Riflessione e solidarietà

david sorani“È arrivata la bufera,
è arrivato il temporale.
Chi sta bene e chi sta male,
e chi sta come gli va”.
Può riuscire una vecchia canzone di Renato Rascel a sdrammatizzare la tragedia in cui siamo immersi, può provare a farci nonostante tutto sorridere sulla nostra pericolante condizione? In realtà quella canzone fotografa come dall’alto, con disincantato realismo, la situazione attuale di un’ umanità impotente, travolta da una incontrollabile calamità. Eppure, le monadi sigillate in casa in questi giorni di rinnovato coprifuoco non si rassegnano al “chi sta come gli va” e cercano con tutte le loro forze di comunicare, di non perdere se stesse, di rimanere vive interagendo tra loro per via telematica o attraverso i balconi aperti, in un ammirevole slancio di nuova reciproca solidarietà. Tutto ciò fa ben sperare, in vista di un ritorno alla normalità da poco perduta che chissà quando mai ritroveremo. Ma fa anche riflettere. C’è modo e modo infatti di vivere il nostro odierno incubo e occorre interrogarsi sul significato di questa solidarietà fra naufraghi prigionieri delle loro isole domestiche.
Si può, con atteggiamento stoico, considerare l’epidemia di Covid-19 come un fatto insondabile, inesorabilmente tracciato attraverso un’incontrollabile successione di eventi (o destino, come l’avrebbero indicata nell’antichità), rispetto alla quale non c’è che accettare con forza interna il ruolo di testimone coraggioso e di possibile vittima in un’esperienza di sofferenza collettiva. Si può, con impulso epicureo, vedere nel Coronavirus un semplice fenomeno naturale sul quale comunque l’uomo non può intervenire e che ci offre come unica prospettiva di difesa o salvezza individuale la costruzione di un piccolo mondo chiuso e privato (“Vivi nascosto”, suggeriva Epicuro), una sorta di isola/edoné dalla quale collegarsi alle isole degli altri cercando e offrendo sostegno. Si può, con intenzione più consona al nostro essere ebrei, individuare nella diffusione del contagio non solo un rischio mortale dal quale difendere la nostra vita ma anche una prova fisica e non solo, un’occasione per guardarci fuori e dentro, per scavare nel nostro intimo e giudicare il nostro comportamento. Le impurità fisiche non sono forse interpretate dai nostri maestri come segno di un malessere interiore, come rivelazione di una interna inadeguatezza rispetto alla realtà dei fatti? Un virus è un virus, e come tale colpisce secondo comportamenti fisiologici. Ma il fatto che ci trafigga oggi in modo così implacabile non può spingerci verso una nuova teshuvà al di fuori del nostro calendario tradizionale, non può indurci a riflettere sul male del mondo e sulle ingiustizie interne alla nostra opulenta società tecnologica? La prova difficile alla quale siamo sottoposti in questo 2020/5780 di inaspettato tormento non dovrebbe spronarci, diffondendo sulla nostra pelle il disagio e la paura, a immedesimarci nella situazione di chi è in condizione perenne di difficoltà e di isolamento?
Nello spirito di resistenza di questi giorni, allora, la vera ritrovata solidarietà non è tanto quella di coloro che, dall’interno della comune paura, si incoraggiano a vicenda proclamando “andrà tutto bene” nell’attesa inquieta di un ritorno alla loro normalità, ma quella di chi, in condizioni di nuova personale precarietà, si interroga sulla precarietà generale e si trova vicino alla precarietà di coloro che, per esempio, cacciati da casa propria per guerre e carestie continuano a migrare in cerca di una meta. “Poiché anche voi siete stati forestieri nella terra d’Egitto” (Vaikrà, 19,34).
David Sorani