggio e serenità.

Noemi Di Segni,
Presidente Unione delle Comunità Ebraiche Italiane