Machshevet Israel – Lekhà dodì
come teologia politica

massimo giulianiLa bella idea di Roberto Benigni di leggere (parti del)lo Shir hashirim al Festival di Sanremo, con tanto di citazione di Rabbi Aqivà, si è stemperata durante la performance per un eccesso di letteralismo erotocentrico, dovuto alla volontà di contraddire la sessuofobia catto-italica. In termini rabbinici diremmo che lo pshat, la traduzione-interpretazione letterale, ha prevalso e oscurato gli altri approcci. Certo ogni versetto biblico non può prescindere dal suo pshat, ma si faccia eccezione – insegnano i maestri – per il Cantico, che va letto anzitutto in chiave metaforica: l’amore divino per Israele (di Cristo per la chiesa, secondo gli antichi teologi cristiani). È stata pertanto ignorata a Sanremo la potente chiave ermeneutica del giudaismo diasporico, che declina quel discorso d’amore in termini teologico-politici: l’intenso poema sponsale è un inno al desiderio di tornare a Sion. Non è l’unico caso. Un altro, ancor più esplicito, è la lirica religiosa che si canta durante la qabbalat Shabbat, il venerdì sera, in quasi tutte le sinagoghe del mondo: il Lekhà dodì/Vieni, o mio amato!
Scritto o almeno tramandato nel nome del qabbalista Shlomò Al-Qabetz ha-Levi, vissuto a Sfat nel XVI secolo, è uno dei testi più noti della liturgia ebraica ma non necessariamente uno dei più compresi. Dire che ripetendo dieci volte l’invito ad andare liqrat khallà, ‘incontro alla sposa’ (termine talmudico già in Bava Qamma 32a), si esprime l’amore per lo Shabbat è certamente vero ma riduttivo, se non ci si sofferma sul senso delle nove stanze, o strofe, nelle quali il poema si articola. Le sette parole del ritornello, che distinguono stanza da stanza, sono come un invito a sviluppare i ‘volti dello Shabbat’ nei diversi distici scanditi dai continui rimandi biblici, quasi tutti ai profeti. Il Lekhà dodì è una collana di citazioni. Ci si accorge, studiando l’intero testo, che dalla dimensione del tempo sacro, lo Shabbat (strofe 1,2 e 9), veniamo via via introdotti nella dimensione dello spazio sacro, Sion e il Tempio (strofe 3-8), qui personalizzati non meno del settimo giorno in una dramatis personae tesa a un dialogo, uno struggente duetto tra Israele e la sua terra, tra l’esule e la casa di Dio che giace distrutta (eco di Tesha beAv), tra chi in Israele aspetta la redenzione e quel discendente di Peretz e Jesse – ossia il messia – qui evocato come un tutt’uno con la gioia dello Shabbat e di Gerusalemme “città ricostruita sulle sue rovine”. Andare incontro alla sposa-regina, lo Shabbat, significa nel poema professare certezza di redenzione: l’amore divino cederà dinanzi alla perseveranza e alla fedeltà del popolo di Israele mandando il riscattatore di Sion; di converso, l’attesa fedele di Israele si sviluppa come un’esortazione a Gerusalemme affinché non perda la speranza, si rincuori e si ridesti, oltrepassando la vergogna dell’abbandono e la desolazione lasciata dai conquistatori stranieri. Tali temi riecheggiano tutti anche nella lettura tradizionale dello Shir hashirim, inducendo Rashi a interpretare la giovane donna – intuizione profondissima e originale – come una agunà, una sposa apparentemente abbandonata dal suo sposo ma decisa a ritrovarlo, riconquistarlo, riaverlo al suo fianco.
C’è un chiaro parallelo tra il Cantico dei cantici, che secondo Rabbi Aqivà “sporca le mani” (perché appartiene alle cose sacre, custodite nel Tempio, ieri quello di pietra oggi quello spirituale dello studio), e il Lekhà dodì: entrambi sono ‘poemi d’amore’, cesellati sul rapporto sponsale nel quale l’attrazione sessuale è potente metafora, ma entrambi celebrano il valore di un’attesa piena di certezza e di una speranza attiva nello sforzo di conseguire riscatto e redenzione. In una parola, sono due manifesti di teologia politica, nel senso forte del termine; sono due programmi di ‘sionismo religioso’, dove la politica non ha bisogno di strumentalizzare la religione e dove la fede non nasconde la propria dimensione politica; sono inni alla pienezza dell’esperienza umana/ebraica – corpo e anima, personale e di popolo – redenta dalle sue miserie. Come ha scritto lo studioso del pensiero di Rav Kook, il filosofo Benjamin Gross: “Nell’accoglienza della sposa Shabbat, l’assemblea di Israele anticipa la fine della dispersione tra le nazioni e la sua redenzione. Essa evoca l’èra della salvezza, la restaurazione di Gerusalemme e l’unità ritrovata”.
Curioso apprendere che i rabbini riformati della prima metà dell’Ottocento, ben comprendendo il senso teologico-politico del Lekhà dodì, lo abbiano sostituito con testi più spirituali; Abraham Geiger si limitò a… ‘censurarne’ i versetti troppo sionisti facendone una versione breve; Isaac Meyer Wise e David Einhorn, più radicali, lo abolirono e basta. Solo nel 1975 il Lekhà dodì fece ritorno nella liturgia dei riformati, proprio nella pragmatica America sempre più attratta da un certo neo-misticismo… Ma chi ha detto che i mistici non hanno i piedi per terra? E poi, tutte le vie, se ebraiche, portano a Sion.

Massimo Giuliani, Università di Trento