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L'Unione informa
 
    24 aprile 2009 - 30 Nisan 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
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  Roberto Colombo Roberto Colombo,
rabbino
Shabbat leggeremo la Parashà di Tàzri’a che parla della Tzara’àt, una malattia che colpiva la pelle di chi faceva maldicenza. Un uomo con la pelle chiazzata di macchie bianche di Tzarà’at era considerato impuro dal Sacerdote ma qualora l’intero corpo fosse ricoperto da un'unica macchia bianca allora il Cohen doveva dichiarare la persona pura. La stranezza è manifesta. Per il Rebbe di Lisansk la Torà insegna con ciò che volte, per ravvedersi, è necessario vedere fino in fondo in quale vergognoso stato si è caduti. Allora si inizia a riacquistare la purità perduta anche senza l’aiuto del Cohen. Maestri del Talmud (Sanhedrìn 97a), invece, interpretarono questa originale norma in modo simbolico: ogniqualvolta il mondo si ricoprirà di odio e maldicenza verso Israele allora Dio farà in modo che inizi per gli ebrei un momento di felicità e prosperità. Se ciò è vero, dopo la disonorevole dichiarazione di Durban 2, dovrebbe cominciare quanto prima per Israele la tanto attesa e giusta considerazione.  
Il 25 aprile del 1945, gli eserciti alleati hanno liberato l'’Italia del Nord dall'’occupazione dei tedeschi e del regime di Salò. Le grandi città del Nord, Genova, Torino e Milano sono insorte, e i partigiani vi sono entrati. Mussolini, in fuga in  divisa tedesca, è stato giustiziato. L'’Italia era liberata e la guerra era finita. E'’ vero che questa liberazione è stata opera  degli Alleati, non della guerra partigiana, che è rimasta comunque un fenomeno minoritario. Ma è anche vero che si deve alla lotta partigiana e all'’insurrezione dell’'aprile 1945 se gli italiani hanno potuto, in qualche maniera, entrare a far parte delle nazioni vincitrici e non semplicemente di quelle vinte. Se hanno lavato la vergogna del giugno 1940, dell’'attacco alla Francia moribonda. Non è solo la retorica dei decenni successivi a dirlo, ma la storia di quei giorni. Ho in mente l'’immagine della cerimonia della Liberazione a Milano, con il rappresentante del CLN a fianco degli alti ufficiali alleati, che parla in piazza del Duomo e bacia in segno di omaggio la bandiera italiana. Quel 25 aprile avevo quattro mesi, e uscii anch’'io dalla clandestinità. Come tanta parte degli italiani, come tutti gli ebrei.  Anna Foa,
storica
Anna Foa, storica  
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  Michele Sarfatti 25 aprile - I mille ebrei italiani
che combatterono per la libertà


Il 25 aprile è la data convenzionale nella quale con gioia celebriamo la Liberazione d'Italia dalla Repubblica Sociale Italiana e dall'occupazione del III Reich nel 1945. In effetti gli Alleati erano sbarcati in Sicilia nel luglio 1943 e Roma e Firenze vennero liberate nel 1944; ma fu nell'ultima decade dell'aprile 1945 che partigiani e alleati raggiunsero le città del nord della penisola. La Liberazione fu il risultato di un vasto e complesso impegno militare e politico.
Tra i combattenti della Resistenza italiana, vi erano circa mille ebrei, un decimo dei quali fu ucciso in Italia o in deportazione (alcuni furono deportati quali ebrei, altri come politici). Alcune decine di essi erano stranieri, giunti nella penisola nei decenni precedenti, o dopo il 1933 tedesco, o negli ultimi anni di guerra. Molti altri ebrei, provenienti da vari paesi e continenti, combatterono in Italia sotto la bandiera della Brigata ebraica o - anch'essi spesso volontari - nei reparti statunitensi e inglesi; tra essi vi furono alcuni italiani emigrati, che scelsero di rientrare a combattere in Italia per l'Italia.
A differenza di quanto accadde in alcune aree europee, i partigiani ebrei italiani non costituirono "raggruppamenti ebraici". I più aderirono alle formazioni comuniste "Garibaldi" e a quelle azioniste "Giustizia e Libertà". Vari furono "commissari politici" o svolsero incarichi dirigenti, anche nazionali. Erano quasi tutti maschi, anche perché sulle donne - più libere di muoversi senza destare sospetti - pesava maggiormente il compito di proteggere le famiglie nascoste.
Accanto ai partigiani in senso stretto, altri ebrei furono impegnati in quella che gli storici definiscono "resistenza civile": l'elevatissima percentuale di rabbini deportati attesta il loro impegno a mantenere vivo l'ebraismo; e molti ebrei braccati poterono sopravvivere anche grazie ad eroici (e talora caduti) attivisti della Delasem e di altri network di soccorso.
La morte e la vita degli ebrei d'Europa e d'Italia dipesero dagli insuccessi e dai successi di chi combatté nazisti e fascisti, ebreo o non ebreo che fosse. Gli ebrei partigiani in Italia furono e resteranno i secondi genitori dei loro confratelli che il 25 aprile riottennero il diritto alla vita, alla libertà, alla democrazia. I circa cento ebrei caduti nella lotta ci sono particolarmente cari (non posso qui non ricordare Gianfranco Sarfatti, che portò al sicuro i genitori in Svizzera e poi rientrò a combattere e morire in Valle d'Aosta). Di un altro caduto, Emanuele Artom, possiamo leggere i "Diari", ripubblicati l'anno scorso da Bollati Boringhieri a cura di Guri Schwarz. Sono pagine ricche di vita ebraica e di vita partigiana. Alla data del 1 dicembre 1943, riferendo dell'ordine di arresto di tutti gli ebrei emanato il giorno precedente dal governo fascista, il giovane ebreo piemontese scrive: "Che cosa ne sarà della mia famiglia? Forse non vedrò più né mio padre né mia madre. In questo caso chiederò al comandante di essere mandato in una missione tale da essere ucciso". Fu invece lui a essere arrestato, durante un ripiegamento, da SS italiane: denunciato da una spia quale commissario politico e quale ebreo, Emanuele Artom morì in carcere il 7 aprile 1944 dopo sevizie inenarrabili.

Michele Sarfatti
direttore Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea 
 
 
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  RabelloIl giudice (dayan) Dichowsky
lascia il Tribunale rabbinico supremo


Il giudice Shlomò Dichowsky è stato uno dei giudici del Tribunale rabbinico supremo a Gerusalemme più benvoluti anche dal pubblico non-religioso; l'ex  presidente della Corte Suprema israeliana, il giudice Aharon Barak, lo avrebbe voluto accanto a sé come giudice della Corte Suprema, ma il giudice Dichowsky preferì rimanere al suo posto, anche per non dare l'impressione di dare meno importanza al Tribunale rabbinico. Recentemente egli ha lasciato il suo posto di giudice, per raggiunti limiti d'età (70) e ha inviato ai dayanim suoi colleghi una lettera in cui vuole esporre alcuni punti essenziali: egli ricorda come il rav Eliashiv – ritenuto il posek hador dagli ortodossi lituani – abbia sottolineato in una delle sue sentenze che non vi è un articolo dello Shulchan Aruch (= Sh.A.) su cui non vi siano divergenze, ma alla fine viene stabilita la halachà  e non sembre nel senso più rigido (lechumra), anzi molte volte nel senso più facilitante (lekula).
Lo Sh.A.Even Haezher (sui problemi famigliari) non è diverso dallo Sh.A. Orach Chaim (sulle Tefillot, Shabbat uMoadim): anche sui problemi famigliari non bisogna temere divergenze di opinioni, bisogna prendere una decisione e non sempre lechumra.
Un giudice non può decidere sempre nella maniera più rigorosa, ed egli dovrà tener conto della situazione e decidere talvolta anche eccezionalmente per evitare di peggiorare ulteriormente la situazione. "Un ghet (documento di divorzio) meusé (dato dal marito per costrizione) mi fa meno paura di un non ghet; ci si può cimentare con un ghet meusé, che molte volte è casher almeno a posteriori, mentre con una situazione di non ghet non ci si può cimentare…". Egli chiede quindi ai suoi compagni giudici di saper prendere le loro responsabilità e per questo:

1) Non consigliarsi con persone esterne: non aver paura di nessun uomo! E questo comprende anche persone importanti; la responsabilità e il potere di decidere sono dei giudici che vedono e sentono direttamente le parti.

2) Bisogna decidere subito. Fate conto che vi troviate di fronte a un parente che si trova in ospedale. Ogni ritardo nel dare una sentenza è imperdonabile.

3) Non parlare male dei tribunali (statali); anche se le compenze del Tribunale rabbinico mi sono state sempre molto care, bisogna cercare di conservarle senza urla, che non solo non ottengono il risultato sperato, ma anzi possono provocare danni anche in altre materie.

4) E` importante scrivere delle sentenze (e non dei telegrammi) con un buon             ebraico. E` importante far capire perché è stata data quella determinata sentenza.

5) Bisogna ubbidire al Tribunale rabbinico superiore: il non seguire questa regola può provocare dei danni ai tribunali rabbinici in generale e può causare perdite di tempo e denaro alle parti in causa.

Bisogna essere grati al giudice Dichowsky per essere stato capace di dare un insegnamento profondo, senza trascurare fattori che potrebbero sembrare inezie, ma che invece sono così importanti per le parti in causa, lui, abituato a trattare argomenti di capitale importanza, come ad esempio l'Azione per risarcimento danni per rifiuto di dare il ghet.
Di recente si è tenuto un convegno in suo onore: non stupirà sapere della partecipazione di personalità del mondo rabbinico (come il rabbino capo sefardita, il rav Shelomò Amar) e del mondo giuridico, come il professor Aharon Barak.
Ha concluso il rav Dichowsky dicendo: "Un dayan deve assumersi responsabilità halachiche con le sue sentenze, e deve sapere che con le sue sentenze si potrà meritare il gheinom nel mondo futuro o perfino in questo mondo. Ma non si può dare una sentenza che sia accettata da tutti, e sia strettamente casher per ogni sistema e per ogni idea".
È un atteggiamento simile a quello di un maestro di Chassidut che avendo saputo di non aver parte al mondo futuro, reagì con una grande gioia; agli allievi che lo guardavano stupiti, rispose il Maestro: "finalmente posso servire D-o per il Suo amore, sicuro di non farlo per il mio mondo futuro". Queste sono le persone che amano veramente D-o e il loro prossimo…

Alfredo Mordechai Rabello, giurista
Università Ebraica di Gerusalemme e Zefat Academic College
 
 
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La settimana che va chiudendosi è stata contrassegnata, dal punto di vista della nostra rassegna stampa, da molti fatti ma soprattutto da due eventi: lo squallido show del presidente iraniano alla conferenza delle Nazioni Unite, convocata per lottare «contro il razzismo» e divenuta l’arena di conclamate verbosità paleorazziste, non meno che l’invito ad andare a Washington rivolto da Barack Obama a quei leader mediorientali che sono parte in causa nel conflitto israelo-palestinese. Mentre la partita nel merito delle iniziative che la Casa Bianca porrà in essere, di qui in avanti, rispetto ai protagonisti delle annose divisioni che lacerano l’area in cui coabitano due popoli è questione aperta, che avremo senz’altro modo di giudicare nei mesi a venire, diversa è la questione dell’atteggiamento assunto da Mahomud Ahmadinejad, pesce in barile nel consesso mediatico offertogli, su un piatto d’argento, dall’Onu. Già nei commenti delle rassegne stampa dei giorni trascorsi avevamo identificato una serie di questioni di fondo, di lunga durata. Come valida sintesi, a tale riguardo, rimandiamo, con inconsueto riferimento a un articolo già comparso ieri, a quanto Carlo Panella rilevava su il Foglio parlando della «geopolitica dell’odio».
Vale ora la pena di riprendere il tutto, a conferenza oramai conclusa e in ciò sorretti dalla lettura dei quotidiani di questa come delle trascorse giornate, con alcune considerazioni di merito. Segnaliamo intanto l’intervista alla dissidente iraniana Shirin Ebadi su la Repubblica che si esprime a favore della partecipazione alla kermesse ginevrina, affermando che l’astenersi non avrebbe comunque concorso alla causa della comprensione reciproca. Non si meno, tra le notizie marginali, ovverosia i “francobolli” che registrano i feedback sui fatti della Conferenza si vedano sia Avvenire che il Corriere della sera che raccontano di come alcune Organizzazioni non governative siano state espulse dai lavori della medesima. Detto questo andiamo al dunque. Il leader sciita ha usato Ginevra, com’era abbondantemente prevedibile, in quanto comodo palcoscenico, trovandosi nel pieno della campagna elettorale per la propria rielezione è fruendo a man bassa della circostanza offertagli da un consesso internazionale dove ha potuto dare il “peggio di sé”. Di prevedibilità per l’appunto si parla poiché quanto si è consumato in sede pubblica è un copione non solo già visto ma anche annunciato, peraltro a piede sospinto. L’antisemitismo in salsa “antisionista” è consustanziale al satrapo iraniano, avendone fatto l’ideologia di riferimento della sua presidenza, in ciò rimarcando un tracciato che è proprio alla dottrina della Repubblica islamica dell’Iran che fa di Israele una mera «entità sionista» e degli ebrei, agenti dell’«imperialismo», nella migliore delle ipotesi dei «dhimmi», figure subalterne all’egemonia politica, sociale e culturale in questo caso dello sciismo. Il sempre informato Foglio ci racconta oggi, tra le altre cose, di come «Ahmadinejad arruoli giornalisti per la sua Press tv». Il problema di fondo, allora, diventa il perché dinanzi alla preannunciata partitura per un solo attore ci sia stata la disponibilità – quella avanzata dalle Nazione Unite – di concedergli uno spazio così rilevante. Dai pochi minuti concordati il “calimero nero” di Teheran ha strappato una intensa mezz’ora di rutilanti verbosità. Mentre i rappresentanti dell’Unione Europea abbandonavano la sala la buona parte dei restanti delegati plaudiva sentitamente alle sue secche affermazioni, intervallando i passaggi del discorso con battimani sentiti e partecipati. Non si sottovaluti questo aspetto, che nella sua inquietante evidenza è il segno che Ahmadinejad può contare su una discreta base di consenso a livello internazionale. La situazione che è emersa nella sede ginevrina delle Nazioni Unite rimanda quindi a un più ampio contesto internazionale che è segnata da tre soggetti in campo. Il primo è Israele, che sconta, malgrado gli attestati di simpatia e solidarietà di molti, un sostanziale isolamento politico. Cosa questo voglia dire lo si capirà, con tutta probabilità, solo nei mesi a venire. Il giudizio di senso comune, in ciò condiviso anche da una parte dei paesi occidentali, è che l’attuale governo israeliano sia assai poco attendibile come interlocutore. Si tratta di una opinione diffusa il cui fondamento non spetta a noi discutere ma che si impone – o per meglio dire, si imporrà - nei fatti qualora si dovesse addivenire a scelte strategiche da parte di altri attori presenti sul proscenio internazionale. Il rischio, in altre parole, è quello di uno scavalcamento dell’Esecutivo presieduto da Netanyahu, essendo ritenuto da alcuni interlocutori come troppo debole per fare scelte impegnative, e forse anche impopolari, rispetto alla sua base elettorale. Nei rapporti con l’Iran Gerusalemme già da adesso deve scontare un corposo isolamento. Cosa ciò comporterà, rinnoviamo l’inciso, lo si potrà dire solo con il tempo a venire ma dobbiamo cogliere fin da adesso l’elemento in sé problematico. E a tale riguardo si legga l’analisi di Tobias Buck sul Financial Times. Il secondo soggetto sono gli Stati Uniti di Barack Obama che, sia pure ancora troppo confusamente, vanno cercando una exit strategy dal quadro, non meno confuso, di un Medio Oriente ben lungi dall’essere pacificato, eredità difficile consegnata da George W. Bush al nuovo presidente. Considerazioni al riguardo, ad esempio, sono quelle espresse da Sergio Romano su Panorama. Una riflessione a tutto campo su questa nuova presidenza, decisamente in salita, dopo i «cento giorni di luna di miele» con gli elettori è quella offertaci da Antonio Carlucci su l’Espresso. Obama, investirà risorse ed energie in Afghanistan, vero punto critico per l’amministrazione statunitense; non di meno, cercherà di smarcarsi dall’Iraq, in ciò facendo adoperandosi per un rapporto non troppo conflittuale con l’Iran sciita. Quel che gli occorre, infatti, è il contributo di Teheran contro il fondamentalismo sunnita dei Talebani e, più in generale, dei movimenti radicali presenti in tutta la regione. Si vedano a tale riguardo le considerazioni che compaiono oggi su la Voce Repubblicana. Ne deriva, plausibilmente, che per Washington un eventuale unilateralismo di Gerusalemme sulla questione nucleare (l’ipotesi di un bombardamento preventivo dei siti iraniani) sarà oltremodo osteggiato. Del pari è prevedibile l’indisponibilità americana ad assecondare mosse autonome di Gerusalemme rispetto alle negoziazioni sui futuri assetti dei Territori palestinesi. Già manifestazioni in tal senso ci sono state con documenti, più o meno ufficiosi, che circolano tra le scrivanie degli alti funzionari e dei membri dell’amministrazione statunitense, dove sia pure implicitamente, si lascia intendere che quel che Israele non dovesse accettare per virtù glielo si dovrebbe “offrire” per necessità. Una analisi del rischio di un «grande freddo» tra Gerusalemme e Washington è quella offerta da R.A. Segre su il Giornale. Il terzo soggetto è quello che va riagglutinandosi intorno a Teheran e che se da molti punti è storicamente un déjà vu (il sodalizio terzomondista, che data ai tempi di Nasser) non è per questo meno pericoloso, sapendo che ora i fattori dirimenti sono essenzialmente due: l’evoluzione tecnologica di una parte del mondo musulmano, attraversato al suo interno da innumerevoli tensioni – a partire da quelle fondamentaliste – e che ora promette di ribaltare gli equilibri nucleari mantenuti nel corso dei decenni, e le trasformazioni sociodemografiche, destinate a pesare nel bilanciamento numerico, soprattutto per quello che riguarda il conflitto israelo-palestinese. Dietro la tracotanza di Teheran c’è un disegno politico netto, che vuole raccogliere l’attenzione e l’adesione di una parte delle masse musulmane, soprattutto quelle escluse dai benefici di una modernità ricca ma anche diseguale, intorno alla bandiera dell’antisemitismo contrabbandato come antisionismo. In ciò sta un “vecchio-nuovo” intendimento politico, che è arcaico nei suoi contenuti ma nuovo nella forma con la quale è veicolato. Ahmadinejad quando parla dalla tribuna delle Nazioni Unite ha alle spalle questo retroterra, che solo una lettura per parte nostra affrettata potrebbe indurci a sottovalutare. Dopo il fallimento delle ideologie di stampo laico e la loro sostituzione con quelle di matrice islamista è ora il tempo di quell’Iran parafascista, ma non necessariamente religioso, che l’ex sindaco della capitale ben rappresenta. Con tutta probabilità il reiterare ossessivamente i temi antisemiti funge da merce di scambio per future contrattazioni. Ma questo non può di certo rassicurarci, poiché un linguaggio che pareva espunto dai campi di legittimità della comunicazione pubblica si reimpone, oggi, come una ovvietà alla quale si accoda non solo una parte del mondo musulmano ma anche di una parte dell’ Occidente che, nel nome del “politicamente corretto”, non riconosce apertamente quella simpatia che invece coltiva silenziosamente. A cercare di porre un freno a questa pericolosa deriva si impegnano gli Stati Uniti, come ci ricorda Maurizio Molinari su la Stampa, laddove ci parla della cerimonia a Capitol Hill in memoria della Shoah. Ma è evidente che ad essere in gioco non è in questo caso il ruolo americano bensì altro.
Ricordiamo infine ai nostri lettori che domani è il 25 aprile, ricorrenza della Liberazione. Ne parlano, tra gli altri, per quel che concerne gli appuntamenti romani il Messaggero nella sua cronaca dalla capitale. Di segno alternativo è il pezzo di Marcello Veneziani su Libero dove contesta la rappresentatività morale e politica, a suo dire, della categoria dell’antifascismo storico.

Claudio Vercelli

 
 
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Nahum (Ugei): “Pannella cambi la sua proposta                            
sull'utilizzo del simbolo della Stella di David”
In riferimento alla proposta di Marco Pannella, di fare mettere la stella gialla ai candidati del Partito Radicale alle elezioni europee, perché discriminati dai mezzi di comunicazione, Daniele Nahum, Presidente dell’Unione Giovani Ebrei d’Italia, dichiara: "Capisco e comprendo le ragioni di Marco Pannella e del Partito Radicale che denunciano di essere discriminati dai mezzi di comunicazione per le elezioni europee, però non posso fare altro che contestare la proposta di Marco di fare mettere la stella gialla ai candidati radicali alle europee, perché è di pessimo gusto visto che la Shoah non è comparabile a nulla. Ritengo che i contenuti in politica siano di fondamentale importanza e il Partito Radicale ha sempre incentrato l’azione politica su programmi forti, da amico mi permetto di fargli una proposta che va in questa direzione ovvero basare la campagna elettorale del Partito Radicale sull’idea di fare entrare Israele nell’Unione Europea e dunque  trasformare la stella gialla dei candidati radicali in una bandiera europea con una stella di David come simbolo dell’ingresso di Israele in Europa.” Questa domenica, Marco Pannella, sarà protagonista di un incontro pubblico organizzato dall’Ugei che si terrà a Roma, intitolato “Israele nell’Unione Europea, utopia e profezia”. “In questa occasione - conclude Nahum -  sarà interessante sapere la sua risposta alla mia proposta”.

Oyoyoy festival: la cantante israeliana Noa
il 25 aprile in concerto a Casale
Torino, 23 apr -
Al festival della cultura ebraica Oyoyoy, ideato e organizzato dall’associazione culturale Monferrato Cult, che riunisce competenze professionali e sensibilità culturali della città e della Comunità ebraica, un'ospite di eccezione, la cantante israeliana Noa. Il suo unico concerto in Italia è previsto il 25 aprile. “La data del 25 aprile - spiega l'organizzazione Oyoyoy in una nota – non è certo casuale sessantaquattro anni fa finiva la guerra e finivano le persecuzioni, due eventi che si incrociano nella consapevolezza che stanno sparendo gli ultimi testimoni diretti. Occorre tenere viva la memoria di quei fatti e Noa è sempre stata in prima linea in questa battaglia di coscienza". Noa mescola jazz, rock americano e suggestioni mediorientali. Di se stessa, stella della world music, dice: "Mi sono formata a New York, ma non potrei mai vivere lontano da Israele" e, in effetti, quando si immerge nel clima mediorientale, danzando e accompagnandosi con percussioni, tamburelli, piccoli strumenti a fiato, Noa dà il meglio di sé. Tra i suoi brani più noti al grande pubblico c'é Beautiful that way, il brano della colonna sonora del film di Roberto Benigni La vita è bella. Il concerto si chiuderà con il brano Shalom, che Noa rivolgerà alla platea. La manifestazione Oyoyoy festival della cultura ebraica è patrocinata dalla Città di Casale Monferrato, dalla Provincia di Alessandria, dalla Regione Piemonte e dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Hanno assicurato un sostegno anche la Fondazione Crt e la Fondazione Cral. Le attività sono realizzate in collaborazione con le Comunità ebraiche di Casale Monferrato, di Vercelli e di Torino (sezione di Alessandria), con la Fondazione Arte Storia e Cultura Ebraica a Casale Monferrato e nel Piemonte Orientale Onlus e da Palazzo Monferrato.  
 
 
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L'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche.
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