Civiltà di abbuffoni

calimani darioL’esperienza più comune, in questi giorni, non è l’ansia, e non è la preoccupazione: è l’attesa. Si attendono notizie sull’aumento dei contagiati e dei morti, si attende che passi il tempo dell’isolamento chiusi in casa o nel rifugio di montagna dove si è cercato incerto scampo, si attende che qualcuno comunichi che l’incubo è finito. E nelle more dell’attesa qualcuno si chiede se la situazione che si sta vivendo non abbia magari uno scopo, una funzione intermedia.
Chi ha fede nelle scie chimiche penserà al complotto di una potenza nemica, chi crede nella trascendenza vi vedrà una punizione per la disumanità dell’umanità, chi tiene i piedi saldi al terreno si interrogherà su come uscirne. Qualcuno si chiederà anche, magari, se questa emergenza non offra la possibilità di constatare a che grado di distopia sia arrivata la nostra civiltà, accorgendosi che tutto è già scritto nella Peste di Camus. Si cammina poco per le strade e se ci si incontra ci si guarda con sospetto, evitando gli sguardi per evitare il contatto, e il contagio.
Si ascoltano le notizie e si scruta il contesto alla ricerca degli untori. Ci si tiene a distanza dallo straniero, specie se viaggiatore. Ci si accaparrano i generi di prima necessità lasciando vuoti gli scaffali per i meno previdenti e privandone coloro che non godono della nostra stessa mobilità. Si fa aggiotaggio sui prodotti igienico-sanitari, rendendoli inaccessibili agli altri.
Orwell, Huxley, Camus. Le chiamavamo distopie. Ora sappiamo che erano realtà, con un minimo di anticipo.
La peste dei nostri giorni ci sta dicendo chi siamo, fa da specchio al nostro egoismo e alla nostra indifferenza alla vita degli altri. Ed è inutile portare a controprova pochi atti di abnegazione e di eroismo. La massa siamo noi che torniamo a casa con scatoloni di spaghetti e di salsa di pomodoro. Una civiltà di abbuffoni, alla ricerca di un nemico da segnare a dito e di un estraneo da lasciar annegare. Non ci va di morire, ma se proprio dobbiamo farlo, almeno moriremo satolli.

Dario Calimani, Università di Venezia