Zone d’ombra dimenticate

francesco bassanoIl 27 gennaio del 1945 i soldati dell’Armata Rossa liberarono il campo di sterminio di Auschwitz, aprirono finalmente i suoi cancelli. Questo potentissimo esercito è stato, come si ricorda spesso, essenziale per fermare il genocidio nazista. Non pochi soldati e ufficiali dell’Armata rossa che combatterono durante il secondo conflitto mondiale erano essi stessi ebrei – probabilmente 500mila individui, dei quali 200mila morirono nei campi di battaglia o furono catturati dalle forze dell’Asse -. Alcuni dei veterani con le loro divise pluridecorate sono spesso ben visibili alle cerimonie e parate che si svolgono tutt’oggi in Israele o negli Usa per celebrare la vittoria sui nazisti. In quella che in Unione Sovietica prese il nome di “grande guerra patriottica”, il regime cercò di coinvolgere con diversi mezzi anche la consistente popolazione ebraica. La liberazione di Auschwitz da parte dei sovietici ha portato molti nostalgici e non a pensare che l’Unione Sovietica di allora fosse un paese che a differenza del resto d’Europa avesse tra i propri fini la protezione e la salvaguardia della popolazione ebraica. Un accostamento erroneo, perché vengono poi dimenticati ed omessi i successivi atteggiamenti antiebraici da parte di Iosif Stalin, gli arresti, i processi, le deportazioni, le esecuzioni, e le “accuse di sionismo” che subirono molti ebrei nel dopoguerra. Politiche non paragonabili certo a quelle genocide naziste, e che del resto riguardarono anche più o meno tutte le altre “minoranze nazionali”, ma comunque non di poco conto. Forse anche nei riguardi della liberazione di Auschwitz dovremmo distinguere gli effettivi liberatori, gli uomini dell’Armata Rossa, da coloro che erano all’epoca alla reale guida dell’Unione Sovietica. Da Lev Trotskij in esilio sino a Michail Gorbačëv, questo stato era concepito come una struttura sostanzialmente sana e recuperabile, nonostante i leader e le varie falle. Gli eventi hanno però dimostrato il contrario, e difficilmente si può operare come per le democrazie la classica distinzione tra stato e governo, in uno stato dove invece il governo, o meglio il partito/segretario, controllava ogni aspetto della vita politica e quotidiana. Con la destalinizzazione aperta da Nikita Chruščëv la situazione per gli ebrei migliorò parzialmente, ma fino al 1991 la Shoah e la memoria di essa in Russia rimase un argomento “tabù” perché, così veniva spiegato, “gli ebrei sarebbero stati posti altrimenti al di sopra rispetto alla più generale sofferenza subita dal popolo sovietico a causa del nazismo”.
La storia è sempre più complessa e meno polarizzata rispetto alle narrative d’uso, nella Shoah sono ben distinguibili senza ombra di dubbio gli aguzzini e gli oppressori nazi-fascisti, gli alleati però non furono sempre senza macchia. Ciò non vale solo per l’Unione Sovietica, ma anche per gli altri stati occidentali impegnati nella lotta contro il nazismo. Basti pensare alla difficoltà o all’impossibilità per i profughi ebrei di raggiungere luoghi sicuri come la Palestina mandataria, la Svizzera, o le Americhe con i conseguenti bocchi e limitazioni sia durante che dopo il conflitto, i ritardi e l’indifferenza ben chiari già durante la Conferenza di Evian del 1938, le attitudini controverse di alcuni eserciti (come quello polacco) nei confronti degli ebrei, o l’aiuto offerto poi dopo a numerosi criminali nazisti e collaborazionisti per fuggire dall’Europa. Zone d’ombra dimenticate per lasciare il posto a una più semplice visione del nazi-fascismo come un germe sconosciuto spuntato inspiegabilmente nel cuore dell’illuminata civiltà occidentale poi estirpato dalla stessa senza lasciare tracce. Rimane per l’appunto confortevolmente un enigma il perché proprio le nostre “radici europee” oggi tanto sfoggiate per difendere i sacri confini abbiano prodotto luoghi come Auschwitz.

Francesco Moises Bassano

(31 gennaio 2020)