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L'Unione informa |
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17 aprile 2009 - 23 Nisan 5769 |
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alef/tav |
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Roberto Colombo, rabbino |
Siamo
nel periodo dell’Omer. Nella tradizione ebraica questi sono giorni di
lutto per la morte degli alunni di Rabbì Akivà che durante la
persecuzione romana non seppero trovare l’unità. Non è poi così lontano
quel momento. Lunedì sera commemoreremo il Yom ha-Shoà. E’ una data
infelice per molti aspetti. Uno di questi consiste nel fatto che nel
calendario ebraico ci sono due diverse date in ricordo delle
deportazioni: il 10 di Tevèt, voluto e celebrato dai religiosi, e il 27
di Nisàn, istituzionalizzato da Ben Gurion in ricordo della rivolta del
Ghetto di Varsavia. Triste, molto triste è il fatto che noi ebrei non
riusciamo a stare assieme nemmeno di fronte alla tragedia. |
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Nelle
imprese straordinarie bisogna lasciare al caso la soluzione di molte
incognite. L'essere sempre alle prese di molteplici soluzioni crea un
falso ottimismo che finisce nell'immobilismo. |
Vittorio Dan Segre,
pensionato |
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Pagine d'Israele 2 – Maariv Mostri sacri e scarpe che volano
Nel novembre del 1947 il giornalista Azriel Carlebach
è a New York per seguire il dibattito alle Nazioni Unite sul futuro
della Palestina; è un momento storico di assoluta importanza e Azriel
scrive senza sosta, inviando numerosi e lunghi telegrammi alla
redazione del quotidiano di Tel Aviv Yedihot Aharonot. Il giornalista contrassegna i suoi articoli come urgenti
in modo da rendere più veloce, seppur a un prezzo superiore, la
trasmissione dei pezzi a Tel Aviv. Yehuda Moses, editore del giornale,
inviperito per l’aumento dei costi, telegrafa a Carlebach perché la
smetta di trasmettere in via urgente. In definitiva è lui a doversi far
carico delle spese. E’ la goccia che fa
traboccare il vaso. Carlebach non solo sente
attaccata la sua autorevolezza, essendo da una decina d’anni il
direttore di Yedihot Aharonot, ma anche la sua professionalità. Boccone
troppo amaro da mandar giù per un giornalista di grande levatura.
In Europa Azriel (ritratto nell'immagine a fianco) si era fatto un nome grazie alla collaborazione con Haynt
(il quotidiano yiddish pubblicato a Varsavia dal 1906 al 1939),
promuovendo il pensiero sionista e criticando aspramente i crimini sia
del comunismo sovietico sia del nazismo. Per tutta risposta i Giovani
Comunisti di Amburgo avevano cercato di assassinarlo sparandogli,
mentre Goebbels, appena il nazismo sale al potere, lo fa mettere in
galera. Nonostante queste esperienze traumatiche, uscito di prigione
Carlebach decide di travestirsi da membro della SA e grazie
all’uniforme verifica di persona l’espandersi del nazismo in Germania,
descrivendo quotidianamente la sua esperienza attraverso articoli
pubblicati con lo pseudonimo di Levi Gotthelf da Haynt. Assiste
al rogo di libri della Bebelplatz e riconosce fra gli altri anche i
suoi scritti. E' il momento di lasciare la Germania. Così Carlebach si
rifugia in Polonia, per poi dirigersi verso Londra, da dove attacca la
politica antisemita del governo austriaco di Schuschnigg e critica i
non sionisti che vogliono rimanere in Europa, accusandoli di non
comprendere l’evoluzione degli avvenimenti. Ultima tappa di
questo giornalista fuori dal comune è Israele, dove diviene direttore
di Yedihot Aharonot fino allo scontro con Moses. Il 14 febbraio
del 1948, quando ormai manca poco alla proclamazione d'Indipendenza,
Carlebach invia un ultimatum: o si cambia sistema di lavoro oppure la
collaborazione finisce. Molti elementi dello staff appoggiano il
direttore ribelle, convinti della necessità di riorganizzare il
giornale anche con nuovi investimenti. La risposta non si fa
attendere, Moses informa la sera stessa Carlebach che le sue condizioni
sono inaccettabili. I ribelli allora si organizzano e in un attimo
svuotano quasi del tutto la redazione del giornale, organizzandosi in
poche ore per pubblicarne uno nuovo. Maariv
(in alto un'immagine dell'attuale sede) esce a tempo di record, un
solo giorno dopo il grande abbandono. Fra lo stupore generale, il 15
febbraio gli israeliani trovano in edicola sia Yedihot Aharonot, uscito
quasi miracolosamente data la carenza d’organico, sia un certo Yedihot
Maariv, il cui direttore è sempre Carlebach, lo stesso che i lettori
avevano apprezzato per anni alla guida del giornale di Moses. Iniziata
sessant’anni fa, la rivalità fra i due quotidiani non si è mai estinta,
assumendo in tempi recenti i connotati di una spy-story degna dei film
di James Bond, con corruzione, intercettazioni telefoniche e
addirittura un presunto tentativo di omicidio. Queste sono alcune delle
accuse lanciate da Ofer Nimrodi, attuale editore di Maariv, protagonista di una guerra senza esclusione di colpi con il rivale Arnon Moses di Yedihot Aharonot. Nei
primi anni Novanta, Nimrodi assume due investigatori privati, ex agenti
dei servizi segreti, con il compito di spiare la concorrenza per
ottenere informazioni sulle loro fonti e conoscere in anticipo le prime
pagine. Moses non è da meno e crea una fitta rete di intercettazioni in
modo da carpire i segreti dell’avversario. Durante le indagini vengono
trovate microcamere installate nelle redazioni dei due quotidiani
e collocate in modo da controllare l’attività di giornalisti e
redattori. Gli inquirenti sospettano che Nimrodi abbia addirittura
pensato di eliminare i vertici delle testate concorrenti. Coincidenze
o meno, il fatto è che nel periodo dello spionaggio, Maariv e Yedihot
Aharonot escono pressappoco con gli stessi titoli in prima pagina; non
solo, adottano entrambi uno stile sensazionalista, riempiendo i
quotidiani di enormi foto a colori e di scoop che non sempre risultano
fondati. Nel 1994 vengono recapitati a Nimrodi sedici avvisi di
garanzia. Le accuse vanno da frode e falsificazione di documenti fino a
ostruzione alla giustizia e intimidazione di testimoni. Dopo sei anni
viene emessa la sentenza che condanna il direttore a venticinque mesi
di reclusione, di questi, dieci già scontati durante il processo e i
restanti quindici convertiti per buona condotta in cinque mesi di
lavoro nei servizi sociali. La storia di Maariv si caratterizza
per un passato turbolento e un presente, se possibile, ancor più
irrequieto, con personaggi forti e dotati di una professionalità
indiscutibile, come Carlebach, e figure spiccate e colorite, come
Nimrodi. A quest’ultimo tipo appartiene Amnon Dankner,
alla guida del giornale dal 2001 al 2007 e personaggio quantomeno
pittoresco. Molti dei suoi collaboratori si sono sentiti chiedere
“Perché non sei intelligente quanto me?” o hanno dovuto sottostare al
suo rito d’iniziazione: Dankner si toglieva la scarpa e la lanciava
verso la porta del suo ufficio, mentre il collega di turno doveva
cercare di pararla. Altro passatempo del vulcanico direttore era il
tiro a canestro: cercare di fare centro, sempre con la scarpa, nel
cestino della segretaria. Si dice che alla notizia delle dimissioni di
Dankner, nei corridoi del giornale vi siano state scene di giubilo.
Alcuni redattori hanno brindato. Oltre a essere un inguaribile
narcisista, Dankner si è rivelato un uomo pieno di iniziativa. Sin
dall’inizio della sua avventura al comando di Maariv, era convinto di
poter migliorare la qualità del giornale e riuscire a superare i rivali
di Yedioh Ahoronot. Ha alle spalle una carriera giornalistica di
assoluto rispetto, avendo scritto su Haaretz, Hadashot e Davar, di cui
è stato corrispondente a Washington, per poi approdare negli anni
Novanta al Maariv, di cui ha preso la guida nel 2001. In un’intervista
Dankner spiega di essersi avvicinato al giornalismo per una passione
innata di conoscere i fatti, di svelare la realtà, ma ammette di essere
anche affascinato dalla fama e l’influenza che il giornalismo può
donare. Considerato molto vicino alla famiglia Nimrodi che
controlla il giornale, Dankner dimostrò il suo legame con gli editori
quando, non ancora direttore, scrisse un violento articolo contro i
giudici del processo per lo scandalo delle intercettazioni, difendendo
il suo editore. In quel periodo risulta, da un’intercettazione della
polizia, che Jakob Nimrodi, padre di Ofer, ordinò all’allora direttore,
Yaakov Erez, di lasciare lo spazio più grande e in vista a un articolo
di Dackner. Erez fece notare all’editore che quel giorno vi erano stati
alcuni attacchi terroristici, ma la risposta è stata: “Al diavolo gli
attentati”. In particolare, Dankner si permette il lusso di
prendere di mira il pubblico ministero che aveva seguito il caso
Nimrodi, Edna Arbel, delegittimando la sua nomina a membro della Corte
suprema e apostrofandola come “una donna mediocre, manipolativa,
brutale, per la quale ogni sussurro di critiche interne appare come
un'orgia di eresia e che vede ogni parere contrario come un crimine
terribile.” Un ritratto di Dankner emerge dalle parole di Gal Ochovsky,
giornalista per dieci anni di Maariv, in un’intervista rilasciata al
concorrente Haaretz: “Quando stava per diventare direttore, quasi
impazzì, come un bambino davanti a un negozio di giocattoli. C’è
qualcosa di infantile in lui che apparentemente non si può
controllare”. Alla domanda su cosa abbia fatto Dankner per Maariv, la
risposta di Ochovsky è secca: “Ha distrutto il giornale”. Sta di
fatto che nonostante la creatività e la forza del carattere di Dankner,
il giornale fra il 2001 e il 2006 ha subito un calo del 20% nelle
vendite, con una perdita annua di dieci milioni di shekels (circa 1.8
milioni di euro). Il distacco con l'eterno rivale Yedihot Aharonot è
aumentato a favore di quest’ultimo. Non si possono negare le
responsabilità di Dankner, ma è pur vero che il giornale continua a
navigare in acque difficili anche dopo il suo abbandono, con un forte
taglio nell’ultimo periodo a personale e stipendi. La sensazione è che
i nuovi direttori, Doron Galezer e Ruth Yuval,
abbiano fra le mani un caso difficile. A riprova della complessità
della situazione si possono citare i tentativi della famiglia Nimrodi
di cedere le proprie quote del giornale. La nave, insomma, fa
acqua, ma l’equipaggio continua a lavorare sodo. Infatti Maariv rimane
un ottimo prodotto e un giornale in grado di offrire un buon servizio
ai lettori. Fino agli anni Ottanta la testata era leader
indiscusso fra i quotidiani israeliani e alcuni fra i maggiori
giornalisti firmavano su Maariv. Fra i numerosissimi nomi prestigiosi,
impossibile non ricordare Ephraim Kishon,
il grande scrittore satirico che lavorò per Maariv dal 1952 fino agli
anni Ottanta. Kishon amava dire “Non sono uno scrittore, sono
semplicemente un umorista. Solo quando sei morto diventi uno
scrittore”. Ungherese di nascita, il suo vero nome era Ferenc Hofmann,
per avere un cognome meno borghese, lo cambiò in Kishont (Kis in
ungherese è un diminutivo, mentre Hont è un cognome tipico in
Ungheria). Nel 1944 era stato deportato dai nazisti al campo di lavoro
di Jolsva, in Slovacchia, da cui riuscì a evadere con un amico. Durante
la prigionia si salvò anche grazie alla sua abilità negli scacchi,
infatti il comandante del campo lo scelse come suo avversario di gioco.
Più tardi Kishon ricorderà in redazione quell’esperienza con la sottile
ironia che lo contraddistingue: “Ha fatto un errore lasciando vivo un
autore satirico”. Finita la guerra Kishon torna in Ungheria, ma
insofferente del regime comunista decide di trasferirsi in Israele.
All’arrivo, un impiegato dell’immigrazione gli cambia nuovamente il
nome, omettendo l'ultima lettera del cognome e trasformando Ferenc in
Ephraim. Il giovane Kishon comincia a lavorare in un Kibbutz vicino a
Haifa e scrive articoli su un quotidiano per immigrati ungheresi;
ma ben presto decide di imparare l’ebraico. Dopo un anno di studio,
padroneggia talmente bene la lingua da ottenere uno spazio su Maariv,
su cui scrive con lo pseudonimo di Chad Gadja. Alcuni suoi personaggi
esilaranti diventano indimenticabili, come Schtuks, l’idraulico
ritardatario, e Gingi, lo scettico israeliano la cui inguaribile
disattenzione provoca disastri. Ben presto Kishon raggiunge la
fama internazionale: nel 1959 pubblica “Si volti, signora Lot”, eletto
dal New York Times come miglior libro e conquista paragoni illustri con
Mark Twain e Shalom Aleichem. Autore poliedrico, Kishon si
dedica anche al teatro, creando una propria compagnia e al cinema. Nel
1964 ottiene particolare successo con il film Sallah Shabati (gioco di
parole in ebraico che evoca la frase “Sliha shebati” – “Scusate se sono
venuto”), storia dell’immigrato Sallah, ebreo yemenita, che arrivato in
Israele deve combattere la diffidenza e i pregiudizi per cercare di
assimilarsi nel giovane Paese, guidato dagli ebrei d’origine europea.
Lo spettacolo mostra attraverso uno sguardo divertente e sferzante i
vizi e le virtù della società israeliana, smontando gli stereotipi
spesso attribuiti agli ebrei mediterranei: la pigrizia, l’ignoranza, la
chiassosità o la furbizia. Kishon ha scritto opere che sono
state tradotte in tutto il mondo e particolare successo hanno avuto in
Germania. A questo riguardo il figlio Rafi ha ricordato in
un’intervista alla radio israeliana che lo scrittore considerava una
grande soddisfazione che i figli dei suoi aguzzini fossero suoi
ammiratori. Altra storica firma di Maariv è stata quella di Tommy Lapid.
Il giornalista è stato definito dell’inglese Indipendent “il campione
del laicismo”. Nato in Serbia nel 1931 da genitori ungheresi, Tomislav
Lampel aveva visto la Gestapo portare via suo padre, poi ucciso a
Mauthausen. Assieme alla madre aveva cercato rifugio a Budapest, dove
si era salvato dai rastrellamenti dei fascisti ungheresi, che
arrestavano gli ebrei per poi fucilarli sulle sponde del Danubio,
nascondendosi in un bagno pubblico. Lapid dirà: “Tutto ciò che ho fatto
nella mia vita ha origine dall’esperienza della Shoà”. Emigrato in
Israele nel 1948, Lapid viene subito arruolato come meccanico
nell’esercito, per poi laurearsi in legge all’Università di Tel Aviv.
Come per Kishon, la sua esperienza giornalistica inizia con un giornale
ungherese, Uj Kelet, ma la
svolta arriva quando Lapid diviene l’assistente personale di Carlebach,
editore del neonato Maariv. Da quel momento acquista il suo nome
ebraico, Yosef Lapid, e passo dopo passo diviene un pilastro
insostituibile del giornale, scrivendo articoli sulle questioni
politiche e sociali più spinose. La sua più grande battaglia è
stata la laicizzazione dello Stato di Israele, progetto portato avanti
anche in campo politico con l’ingresso nel 1990 nel partito Shinui
(Cambiamento), con cui raggiunge nel 2003 un significativo successo
elettorale, ottenendo 15 seggi alla Knesset. I principali obbiettivi
erano il servizio militare per tutti, compresi i giovani
ultra-ortodossi esentati per gli studi religiosi; il matrimonio civile,
il trasporto pubblico di sabato; l'abrogazione delle indennità per le
famiglie numerose e l'abolizione del Ministero degli Affari Religiosi. Scomparso
nel 2008, Lapid è stato ricordato da Dankner, suo grande amico, con
queste parole: “Aveva un grande fame di vita. Era un uomo molto colto,
con un orizzonte di comprensione molto ampio. Un uomo che si rinnovava
ogni giorno. Lascerà un grande vuoto nel mio cuore, che non può essere
riempito”. Fra gli alti e bassi che caratterizzano tutti i grandi
quotidiani israeliani, non si può dunque ricordare Maariv solo per le
vicissitudini giudiziarie dell’editore o per un eccentrico direttore,
ma bisogna rendere merito a un giornale che ha contribuito a rendere la
società israeliana più consapevole di se stessa. Interrogato
recentemente sul suo giornale, Ofer Nimrodi ha detto: “Maariv è un
giornale che si è sempre battuto per questo Paese e contro la
corruzione. Certo, sono stati commessi errori, ma solo chi resta
inerte, non commette errori”.
Daniel Reichel
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Shim'òn il giusto, Rabban Shim'òn ben Gamliel e Rabbì Josef Caro, i principi su cui il mondo poggia
Siamo
giunti ai giorni dell'Omer e con loro alla lettura delle Massime dei
Padri, o Pirké Avot, nei Shabbatot fra Pesach e Shavu'ot, come
preparazione spirituale-morale al consesso davanti al monte Sinai per
la promulgazione del Decalogo (ma'amad har Sinai). Potranno essere
interessanti alcune osservazioni di Robert Cover (1944-1986, professore
di diritto alla Yale Law School), tratte dal suo Nomos and Narrative, Haravard Law Review,
1983; è fra l'altro caratteristico di Cover l'uso della tradizione
giuridica ebraica messa accanto al diritto statunitense; il lettore
italiano potrà apprezzare il pensiero di Robert Cover anche grazie
alla traduzione italiana Nomos e Narrazione. Una concezione ebraica del diritto curata da M. Goldoni e pubblicata da Giappichelli (2008, pp. 27 ss.). "Shim'òn
il giusto soleva dire: "Su tre cose il mondo poggia: sulla Torà, sul
lavoro (il servizio nel Santuario), sulle opere buone" (Avot 1,2). Il
"mondo" di cui parla Shim'òn il giusto è, secondo Cover, il nomos,
l'universo normativo (per Rav Zvi Yehuda Kook si tratta del mondo
culturale: siamo vicini…). Tre secoli più tardi, oramai dopo la
distruzione del Santuario di Jerushalaim, Rabban Shim'òn ben
Gamliel userà dire che "sopra tre cose il mondo continua a
esistere: giustizia, verità e pace" (Avot 1,18). All'inizio della parte "Choshen Mishpat" del suo Bet Yosef, il monumentale commento al Tur, Rabbì Josef Caro ci dà questa interpretazione (riportata da Cover): "Questo
perchè Shim'òn il giusto scriveva nel contesto della sua generazione,
quando il Tempio era ancora intatto, mentre Rabban Shim'òn ben Gamliel
scriveva nel contesto della sua generazione, dopo la distruzione di
Gerusalemme. Rabban Shim'òn ben Gamliel insegnava che anche se il
Tempio non esisteva più, così come non vi erano più servizi di
sacrifici, e anche se il fardello dell'esilio impediva di impegnarsi
come si deve nello studio e insegnamento della Torà e nel compimento
delle opere buone, nondimeno l'universo normativo continuava a esistere
in virtù di queste tre cose giustizia, verità e pace che sono molto simili alle prime tre Torà, lavoro, opere buone.
In effetti c'è differenza fra la (forza necessaria per la)
preservazione di ciò che già esiste e la (forza necessaria per la)
realizzazione iniziale di ciò che in precedenza non esisteva. Così in
questo caso sarebbe stato impossibile creare il mondo sui tre principii
di Rabban Shim'òn ben Gamliel. Ma dopo che il mondo è stato creato sui
tre pilastri di Shim'òn il giusto esso può continuare a esistere sulle
tre basi di Rabban Shim'òn ben Gamliel". Fino a qui parte delle
osservazioni di Rabbì Yosef Caro, che hanno ispirato le osservazioni di
Cover: "Il punto di vista sviluppato da Caro è qui rilevante. Le virtù
universaliste che noi siamo giunti a identificare con il liberalismo
moderno, i grandi principi del nostro diritto, sono forze
essensialmente deboli di
mantenimento del sistema. Esse sono virtù che si giustificano in base
al bisogno di assicurare la coesistenza di mondi contraddistinti
da forti significati normativi. I sistemi di vita normativa che queste
virtù conservano sono i prodotti di forze potenti: modelli specifici di una cultura dal significato particolaristico. Queste forse potenti - per Caro la Torah, il culto e gli atti di generosità
– creano i mondi normativi nei quali il diritto è anzitutto – e
in maniera predominante - un sistema di significati piuttosto che un
sistema di imposizione della forza. Il commento di Caro e le massime
sulle quali si basa suggeriscono due ideal-tipi per la combinazione di
un corpus…Il primo di questi modelli…quello creatore di un mondo…; il
secondo modello ideal-tipico, la cui piena espressione si trova nella
comunità civile, tende alla conservazione del mondo… Il mantenimento di
un mondo non è un problema minore rispetto alla sua creazione e non
richiede certo meno energia…". Come a dire l'insegnamento che
sembra particolare, si fonda sul particolare per arrivare
all'universale: il mondo. Nostro compito è cercare di conservarlo e di
migliorarlo tenendo d'occhio le sue basi.
Alfredo Mordechai Rabello, giurista, Università Ebraica di Gerusalemme |
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rassegna stampa |
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Se
a dominare, ancora una volta, sono gli articoli sulla tragedia del
terremoto in Abruzzo, e sulle inesorabili polemiche su quali siano i
cespiti e i patrimoni che dovranno essere fatti oggetto di prelievo per
finanziare la ricostruzione di ciò che è stato distrutto dalle scosse
sismiche (così, tra gli altri, Andrea Bassi su MF, Roberto Petrini su Repubblica e Marco Rogari su il Sole 24 Ore),
il panorama delle altre notizie si presenta come prevedibile se non,
forse, ai limiti del trascurabile. E tuttavia, a ben guardare, di temi
ne vengono fuori comunque. Diciamo allora, e da subito, che a volte
ritornano. O forse non se ne sono mai andati. Ci riferiamo ai fantasmi
del passato che aleggiano insieme a noi, al nostro presente,
inquietanti compagni di una quotidianità che si vorrebbe al riparo dai
trascorsi e che invece con questi ultimi devi fare costantemente i
conti. Due notizie, di per sé molto diverse, in una giornata che, come
affermavamo, parrebbe non offrire particolari spunti di riflessione
sfogliando la fascetta dei giornali, demandano invece alla persistenza
di quel che è stato. Quasi a modo di aneddoto, ma la forma in sé non
deve ingannare più di tanto, il Manifesto
ci ricorda che i link ad Adolf Hitler presenti su Facebook, il social
network virtuale più diffuso, soprattutto fra i giovani, sono
tantissimi. Una dozzina di pagine almeno che, in soldoni, vuol dire
almeno un centinaio di connessioni permanenti, perlopiù indirizzate a
gruppi che si richiamano, direttamente o indirettamente, al capo del
nazismo. Che il web sia un moltiplicatore di tante cose, anche e
soprattutto di quelle non propriamente più commendevoli, è fatto da
tempo risaputo. Non è un caso che i gestori di Facebook, dinanzi alle
critiche con le quali molti navigatori di internet gli contestano la
“porosità” ideologica (ossia, il fatto di essere così pervasivo al
punto di accogliere acriticamente anche chi professa e diffonde le
“idee” peggiori) si siano difesi invocando la “libertà di opinione”,
una sorta di passe-partout che azzera ogni discussione di merito sui
contenuti e sulla loro fruizione da parte di un’ampia platea di utenti.
Poiché quel che inquieta non è il fatto che vi sia chi faccia
l’apologia del nazismo ma che essa sia lasciata nelle condizioni di
manifestarsi (ed essere diffusa) tra quanti hanno pochi se non nessun
strumento per affrontarla con coscienza critica. Internet, da questo
punto di vista, è un’arma a doppio taglio. Nel proporre una congerie
incredibilmente dilatata e non selezionata di temi e argomenti, messi
tutti insieme, senza stabilire scale di rilevanza e di priorità,
rischia di influenzare il pensiero di chi per formazione e sensibilità
non ha la forza e la capacità di capire fino in fondo che cosa essi
portino con sé. D’altro canto, se il mondo virtuale si alimenta di
questi spettri, che prendono corpo tra le pagine di un network di
parole e immagini, nel mondo “reale” c’è chi sa essere non da
meno. Fiamma Nirenstein, su le pagine de il Giornale,
ci tiene informati sull’evoluzione della seconda edizione della
Conferenza delle Nazioni Unite contro il razzismo, sinistramente
chiamata “Durban II”. Uno scherzo del destino, che sembra anche essere
un contrappasso della storia, farà sì che essa apra i battenti in
quello che è per Israele e per gli ebrei tutti lo Yom ha-Shoah.
Malgrado gli interventi e le pressioni esercitate dalle diplomazia
internazionale, a partire da quella italiana, i documenti preparatori,
sia pure smussati e depurati di una parte delle peggiori asperità
anti-israeliane, così come le ipotesi di incontri e dibattiti demandano
a quel gioco che già si era visto nel 2001, quando un gruppo di paesi
arabi (e non solo) insieme a una nutrita delegazione di Organizzazioni
non governative si erano attivamente esercitati per trasformare la
discussione in una sorta di festival dell’antisionismo e
dell’antisemitismo. Preoccupa, in tal senso, il permanere non solo di
ripetuti accenni contro Israele, ma anche i pelosi richiami alla
necessità della difesa delle religioni da ogni forma di critica (la
qual cosa attribuirebbe ad esse, ed in particolare a quella islamica,
una sorta di spazio di extra-territorialità da ogni genere di approccio
problematizzante, leggendo in automatico qualsiasi tentativo di
contestarne certi limiti morali come di comportamento al pari di una
ingiuria), l’enfatico e ambiguo invito a onorare le “culture diverse”,
anche qui in chiave decontestualizzata, tanto più quando queste
contengono molti elementi di pericolosa legittimazione di atteggiamenti
persecutori verso le minoranze e così via. Insomma, ancora una volta
sembra fare capolino, sotto l’invito al relativismo etico per cui tutte
le culture si equivalgono e ogni cosa va sopportata nel nome della
equiparazione assoluta di storie e condotte, il tentativo egemonico di
una parte del mondo islamico che nel nome della rappresentanza degli
oppressi fa propri atteggiamenti oppressivi. La battaglia contro
Israele, da questo punto di vista, è solo la punta di un iceberg,
volendo in realtà colpire le voci laiche e le istanze liberali, le une
e le altre viste da molti paesi musulmani come fumo nei propri occhi.
Della stessa Fiamma Nirenstein segnaliamo poi l’abituale articolo di
fondo su Panorama,
dove ci parla della lotta interna al mondo arabo-musulmano che vede
nell’Egitto di Hosni Mubarak l’obiettivo privilegiato dai
fondamentalisti. Il rovesciamento del regime cairota sarebbe per questi
il migliore obiettivo che potrebbero raggiungere negli anni a venire se
si dovesse allentare la vigilanza e la lotta nei loro confronti.
Qualora il paese, che da trent’anni è garante degli equilibri di pace
di Camp David, dovesse passare sotto un governo estremista le
prospettive di una guerra, non solo contro Israele, si farebbero
pressoché certe. Detto questo, poiché ci occupiamo di
informazione, facendola non meno che interessandoci alla sua qualità,
segnaliamo poi l’articolo di Erica Orsini su il Giornale
dove si racconta di come la Bbc, modello insuperato di costante sforzo
di imparzialità, malgrado alcune trascorse cadute di stile, abbia
censurato il suo corrispondente dal Medio Oriente, Jeremy Bowen, per
alcune incaute affermazioni contenute in un suo recente articolo,
ritenuto dal grande network troppo sbilanciato e privo di quei
necessari supporti di riscontro che tradizionalmente vengono richiesti
a chi si lancia in giudizi di valore. In realtà a Bowen non vengono
contestati intollerabili difetti di valutazione ma un atteggiamento
implicitamente troppo partigiano, ovvero eccessivamente sensibile nei
confronti di una delle parti in campo, i palestinesi, tale da
pregiudicarne la serenità nel continuare a vagliare il difficile
intrico di posizioni, protagonisti ed eventi che si dipana
quotidianamente nello scenario mediorientale. A noi pare una querelle
in punta di penna, che per i suoi contenuti quasi ci fa sorridere,
abituati come siamo alle deliberate e declamate faziosità di campo. A
tale riguardo si veda l’articolo siglato M. G. su Libero di
oggi, dove si riprendono i termini di vecchie ma sempre rinnovate
contrapposizioni, quelle tra una satira che vuole fare politica e una
politica che spesso da di sé una qualche, se non di più, immagine
satirica. Come diceva qualcuno, qualche lustro fa: “scusateci ma questa
non è la Bbc”.
Claudio Vercelli |
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L'inviato
degli Stati Uniti in Medio Oriente
e l'incontro con il premier israeliano Gerusalemme, 17 apr - “Israele
si aspetta che i palestinesi riconoscano prima di tutto Israele come
Stato ebraico, prima ancora di parlare di due Stati per due popoli”
così, secondo fonti informate, il premier israeliano Benyamin Netanyahu
avrebbe replicato alla richiesta di chiarimenti voluta dall'inviato
degli Stati Uniti, George Mitchell, sulla posizione del nuovo governo
israeliano in merito alla ripresa dei negoziati con i palestinesi e con
la Siria. Prima dell'incontro con Netanyahu Mitchell aveva incontrato
il Presidente Shimon Peres ed era stato ricevuto dal ministro degli
Esteri Avigdor Lieberman. Mitchell aveva, nell'incontro avuto con
il Presidente israeliano, confermato l'impegno degli Stati Uniti alla
sicurezza di Israele e alla soluzione del conflitto con i palestinesi,
secondo la formula “due Stati, due popoli”. |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli
utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
ricevuto questo messaggio perché avete trasmesso a Ucei
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