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L'Unione informa
 
    3 aprile 2009 - 9 Nisan 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  Roberto Colombo Roberto Colombo,
rabbino
Veèt hamattè hazèh tikàch beyadèkha – questa verga prenderai nella tua mano. Con essa farai prodigi (Hagadà). Spiegava il Rebbe di Belz: “Moshè aveva proprio bisogno della verga per compiere miracoli? Non bastava la sua parola per mandare piaghe o aprire il Mar Rosso? Mattè significa verga ma lo stesso termine si usa nella Torà anche per definire le tribù d’Israele (mattòt). Tenendo in mano quel bastone Moshè doveva concentrarsi sul popolo e pensare alla salvezza di ogni ebreo. Allora il miracolo si compiva”. Se, come insegnante di Torà, pensassi solo al futuro di ogni mio alunno potrei veramente fare miracoli. 
Una delle poche facilitazioni che offre attualmente la cittadinanza israeliana è di fare un solo Seder. Vittorio Dan Segre, pensionato Vittorio Dan Segre  
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  Pacifici - AnnunziataQui Roma – Lucia Annunziata
e l'etica del giornalismo


Lucia Annunziata e un gruppo di giovani giornalisti, o aspiranti tali, in una tranquilla serata primaverile nel cortile dalla scuola ebraica di Roma per rispondere a una domanda "esiste (o esiste ancora) un'etica del giornalismo?"
La Annunziata, giornalista autorevole attualmente editorialista de La Stampa, ha attraversato il lungo corridoio creato fra le lunghe file di sedie prima di giungere a un piccolo palco al centro della sala. Ad attenderla il Presidente della Comunità Ebraica di Roma, Riccardo Pacifici (nell'immagine assieme a lei) e un gruppo di giovani appartenenti alla Comunità.
"Vogliamo inaugurare un ciclo di incontri sul tema 'Etica e giornalismo', ha spiegato nell'aprire la serata Riccardo Pacifici, visto che le ultime vicende della guerra a Gaza, ma forse sarebbe meglio dire a Sderot dal momento che è da lì che è iniziata, ci ha posto una serie di interrogativi sul modo di fare giornalismo".
Uno schermo gigante ha poi mostrato le immagini della trasmissione di Santoro 'Annozero'  del 27 gennaio dedicata a Gaza. Trasmissione che la giornalista, ospite della serata, ha abbandonato per protesta contro la faziosità del conduttore. Un lungo applauso del pubblico ha accolto le immagini, ma la Annunziata con fare serio e pacato ha spiegato " Non l'ho fatto per difendere Israele, ero semplicemente indignata di quanto stava avvenendo, si è trattato esclusivamente di una reazione a livello professionale che aveva a che fare con l'uso delle immagini, con il pubblico invitato, con la posizione assegnata agli ospiti in sala. Ho vissuto in Israele per quattro anni, fra il 1988 e il 1992, dove ero stata inviata per lavoro, e ho imparato in Israele più che in altri posti che non bisogna manipolare le emozioni, che non si può raccontare la guerra attraverso immagini di donne e di bambini che piangono, la guerra va raccontata con una certa freddezza".
Nella sala affollata, il pubblico ascoltava in silenzio e con attenzione, in prima fila sedeva il rav Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma e sparsi fra la gente, tantissimi giovani.
I tre giornalisti Daniel Arbib, Giorgia Fargion e Natania Zevi hanno posto alla Annunziata domande a raffica: che cosa ha provato nel rivedere le immagini di quella sera? Pensa che una cosa simile sarebbe potuta avvenire in una trasmissione del genere in un'altra parte del mondo? Che cosa la spinse ad abbandonare la trasmissione? Ritiene che esista un prototipo di giornalista eticamente corretto? Quali rapporti la legano oggi a Santoro?
Le risposte arrivano lentamente, Lucia Annunziata parla a bassa voce con disponibilità e professionalità senza infastidirsi, senza tradire un'emozione, poi riguardo a Santoro si lascia andare a un commento: "Santoro è un grandissimo uomo televisivo, dà voce a soggetti e temi che nella televisione non ci sono e, a maggior ragione, per questo sono intervenuta alla sua trasmissione, ma adesso ho deciso che per due anni non gli voglio parlare..."

Lucilla Efrati e Valerio Mieli





Qui Torino - Molinette, uno spazio dove pregare
e raccogliersi senza distinzione di Credo


Molinette Centocinquanta metri per ‘ritrovarsi col proprio spirito’, senza simboli religiosi, scritte, quadri di alcun genere, il colore azzurro che prevale su tutto punteggiato da piccole luci che ricordano un cielo stellato. E’ la nuova ‘Stanza del silenzio’, lo spazio interreligioso aperto a tutti inaugurato alle Molinette, primo tra i grandi ospedali pubblici italiani (con i suoi 1250 letti e 35.000 persone dimesse ogni anno) a dotarsi di un luogo per raccogliersi, meditare, pregare e convivere meglio, così, con le preoccupazioni per la malattia e la sofferenza proprie o dei propri cari.

Quando il progetto era stato annunciato, nei mesi scorsi, avevano scritto anche gli atei italiani guidati da Piergiorgio Odifreddi: "E chi non crede dove andrà?". Risposta: "Venite, fateci delle proposte", ma la cosa non ha avuto seguito. Soddisfatti invece cattolici, evangelici, ebrei, musulmani, buddisti e induisti che già avevano partecipato all’esperienza del Comitato Interfedi nato per garantire assistenza spirituale a atleti e ospiti dei XX Giochi Olimpici: dopo aver già aderito all’iniziativa che garantisce a tutti i ricoverati dell’ospedale di poter rintracciare un ministro del proprio culto in ogni momento, ora hanno partecipato attivamente alla progettazione del nuovo spazio, che contiene tra l’altro un’area per chi prega o medita a piedi scalzi, panche e sofà, uno spogliatoio dove lasciare scarpe o indossare eventuali indumenti rituali. Chi vuole prenotare un incontro collettivo può farlo (allo 011/6336399) ma per il resto chi entra nella Stanza (ricavata dove un tempo esisteva la cappella cattolica nel seminterrato dell’ospedale dermatologico e aperta dalle 8 alle 20) deve restare in silenzio. E l’anno prossimo lo stesso spazio potrebbe essere usato anche dai pazienti che vogliono leggere nella quiete, in collaborazione con il Circolo dei Lettori.

Contento il direttore generale, Giuseppe Galanzino: "Questa iniziativa è all’avanguardia in Italia e ci abbiamo creduto perché va nel senso di rimettere al centro di tutta la nostra attività, già eccellente sul piano medico e scientifico, la persona umana nella sua interezza". E aggiunge: "Il cardinal Poletto ci ha sostenuti, tra l’altro anche destinando a questa idea la cappella sconsacrata. In questo campo non sono tanto importanti i numeri, non ci interessa – almeno in un primo momento – che arrivino decine o centinaia di persone, ma il messaggio di pace e di convivenza, di ascolto e di raccoglimento che arriva dal nuovo spazio. Tutti i rappresentanti religiosi hanno partecipato con entusiasmo proprio per questo motivo".

(Nell'immagine in alto un momento della cerimonia all'ospedale torinese delle Molinette. Al centro del gruppo il vicepresidente dell'Unione delle Comunità ebraiche Claudia De Benedetti - dal Corriere della Sera, 3 aprile 2009, pagina 25)

Vera Schiavazzi, Repubblica Torino, 2 aprile 2009





mazzahSpeciale Pesach 5769

Diario
Domani, sabato 4 aprile, è Shabbat hagadol. Si legge una haftarà speciale, dal terzo capitolo di Malakhì, nella quale si annuncia l’arrivo di Elihau haNavi “prima che venga il giorno del Signore, grande e terribile”. I rabbini nella derashà illustrano alcune regole per la preparazione a Pesach.

Questo e altri contenuti speciali su Pesach nel sito moked.it





vetrodoroQui Trieste - Un capolavoro di vetro d'oro
riemerso dagli scavi di Caesarea


Forse era un lussuoso tavolo. Forse l’ornamento della nicchia di una cappella. Il suo utilizzo rimane ancora misterioso. Ma il magnifico pannello di vetro dorato ritrovato tre anni fa in uno scavo a Caesarea, nel palazzo del Mosaico dell’Uccello, è senz’altro uno dei più importanti ritrovamenti registrati in quest’area ancora così ricca dal punto di vista archeologico. Un reperto unico nel suo genere. La sua scoperta e il restauro, portato a termine di recente dall’Israel Antiquities Authority, sono stati presentati a Trieste in un incontro promosso dall'Adei da uno dei principali artefici, Jacques Neguer, sovrintendente del Dipartimento di restauro del ministero israeliano per le Antichità.
“Il pannello di vetro scoperto a Caesarea è il più importante ritrovamento avvenuto nel palazzo di epoca bizantina situato 500 metri al di fuori delle mura orientali della città di Cesarea Marittima”, spiega Jacques Neguer, di origini bulgare, che in passato è stato conservatore all’Istituto nazionale per i monumenti storici di Sofia e si è specializzato nella conservazione dei mosaici all’Istituto centrale di restauro di Roma.
Il rinvenimento è avvenuto nel 2005 quasi per caso. Il pannello dorato fu infatti trovato appoggiato sul grande pavimento a mosaico figurativo, noto come il “mosaico dell’uccello”, riaperto allora per il restauro. Il retro, probabilmente realizzato con materiali organici quali legno o tessuto, è stato completamente bruciato. Ma la facciata a vetro rimasta è un vero capolavoro.
“Il pannello – dice Neguer - comprende una parte centrale, delimitata da una grande cornice. Entrambe le sezioni sono composte da una combinazione di tessere translucide di vetro dorato e tessere di vetro colorato opaco”. “Le tessere dorate – continua - sono di piccole dimensioni. Le quadrate, decorate con una croce e una rosetta a otto foglie in rilievo, misurano circa cinque centimetri di lato mentre quelle rettangolari e triangolari sono anche più piccole. I motivi sono unici e finora nessun parallelo è stato individuato in altri scavi archeologici o collezioni”. Lungo la composizione le tessere di vetro dorato e quelle di vetro mosaico si alternano a comporre un motivo di grande fascino. E a conferire un tocco di rara preziosità al manufatto è la presenza, in ciascuna delle tessere di vetro dorato, di una lamina d’oro sottilissima.
L’uso del pannello è ancora poco chiaro. “Poteva essere usato come tavolo – spiega Jacques Neguer – poiché somiglia ai tavoli di marmo a forma di sigma frequenti nelle costruzioni bizantine. Frammenti di tavoli di marmo della stessa forma e misura sono stati infatti rivenuti nella stessa zona. Ma il pannello poteva essere usato anche per decorare la nicchia di una cappella e i disegni che lo ornano avrebbero dunque un significato religioso, gettando così una nuova luce sull’intero complesso”.

Daniela Gross 
 
 
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  Volli UgoIl dibattito pubblico
sull'operazione "Piombo fuso"

Penso che sia importante continuare a riflettere sul dibattito pubblico che c’è stato in questi mesi sull’operazione “Piombo fuso”. Chi segue con molta attenzione le cronache, si sarà accorto in questi giorni che un’inchiesta interna dell’esercito israeliano ha dimostrato che erano infondate le accuse di atrocità sollevate la settimana scorsa da alcuni soldati anonimi sollecitati da un ex ufficiale condannato a suo tempo per aver rifiutato di far la guardia a una cerimonia religiosa e che da tempo si qualifica come un “refuznik”: uno che rifiuta la legittimità di Israele e della sua difesa. Nessuna vecchietta è stata uccisa per divertimento, nessun civile è stato mandato a destra invece che a sinistra per ammazzarlo eccetera eccetera. I soldati che hanno diffuso le voci non erano stati testimoni oculari ma le avevano riportate da altri; gli episodi da cui nascevano si erano svolti in modo opposto a quanto raccontato (per esempio la storia della vecchietta era nata dal rimprovero di un ufficiale che aveva detto a una sentinella che sparava in aria per bloccare la figura sospetta che si avvicinava: “fai attenzione a non colpire i civili”.
Qualcosa del genere è successo con le scuole dell’Onu, che non sono state bombardate durante l’operazione, come ha dichiarato il loro stesso direttore, ma solo dopo una massiccia campagna mediatica che condannava Israele per questo “crimine di guerra”. In particolare ciò è accaduto per il tema particolarmente critico della morte dei bambini: l’esercito israeliano ha contato e dato nomi e identità una a una alle vittime della guerra. i bambini fino a 16 anni erano 89 su 1300 morti circa; perdite terribili, senza dubbio, ma in proporzioni tali da escludere che siano state programmate e cercate, ma anzi da dimostrare statisticamente  una particolare cura nell’evitarli, visto che la loro proporzione sulla popolazione complessiva è di circa la metà. Lo stesso si è visto col caso Al Doura, quel ragazzino che sarebbe stato ucciso dall’esercito israeliano all’inizio della seconda intifada, nel 2002. Un tribunale francese ha stabilito che il fatto non era andato come era stato detto, ma che si era trattato di una montatura della televisione francese che l’aveva lanciato. E’ probabile che il ragazzino non sia mai morto e che tutta la scena fosse stata una falsificazione montata apposta con la complicità dell’operatore locale della televisione. E’ così per la “strage” di Jenin, per l’”assedio” della basilica della natività a Betlemme, eccetera.
Si potrebbe continuare a lungo. Il meccanismo è questo: si lancia (spesso sui giornali israeliani) una calunnia contro Israele e il suo esercito, questa calunnia ottiene un grande clamore mediatico in tutto il mondo, dopodiché viene smentita, ma di questo non si occupa nessuno. Che le smentite non servano a granché nel sistema dei media, anzi che siano “una notizia data due volte” è un fatto che gli esperti di comunicazione conoscono bene. Il problema è però più vasto. Mentre è ovvio che i palestinesi commettono atrocità contro i civili, con gli attentatori suicidi, i razzi da Gaza, gli stessi crimini contro i dissidenti della loro popolazione (omosessuali, “collaborazionisti”, donne ecc.) è Israele che agli occhi del mondo appare come una potenza omicida e sregolata, i palestinesi come vittime più o meno innocenti. Che questa propaganda sia propalata dai nemici di Israele è ovvio. Il fatto è che essa è condivisa da uno strato importante non della popolazione, ma dell’intellighenzia israeliana ed ebraica, il che richiede una spiegazione.
Se prendiamo il caso delle “rivelazioni” smentite sulla cattiveria dei “soldati religiosi” , la stessa Haaretz che aveva propalato le storie senza verificarle con grandi titoli in prima pagina, ha accettato il verdetto, con un editoriale non firmato e dunque attribuibile alla direzione, ma si è guardato bene dal chiedere scusa. Ha pubblicato però anche un’opinione di Gideon Levy, in cui si sostiene in sostanza che se la giustizia militare ha accertato che i fatti non si sono svolti e l’esercito non aveva colpe, allora è sbagliata la giustizia militare. Il fatto è che per molti Israele deve avere torto, perché i suoi nemici devono aver ragione. E’ un meccanismo fortemente ideologico, che agisce in molte situazioni politiche ed è stato analizzato a suo tempo da Gramsci sotto il nome antico di “egemonia”. Uno strato o movimento sociale per Gramsi è “egemonico” quando le sue ragioni, che sono ovviamente di parte, diventano la ragione generale, il criterio di valutazione valido anche per i suoi avversari.
E’ evidente che in questo momento in buona parte dell’Europa, ma anche nella maggioranza degli intellettuali israeliani, c’è un’egemonia terzomondista e concretamente filopalestinese. La tacita premessa di ogni discorso, compreso quello del finto ammazzamento di Al Doura, è che l’Occidente ha torto perché colonialista e aggressivo; che Israele è una punta di questo colonialismo che continua a ferire il mondo islamico, innocente come tutto il Terzo Mondo; che dunque l’esistenza stessa di Israele è illegittima, anche se legale. Quindi deve commettere dei crimini. Quando Gideon Levy parla di “giustizia”, su cui, come raccontava Anna Foa su Moked una decina di giorni fa, si sente più severo col suo Paese che con gli altri, non si riferisce al diritto in senso banale (ciascuno è responsabile delle sue azioni secondo le leggi), ma a una nozione molto più ideologica e astratta di Giustizia (come sarebbe giusto fossero le cose). Non è dunque interessato ad accertare la verità dei fatti, ma a condannare l’ingiustizia politica costituita dall’esistenza di Israele (e anche dalla sua, presumo; ma qui siamo nell’ambito ben collaudato dell’odio di sé che accompagna buona parte dell’ebraismo moderno).  
E’ importante rifiutare questa logica: non è giusta una giustizia ideologica ed egemonizzata dal terzomondismo (o dai residui di comunismo per cui è ottimo ogni movimento politico o sociale contrario al capitalismo, sia pure il sistema oppressivo e “fascista” dell’islamismo militante). La giustizia dev’essere laica, “uguale per tutti” e non schierarsi a priori per “la parte giusta”, quella che “ha ragione” per principio. Non c’è bisogno di una giustizia ideologica e di un’egemonia opposta per assolvere Israele dalle mille colpe che gli attribuiscono. Basta una giustizia laica, non ideologica, che accerta i fatti e li misura sulla legge.

Ugo Volli, semiologo





Benji Oskar Money - Bank Hapoalim finisce in rosso,
ma promette una svolta positiva


Israele non sfugge all’onda lunga della recessione: la seconda banca più grande del paese, Bank Hapoalim, ha infatti annunciato una perdita netta nel 2008 di 895 milioni di shekel (circa 163 milioni di euro), ancor più grave di quella che era stata stimata nel “profit warning” di febbraio che parlava di 780 milioni.

In seguito a questa situazione si è dimesso il Ceo Zvi Ziv, anche per le incomprensioni e differenti vedute con il presidente del Consiglio d'amministrazione Danny Dankner, il quale ha affermato che nonostante le perdite, la banca sta già adottando i provvedimenti necessari per uscire dal periodo di difficoltà legato inevitabilmente alla crisi economica internazionale. Inoltre afferma sempre Dankner “la banca ha una solida base finanziaria e ci aspettiamo rendimenti positivi nei prossimi anni ed una rinnovata crescita nel lungo periodo”.

Ziv sarà sostituito dal suo vice Zion Keinan, capo del Corporate Banking e con un’esperienza internazionale di 30 anni e  a detta della banca il candidato naturale per questa posizione.

La notizia ha ovviamente avuto grande risalto visto che questa è la prima volta dal 1988 che la banca finisce l’anno in rosso e fa ancora più scalpore se si pensa al risultato del 2007 nel quale i conti di Hapoalim avevano visto un utile di 2,7 miliardi di shekel (circa 490 milioni di euro).

In un contesto del genere e in un periodo da caccia alla streghe nei confronti dei manager e dei loro superbonus, (in senso non solo metaforico dopo le immagini viste recentemente negli Usa e l’assalto alla casa del Ceo di Aig), fanno notizia anche gli stipendi dei top bankers: il dipendente più pagato in casa Hapoalim è il Ceo della divisione Capital Markets che nel 2008 ha guadagnato la bellezza di 11,5 milioni di shekel (poco più di 2 milioni di euro), mentre Dankner “solamente” 4,8 milioni di shekel (ovvero 870 mila euro).

Notizie che non avranno certo fatto piacere ai correntisti della banca, i quali hanno anche saputo che l’ormai ex Ceo Ziv, il quale ha annunciato le dimissioni 21 mesi prima che il suo contratto scadesse e che lascerà la banca a fine anno dopo di 35 anni di servizio, che stando ai dati del 2008 ha gravato sui conti per la modica cifra di 3,3 milioni di shekel (circa 600 mila euro).

Benjamin Oskar

 
 
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Dopo tante parole quanto potrà l’astensione della voce dal proferirne di inutili? Alle Molinette di Torino, il maggiore nosocomio della città, è stata istituita la “stanza del silenzio”, un luogo di meditazione e di raccoglimento, aperto agli appartenenti di tutte le confessioni così come ai non credenti, nel quale andare e ritrovarsi senza dovere dire alcunché. La notizia, che ha il carattere dell’inusualità, ce la racconta Giusi Fasano su il Corriere della Sera.  
Di altro tenore, invece, le novità, peraltro non molte, che ci pervengono da altri luoghi dove si parla molto, a volte a ragione altre volte un pò a torto. Da Israele, dove si è appena formato il nuovo governo, se ne registra il feedback su commentatori e analisti. Così l’intervista di Benny Morris rilasciata a il Corriere della Sera, nella quale il giudizio sulla partecipazione di Avigdor Lieberman è severo non meno, però, che sul ruolo degli altri partiti. Articoli che si soffermino sulla valutazione del nuovo esecutivo e su quanti ne sono entrati a farne parte si possono trovare ancora su il Corriere della Sera per la firma di Francesco Battistini, su la Repubblica per quella di Alberto Stabile e su il Messaggero per la cura di Eric Salerno, che si profonde soprattutto sulle vicissitudini giudiziarie del leader di Israel Beitenu, così come fa l’Unità. Nicole Nehve su l’Avvenire documenta anche dell’ultimo attentato ai danni di un tredicenne israeliano, assassinato da un palestinese nell’insediamento di Bat Ayin. La stessa cosa è fatta da Umberto De Giovannangeli su l’Unità e Anna Momigliano per il Riformista. Le medesime vicende sono poi raccontate anche da il Giornale e, ancora una volta, da Alberto Stabile per la Repubblica. Ugo Traballi, per il Sole 24 Ore parte da quest’ultimo episodio per ricostruire la situazione di una parte degli insediamenti ebraici in Cisgiordania, mettendola in tensione, per così dire, con le prese di posizione di Lieberman e di parte della nuova maggioranza costituitasi sotto il premierato di Benjamin Netanyahu. Di ampio respiro è il reportage sul partito laburista israeliano di Meron Rapoport per l’Espresso. Si tratta, forse, dell’articolo più interessante, tra quelli usciti oggi tra la stampa di lingua italiana, su Israele. L’autore si sofferma, non senza fare ricorso alle tinte forti, sul declino di una formazione politica che ha dato i caratteri allo Stato d’Israele e che ora si trova a registrare, sia sul piano elettorale che su quello politico, i minimi storici. Più che di una sconfitta siamo in presenza, a giudicare dal quadro delineato dal commentatore, ad un vero e proprio tracollo che potrebbe preludere all’estinzione del partito. Al di là dei giudizi contingenti è certo che i mutamenti che sono intervenuti nel quadro politico israeliano segnano una diversa configurazione di idee e di opinioni da parte dell’elettorato nazionale. Fatti in sé tale da rendere improponibili posizioni e atteggiamenti che avevano invece caratterizzato stagioni del passato molto vivaci, come ad esempio il periodo dei primi anni Novanta, quando i negoziati avevano avuto un effetto dirompente sull’opinione pubblica israeliana consegnando ai laburisti una spazio d’azione che sembra invece oggi essersi del tutto esaurito. Un quadro della situazione mediorientale è quello invece offerto dall’interpretazione dei risultati del vertici di Ryad del 13 marzo scorso tra Arabia Saudita, Egitto e Siria, fatta da Paul Salem per l’Espresso. Insomma, i giochi parrebbero essere aperti, malgrado tutto, anche se molti dei contendenti sembrano aspettare le mosse dei propri interlocutori prima di farne di proprie. La rassegna stampa registra questo dato in maniera sua propria: in mancanza di fatti tangibili sono così le occasionali prese di posizione di questo o di quell’altro esponente (è ancora una volta soprattutto il caso di Lieberman, visto aprioristicamente e unilateralmente da molti commentatori come una sorta di elemento di perturbazione di potenziali accordi di pace, tutti peraltro solo in ipotesi) a occupare le pagine dei giornali. Ma se c’è il bisogno di una stanza del silenzio per un ospedale forse occorrerebbe qualche volta anche una pagina in bianco per non poche testate giornalistiche, abituate a fare scrivere e a pubblicare senza avere elementi di effettivo giudizio.
 
Claudio Vercelli

 
 
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La manifestazione di Forza Nuova                                                    
e la replica del presidente dell'Ugei

Milano, 3 apr -
“Una condanna ferma della manifestazione di Forza nuova da parte di tutte le istituzioni milanesi”.  Il presidente dell’Ugei, Unione giovani ebrei italiani, Daniele Nahum  interviene così sul raduno di  Forza nuova che si terrà domenica 5 aprile a Milano. “In un momento – afferma Nahum - in cui sono più che mai necessari  lo sviluppo del dialogo e il richiamo alla  tolleranza e in cui si  avverte  un  risveglio preoccupante di antisemitismo e  il dilagare dell’anti islamismo, una manifestazione come quella di Forza nuova, che affonda le sue radici nella cultura della violenza  non può essere tollerata e passata sotto silenzio. Esprimendo un apprezzamento per il  presidente della Provincia di Milano, Filippo Penati  che ha tenuto verso la manifestazione una posizione ferma, auspico che anche tutte le altre istituzioni milanesi  esprimano la stessa ferma condanna”.

Tel Aviv compie cento anni, Peres inaugura le celebrazioni
Tel Aviv 3 apr -
Il capo di Stato israeliano, Shimon Peres, ha aperto ieri le celebrazioni per i cento anni dalla fondazione della città di Tel Aviv "Tel Aviv è oggi la realizzazione dei desideri, della speranza del sionismo", ha detto Peres ricordando che la città di Tel Aviv rappresenta la realizzazione del sogno di Teodor Herzl. Peres, 85 anni compiuti, ha ricordato la propria giovinezza trascorsa a Tel Aviv, "la città fatta apposta per innamorarsi, piena di colori e di attività, un 'fermento' di cemento bianco e di pennellate di blu marino". In occasione dei festeggiamenti la centrale via Bialik è stata ieri invasa da persone che indossavano vestiti con foggia antiquata, quella che distingueva i primi abitanti della città. Domani nella piazza Rabin avrà luogo un grande spettacolo, a cui parteciperanno centinaia di artisti. Per l'occasione il municipio ha organizzato manifestazioni che proseguiranno nei prossimi mesi.

 
 
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