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L'Unione informa
 
    1 aprile 2009 - 7 Nisan 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  alfonso arbib Alfonso 
Arbib,

rabbino capo
di Milano
La Haggadà di Pèsach comincia con le domande del figlio e tutta la Haggadà è sostanzialmente la risposta del padre al figlio. Il Talmud stabilisce che questa risposta debba cominciare con qualcosa di negativo e finire con una lode. Il passaggio dal negativo al positivo, dalla luce al buio, dalla schiavitù alla libertà è uno degli elementi fondamentali della festa di Pèsach ed è presente anche nell’altro elemento caratterizzante della Haggadà, la struttura domanda-risposta. Perché ci siano domande (domande vere, non retoriche) si deve sentire un vuoto, una mancanza che la risposta dovrebbe riempire. Una risposta che non sia preceduta da una domanda, una trattazione che non nasca da un problema non riesce a essere apprezzata. Ognuno di noi ha bisogno di passare dall’esperienza del buio per percepire la luce.
All'alba dell'8 aprile, poco prima dell'entrata di Pesach, i gruppi ebraico-ambientalisti si ritroveranno sul tetto del Jewish Community  Center dell'Upper West Side di New York per pronunciare assieme una "benedizione del sole" che per alcuni è una rara mitzwà mentre per altriè un'altrettanto rara declinazione ecologista del proprio ebraismo.
Maurizio Molinari,
giornalista

maurizio molinari  
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  Tempo di Matzot

mercato
(tutti i diritti riservati, copyright Ruth Ellen Gruber)


Benvenuti all'Elat Market, una specie di "hard discount" kasher a Los Angeles, dove con mio padre e mio fratello ci siamo trovati fra la gente -molti di loro della comunità persiana- che freneticamente acquistava una galassia dei prodotti rigorosamente Kasher per Pesach. Lì e in altri negozi della zona abbiamo comprato anche noi matzot, cetriolini, rafano, un pollo per la minestra, e pesce macinato (per il babbo, cui piace preparare un gefillte fish vero e proprio). Mia nonna, la mamma del babbo, che era nata vicino Cernowitz, nel vecchio impero dell'Austria Ungheria, era immigrata in America da bambina, prima della Prima Guerra Mondiale. Aveva vissuto a lungo prima della sua morte a Los Angeles, e adesso diversi altri miei parenti vivono attorno alla metropoli californiana. Ogni volta che ci vado, mi rendo conto - con un po' di stupore - che nell'area di Los Angeles si trovano più ebrei di quelli che si trovano in tutta la Francia. Più o meno venti volte il numero degli ebrei che vivono oggi in Italia.

Ruth Ellen Gruber

Verso Pesach - Non dimentichiamoci di loro…

mazzahSiamo talmente presi dai preparativi per Pesach, che talvolta possiamo dimenticare l'essenziale. Senz'altro è molto importante preparare tutto perché la nostra casa sia pulita di ogni chametz, senz'altro è molto importante preparare tutto perché la nostra tavola sia pronta per il Seder, con le sue matzot, con i suoi quattro bicchieri di vino, con le Hagadot e così via.
Ebbene Rabbì Moshé Isserles (conosciuto come l'Haremà, 1525 ca.-1572) inizia le regole di Pesach con questa
osservazione-mizvà: "È minhag (ndr consuetudine) comperare grani da dividere ai poveri per Pesach..." (Shulchan Aruch, art. 429:1) ed il Chafetz Chaim, nella sua Mishnà Berurà  aggiunge: "Si tratta di un minhag antico del tempo della Ghemarà  (Talmud) e questo si trova ricordato nel Talmud Jerushalmì… e nei nostri posti il minhag è di dare loro farina perché possano preparare le matzot e bisogna dare quanto hanno bisogno per tutti i giorni di Pesach e se si tratta di persone molto povere si deve pagare loro anche per la cottura delle matzot". Oggi l'uso generale è di fare offerte in denaro per permettere alle persone bisognose di poter festeggiare Pesach come si deve (kimcha depischa).
Questi Chachamim vogliono dirci che non possiamo assolutamente mettere il nostro cuore in pace con l'invito fatto nella Haggadà a chi ha fame di venire a mangiare da noi; sappiamo bene che ai nostri giorni questo invito rimane molto spesso puramente teorico e sappiamo bene anche che molti sono i bisognosi di aiuto, famiglie che avrebbero piacere di stare assieme e non divise ognuno in un altro tavolo, sia pure ospitale; essi ci dicono che non possiamo sentirci degni di iniziare il nostro Seder se non abbiamo fatto quanto ci è possibile per aiutare chi ha bisogno, nella nostra Comunità prima di tutto, in Eretz Israel ed ovunque vi sia bisogno, a poter festeggiare almeno Pesach come persone libere.
Sono cose che sappiamo bene, che ci sembrano ovvie ma che forse proprio per questo rischiano di essere dimenticate e che allora è bene tenerle presenti fin dall'inizio.
Un posto particolare avrà nei nostri cuori anche il nostro chaial Zahal Ghilad Shalit: quanto vorremmo che persone che si dicono musulmani religiosi gli lasciassero pervenire almeno quanto necessario a fare un Seder in prigionia. Se in pratica non possiamo fare molto per lui, ricordiamolo almeno nelle nostre preghiere, teniamone vivo il ricordo. Anche questo è un modo di esprimere il nostro senso di solidarietà.

Alfredo Mordechai Rabello, giurista Università Ebraica di Gerusalemme


Nel sito moked.it una pagina speciale, costantemente aggiornata, dedicata a Pesach, con istruzioni, pensieri e link.



Qui Milano - Nedo Fiano agli studenti della Bocconi
Ricordare e mai dimenticare!


nedo fianoAccetta volentieri Nedo Fiano, l’invito a portare la propria testimonianza all’Università in cui si laureò 41 anni fa in Lingue e Letterature Moderne, per presentare il suo secondo libro “Il passato ritorna” (Editrice Monti, pp 192).
“Un’università meravigliosa” ricorda commosso “in cui sono arrivato tardi a causa delle vicissitudini della mia vita, ma in cui ho imparato tantissimo, e più di tutto a superare me stesso, perché non fu semplice rimettersi a studiare a quarant’anni. Io lo feci seguendo un consiglio che portavo nel cuore, quello della mia mamma, che un giorno mi disse: “Laureati”, come mio nonno, tempo prima, mi aveva detto: “Impara il tedesco” quel tedesco che ad Auschwitz mi salvò la vita.”
“Il passato ritorna” narra la storia di una coppia torinese, Ersilia e Gabriele Levi, che nel 1938 affidano il proprio bimbo appena nato ad una famiglia di amici svizzeri. Gabriele, ebreo viene deportato nel campo di sterminio di Auschwitz, da dove non farà ritorno, Ersilia muore sotto i bombardamenti. Il piccolo David cresce a Lugano, ignaro della propria identità, finché a 54 anni, imprenditore dalla vita agiata e dalle forti propensioni antisemite, non viene contattato da un anziano medico ebreo compagno del padre ad Auschwitz, che gli racconta la verità sul suo passato. David dovrà affrontare e superare una profonda crisi esistenziale attraverso la ricerca spasmodica delle sue radici e di chi fece arrestare il padre, e la rivelazione della propria origine a coloro con cui condivideva le proprie idee antisemite.
È un incontro ricco quello organizzato dall’ISU Bocconi con la collaborazione
dell’Università, della libreria Egea e dell’editrice Monti, davanti a una platea molto coinvolta, ma non numerosissima, complici gli esami imminenti, che, introdotto dal direttore dell’editrice Monti, Sergio Slavazza, ha visto come relatore anche rav Giuseppe Laras, rabbino capo di Milano dal 1980 al 2005 e Presidente dell’Assemblea Rabbinica Italiana.

“Quando chiesi a Nedo come potesse essere inquadrato questo suo secondo libro se andasse considerato un romanzo storico, autobiografico o di fantasia, egli mi rispose che quest’opera racconta una storia inventata.” ricorda Rav Laras “Io ho letto questo libro e oggi sono qui a presentarlo come avevo fatto col primo (A5405, Il coraggio di vivere - Editrice Monti). E leggendolo ho incontrato la preoccupazione, l’angoscia della famiglia Levi quando fu promulgata la legislazione razzista, un’angoscia reale. L’arrivo del padre del protagonista ad Auschwitz dopo un viaggio d’orrori, le urla che sente, gli odori, l’abbaiare dei cani, sono reali. Così come il dottor Mengele che con occhi “apparentemente buoni” e cioccolatini cercava tra tutta quella gente i gemelli per condurli ai suoi esperimenti. Quanti sono gli esseri umani che hanno vissuto le esperienze di questa famiglia torinese, senza che nessuno abbia potuto raccontarlo? Ecco perché questa storia pure non vera, non può essere considerata di fantasia. È una testimonianza attraverso la parola scritta che è capace di superare la dimensione del tempo. “Ricordati di quello che ha fatto Amalek” recita un passo del Deuteronomio. Questo imperativo rimane un dovere fondamentale per tutti, e presuppone uno sforzo, che deve essere compiuto non solo dal popolo ebraico, ma dall’umanità intera. Ricordare significa adoperarsi attivamente, perché nel tempo in cui saranno scomparsi i testimoni diretti, i loro figli, i loro nipoti, sulla Shoà non scenda il silenzio e, di conseguenza, l’oblio.”“Questa è la ragione per cui l’impegno letterario è diventato la mia principale occupazione.” Così Nedo Fiano si riallaccia al discorso del rav Laras. “Lo scritto, a differenza della parola, è capace di sconfiggere il tempo. Io non sono uno scrittore importante o prolifico. La mia pretesa non è di sapere molto, ma di sapere qualcosa che gli altri non sanno e debbono sapere. Per me il ricordo della Shoà è qualcosa di tangibile, che mi accompagna ogni giorno della vita. E mi rende più forte. Perché l’uomo senza ricordo è fragile, facilmente attaccabile. Io che sono sopravvissuto ad Auschwitz per un miracolo che non sono mai riuscito a comprendere fino in fondo, sono capace di vivere ogni giorno nell’ottimismo e nella consapevolezza del privilegio costituito dalla propria esistenza, dall’amore, ma anche solo dalla possibilità di riposare quando si è stanchi, e di mangiare quando si ha fame. La Shoà non solo privò milioni di esseri umani della vita. Ci privò della dignità. Non dimenticherò mai l’immenso dolore che provai nel vedere mio padre, uomo così pieno di contegno, costretto a sorbire l’immonda brodaglia che ci diedero quando arrivammo ad Auschwitz direttamente con la bocca, come un animale. Né gli occhi bassi di mia madre quando incontravamo i vicini che un giorno avevano smesso di salutarci. Tutto questo aveva sconfitto i miei genitori, prima che venissero uccisi. Ma io ero giovane, e i giovani hanno una capacità di recuperare, di superare, pur nella sofferenza, le umiliazioni, che a me consentì di andare avanti, portando questi ricordi, e i miei genitori,dentro di me. Nessuno può comprendere cosa significhi per me, quale gioia ed emozione, il fatto che nel Parlamento del mio Paese, che tanti anni fa ci ripudiò, oggi sieda mio figlio (l’onorevole Emanuele Fiano). Vorrei tanto che mia madre potesse vedere tutto questo. Lei con la sua semplicità, vedere suo nipote ricoprire un ruolo politico così importante. Avrei davvero desiderato che potesse esserci. Ma, in fondo, so che può.”

Rossella Tercatin

 
 
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  La libertà di sognare, piccolo rifugio
che i tiranni non potranno mai soffocare

Marco è, nonostante il nome italiano, un bambino sudanese di undici anni sfuggito alle stragi del Darfur e giunto in Israele, dopo una terribile peripezia nel deserto, insieme alla madre.
L'ultimo tratto, sino al confine egiziano, pare che i due  l'abbiano fatto nascosti in un camion, coperti da uno strato di sabbia: una televisione israeliana ha intervistato l'altra sera il bambino che ora studia anche l'ebraico e, cosa che ha commosso molti telespettatori, ha dichiarato che il suo sogno è di tornare in Africa e fondare una scuola. Intanto a Doha il "boia del Sudan", ovvero il Presidente Bashir, riceve la calorosa solidarietà dei paesi arabi e si apprende che potrebbero essere decine e decine le vittime dell'ultima partenza di disperati, pare alla volta di Lampedusa, avvenuta dalla Libia dell'ex dittatore Gheddafi, ormai  divenuto anche per noi, "real politik oblige", amico, statista ed anche premier (alla faccia della nobiltà democratica del termine).
Consoliamoci, il mondo non è strano solo quando si parla di Israele.

Gadi Polacco, Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
 
 
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rassegna stampa    
 
 
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La fiducia votata ieri al nuovo governo israeliano di Bibi Netanyahu, il programma col quale il neo-premier si è presentato alla Knesset, i grandi problemi e le incerte prospettive che l’esecutivo trova davanti a sé costituiscono l’argomento centrale della rassegna stampa di oggi. I giornali italiani non paiono gradire il ministero ora agli esordi, scriveva ieri su questo stesso spazio Ugo Volli. Uno sguardo alle pagine dei quotidiani di stamattina ce ne fornisce la piena conferma. Ovunque riserve e scetticismo sulla compattezza della squadra, talvolta aspre critiche al discorso inaugurale del primo ministro. E’ vero, gli organismi come le persone si giudicano in base a ciò che fanno e ai risultati che ottengono, non tanto e non solo in rapporto al loro passato e ai loro schieramenti ideologici. Però è innegabile che l’identità prevalente di questo governo, le sue interne contraddizioni politiche, la sua lettura della questione israelo-palestinese nel più vasto scenario mediorientale non appaiono incoraggianti. E la stampa nostrana non può certo ignorare questa realtà, non può esimersi da un realistico giudizio politico.
Diamo dunque uno sguardo critico alla spietata analisi condotta anche oggi dai nostri quotidiani. Francesco Battistini sul Corriere della Sera si limita veramente a una circostanziata cronaca, che però basta da sola a cogliere i punti deboli e le zone vuote della nuova formazione. Dopo aver delineato i “due tsunami” che Israele dovrà a breve affrontare – la crisi economica e la sicurezza, Netanyahu ha lanciato messaggi precisi in più direzioni: verso l’Iran (considerato oggi il maggior pericolo per l’umanità), ricordando che Israele è in grado di rispondere alle provocazioni e di difendersi; verso l’Occidente, marcando come segno di povertà la sua mancata o scarsa reazione agli incitamenti antisemiti di Ahmadinejad; verso l’amministrazione Obama, a cui ha ribadito che non ci sono scorciatoie possibili per la pace; verso il mondo arabo, con il quale auspica una “pace piena” (cosa vuol dire, in concreto?). Ma nei confronti dei palestinesi Bibi si è limitato a parlare di “negoziati di pace permanenti” (cioè inconcludenti come sempre?) con l’ANP e ad appoggiare un suo quasi pieno autogoverno nelle zone dell’autonomia; niente ha detto su un futuro Stato palestinese, segno chiaro della perdurante opposizione alla linea “due Stati per due popoli” ormai prevalente a livello internazionale. Il Foglio non si nasconde e non cela ai lettori i difficili nodi internazionali e interni che attendono Netanyahu, né mette sotto il tappeto le credenziali limitate che questo schieramento magmatico ha a disposizione per tentare di scioglierli. Fornisce però una lettura acuta del personaggio-Bibi, in passato “Grande divisore” estremista e radicale del quadro politico israeliano, ora – puntando al centro – convinto interprete del ruolo di “Grande unificatore” tra forze assai eterogenee. Il trasformismo sarà dunque un punto di forza del nuovo premier? Paradossalmente lo sostiene anche, sia pur in chiave polemica, un durissimo articolo di Uri Avnery sul Manifesto. Il politologo israeliano è spietato. La compagine approvata dalla Knesset è un “inganno per la patria”: un governo senza programma, pronto a disattendere tutte le promesse, refrattario a ogni autentica volontà di pace, capace di unificare personaggi come Lieberman, definito addirittura “fratello spirituale di Le Pen”, e Barak, alfiere di un partito – l’Avodà, cioè i Laburisti – nato e vissuto per stare perennemente al potere.  Un governo in cui però, proprio per questa eterogeneità e assenza di ideali, il premier avrà grandi libertà e spazi di manovra, riuscendo a far fronte senza problemi a eventuali defezioni, come quella di Lieberman se il ministro degli esteri sarà travolto dall’inchiesta per corruzione che lo coinvolge. Il pezzo di Avnery è in sé duro ma onesto, perché “dall’interno”e perché vincolato comunque a una “logica israeliana”. Nel sommario con cui è presentato, davvero un’altra realtà rispetto all’articolo, emerge invece la malafede del “Manifesto”. Leggiamolo: “Con l’aggiunta cosmetica dei laburisti l’esecutivo vuole continuare la colonizzazione della Palestina. Ma gli Stati uniti (sic) hanno svoltato a sinistra e potrebbero rappresentare un macigno sulla strada dell’ultradestra che ha preso il potere a Tel Aviv e mettere in dubbio la “relazione speciale” tra i due paesi”. Roba da manuale della disinformazione propagandistica anti-israeliana, specializzata nella manipolazione di situazioni reali diretta a creare il nemico stereotipato, il “malvagio Israele imperialista”. Da apprezzare particolarmente la perla sulla “colonizzazione della Palestina”, a cui Avnery neppure accenna nel testo.
E’ Ugo Tramballi sul Sole 24 Ore a riconciliarci con l’onesto giornalismo critico. Comincia saggiamente col reclamare una base iniziale di fiducia per dei personaggi politici che “resterebbero quello che sono stati finora” se non trovassero un minimo di credito internazionale. Poi certo emergono le sue riserve, ma con l’equilibrio del sottile analista. Finora la pace in Medio Oriente l’ha fatta solo la destra (Begin), ma la pace con un popolo senza terra che vuole la stessa terra che vogliono gli israeliani è altra cosa. Lieberman è un razzista ma pragmatico e forse sarà d’accordo per lo Stato palestinese. Barak è un socialista che non è mai stato socialista, ma è un soldato che potrà o dovrà diventare l’anima pacifista del governo, rivelandosi come l’uomo di Obama nell’esecutivo israeliano. E dell’appoggio americano Israele – a detta di tutti gli schieramenti – non può proprio fare a meno.
Le tante altre letture della presentazione del governo israeliano (Avvenire, Il Giornale,
LiberoIl Messaggero, Liberazione, L’UnitàLa Stampa) non offrono in realtà prospettive molto diverse. Ovunque scetticismo e incertezza, molto più marcata a sinistra (L’Unità, Liberazione). Ovunque l’accentuazione della spartizione delle poltrone (quasi a consolarsi di un male non solo italiano…) e delle polemiche interne: Silvan Shalom del Likud che voleva gli esteri è stato compensato con altri dicasteri secondari e con la vicepresidenza, ma avrà gli esteri se Lieberman dovrà andarsene per il processo a suo carico. Lieberman che non ci sta e minaccia in quel caso di ritirare Israel Beitenu dalla coalizione: per noi italiani  tutto ciò ha un sapore assai familiare…
Conviene piuttosto concentrarsi da ultimo su altri aspetti dello scenario mediorientale, che richiamano l’attenzione di alcuni giornali di oggi e che rappresentano altrettanti scogli per il nuovo governo israeliano. Ieri il mondo palestinese ha celebrato la “Giornata della Terra” a ricordo della vicenda del 30 marzo 1976, quando la protesta palestinese contro il sequestro israeliano di vari appezzamenti di terreno fu repressa con durezza dall’intervento di Tsahal e della polizia. E’ Irene Panighetti a riferirci su Liberazione della manifestazione di ieri. Lo fa in modo visceralmente anti-israeliano, sottolineando l’attualità della protesta in presenza di analoghe situazioni attuali, presentando ampiamente come legittima e giusta la prospettiva del boicottaggio totale contro Israele, stigmatizzando i palestinesi incoscienti che continuano a preferire i prodotti israeliani, fornendo addirittura indicazioni pratiche per unirsi alla “nobile” protesta contro il nemico sionista, e via di seguito. Come se l’esclusione dell’avversario dal consesso civile (un avversario già escluso altre volte dal consesso civile, da parte di altri regimi,  e con quali conseguenze…) potesse servire a risolvere i conflitti e non portasse invece alla loro esasperazione. Però una cosa vera quest’articolo la rivela: l’irriducibile opposizione del mondo palestinese, o almeno delle sue guide politiche, a Israele. E con questa Netanyahu dovrà fare i conti.
Il Corriere della Sera (con un’analisi geopolitica di Franco Venturini) e Il Foglio si soffermano invece sull’Iran, invitato alla Conferenza dell’Aja sull’Afhanistan nel quadro della  nuova politica di apertura inaugurata dall’amministrazione Obama. Venturini sostiene la linea americana, ma ne sottolinea i rischi e si mostra piuttosto scettico sulla reale volontà di cambiamento da parte di Teheran. Il Foglio punta la sua attenzione su una lettera inviata al Presidente USA dal capogruppo democratico alla Camera Steny Hoyer e dai presidenti delle commissioni esteri, forze armate e intelligence. I quattro illustri politici invitano Obama ad andare sino in fondo adesso con le aperture all’Iran, per avere una risposta chiara in fretta ed evitare così che possibili dilazioni coprano la prosecuzione del programma nucleare iraniano sino a portarlo a compimento, perché a quel punto sarebbe troppo tardi per correre ai ripari.
                                                                                                                                   David Sorani

 
 
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Israele: "Portare avanti la pace su tutti i fronti",                                  
Il monito di Peres a Netanyahu
Gerusalemme, 1 apr -
Il governo israeliano dovrà "fare uno sforzo supremo per per portare avanti la pace su tutti i fronti". Così il presidente israeliano Shimon Peres ha detto stamane al nuovo premier Benyamin Netanyahu sottolineando che spetta ora al nuovo governo di mettere in atto la formula di "due Stati per due popoli", per una soluzione del conflitto con i palestinesi, sostenuta dalla maggior parte della comunità internazionale. Peres, che si è così espresso nel corso di una cerimonia di congedo dal premier uscente Ehud Olmert e di investitura del nuovo governo nella residenza presidenziale a Gerusalemme, ha poi aggiunto: "E' stata pubblicata l'iniziativa araba per una pace regionale. Non conosco un'alternativa migliore di quella della pace nella regione". Poco prima il premier uscente Ehud Olmert e il nuovo premier Benyamin Netanyahu erano giunti assieme alle rispettive consorti nella residenza presidenziale, accolti con squilli di trombe e da un picchetto d'onore, mentre tutti i ministri del passato governo e di quello entrante erano in attesa nel salone dei ricevimenti. In un discorso di congedo Olmert ha detto di concludere il suo mandato "con orgoglio e soddisfazione" ma anche col rammarico di non essere riuscito a concludere un accordo di pace con i palestinesi "anche se abbiamo fatto passi avanti in quella direzione". Il neo premier ha detto che il suo governo ha raccolto "un compito pesante" e di avere piena fiducia nelle sue capacità. "Subito dopo questa cerimonia - ha detto - dovremo rimboccarci le maniche e cominciare a lavorare".

 
 
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