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L'Unione informa |
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24 aprile 2009 - 30 Nisan 5769 |
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alef/tav |
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Roberto Colombo, rabbino |
Shabbat
leggeremo la Parashà di Tàzri’a che parla della Tzara’àt, una malattia
che colpiva la pelle di chi faceva maldicenza. Un uomo con la pelle
chiazzata di macchie bianche di Tzarà’at era considerato impuro dal
Sacerdote ma qualora l’intero corpo fosse ricoperto da un'unica macchia
bianca allora il Cohen doveva dichiarare la persona pura. La stranezza
è manifesta. Per il Rebbe di Lisansk la Torà insegna con ciò che volte,
per ravvedersi, è necessario vedere fino in fondo in quale vergognoso
stato si è caduti. Allora si inizia a riacquistare la purità perduta
anche senza l’aiuto del Cohen. Maestri del Talmud (Sanhedrìn 97a),
invece, interpretarono questa originale norma in modo simbolico:
ogniqualvolta il mondo si ricoprirà di odio e maldicenza verso Israele
allora Dio farà in modo che inizi per gli ebrei un momento di felicità
e prosperità. Se ciò è vero, dopo la disonorevole dichiarazione di
Durban 2, dovrebbe cominciare quanto prima per Israele la tanto attesa
e giusta considerazione. |
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Il
25 aprile del 1945, gli eserciti alleati hanno liberato l'Italia del
Nord dall'occupazione dei tedeschi e del regime di Salò. Le
grandi città del Nord, Genova, Torino e Milano sono insorte, e i
partigiani vi sono entrati. Mussolini, in fuga in divisa tedesca,
è stato giustiziato. L'Italia era liberata e la guerra era finita. E'
vero che questa liberazione è stata opera degli Alleati, non
della guerra partigiana, che è rimasta comunque un fenomeno
minoritario. Ma è anche vero che si deve alla lotta partigiana e
all'insurrezione dell'aprile 1945 se gli italiani hanno potuto, in
qualche maniera, entrare a far parte delle nazioni vincitrici e non
semplicemente di quelle vinte. Se hanno lavato la vergogna del giugno
1940, dell'attacco alla Francia moribonda. Non è solo la retorica dei
decenni successivi a dirlo, ma la storia di quei giorni. Ho in mente
l'immagine della cerimonia della Liberazione a Milano, con il
rappresentante del CLN a fianco degli alti ufficiali alleati, che parla
in piazza del Duomo e bacia in segno di omaggio la bandiera italiana.
Quel 25 aprile avevo quattro mesi, e uscii anch'io dalla
clandestinità. Come tanta parte degli italiani, come tutti gli
ebrei. |
Anna Foa,
storica |
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25 aprile - I mille ebrei italiani che combatterono per la libertà
Il
25 aprile è la data convenzionale nella quale con gioia celebriamo la
Liberazione d'Italia dalla Repubblica Sociale Italiana e
dall'occupazione del III Reich nel 1945. In effetti gli Alleati erano
sbarcati in Sicilia nel luglio 1943 e Roma e Firenze vennero liberate
nel 1944; ma fu nell'ultima decade dell'aprile 1945 che partigiani e
alleati raggiunsero le città del nord della penisola. La Liberazione fu
il risultato di un vasto e complesso impegno militare e politico. Tra
i combattenti della Resistenza italiana, vi erano circa mille ebrei, un
decimo dei quali fu ucciso in Italia o in deportazione (alcuni furono
deportati quali ebrei, altri come politici). Alcune decine di essi
erano stranieri, giunti nella penisola nei decenni precedenti, o dopo
il 1933 tedesco, o negli ultimi anni di guerra. Molti altri ebrei,
provenienti da vari paesi e continenti, combatterono in Italia sotto la
bandiera della Brigata ebraica o - anch'essi spesso volontari - nei
reparti statunitensi e inglesi; tra essi vi furono alcuni italiani
emigrati, che scelsero di rientrare a combattere in Italia per
l'Italia. A differenza di quanto accadde in alcune aree europee,
i partigiani ebrei italiani non costituirono "raggruppamenti ebraici".
I più aderirono alle formazioni comuniste "Garibaldi" e a quelle
azioniste "Giustizia e Libertà". Vari furono "commissari politici" o
svolsero incarichi dirigenti, anche nazionali. Erano quasi tutti
maschi, anche perché sulle donne - più libere di muoversi senza destare
sospetti - pesava maggiormente il compito di proteggere le famiglie
nascoste. Accanto ai partigiani in senso stretto, altri ebrei
furono impegnati in quella che gli storici definiscono "resistenza
civile": l'elevatissima percentuale di rabbini deportati attesta il
loro impegno a mantenere vivo l'ebraismo; e molti ebrei braccati
poterono sopravvivere anche grazie ad eroici (e talora caduti)
attivisti della Delasem e di altri network di soccorso. La morte
e la vita degli ebrei d'Europa e d'Italia dipesero dagli insuccessi e
dai successi di chi combatté nazisti e fascisti, ebreo o non ebreo che
fosse. Gli ebrei partigiani in Italia furono e resteranno i secondi
genitori dei loro confratelli che il 25 aprile riottennero il diritto
alla vita, alla libertà, alla democrazia. I circa cento ebrei caduti
nella lotta ci sono particolarmente cari (non posso qui non ricordare
Gianfranco Sarfatti, che portò al sicuro i genitori in Svizzera e poi
rientrò a combattere e morire in Valle d'Aosta). Di un altro caduto,
Emanuele Artom, possiamo leggere i "Diari", ripubblicati l'anno scorso
da Bollati Boringhieri a cura di Guri Schwarz. Sono pagine ricche di
vita ebraica e di vita partigiana. Alla data del 1 dicembre 1943,
riferendo dell'ordine di arresto di tutti gli ebrei emanato il giorno
precedente dal governo fascista, il giovane ebreo piemontese scrive:
"Che cosa ne sarà della mia famiglia? Forse non vedrò più né mio padre
né mia madre. In questo caso chiederò al comandante di essere mandato
in una missione tale da essere ucciso". Fu invece lui a essere
arrestato, durante un ripiegamento, da SS italiane: denunciato da una
spia quale commissario politico e quale ebreo, Emanuele Artom morì in
carcere il 7 aprile 1944 dopo sevizie inenarrabili.
Michele Sarfatti direttore Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea |
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Il giudice (dayan) Dichowsky lascia il Tribunale rabbinico supremo
Il
giudice Shlomò Dichowsky è stato uno dei giudici del Tribunale
rabbinico supremo a Gerusalemme più benvoluti anche dal pubblico
non-religioso; l'ex presidente della Corte Suprema israeliana, il
giudice Aharon Barak, lo avrebbe voluto accanto a sé come giudice della
Corte Suprema, ma il giudice Dichowsky preferì rimanere al suo posto,
anche per non dare l'impressione di dare meno importanza al Tribunale
rabbinico. Recentemente egli ha lasciato il suo posto di giudice, per
raggiunti limiti d'età (70) e ha inviato ai dayanim suoi colleghi una
lettera in cui vuole esporre alcuni punti essenziali: egli ricorda come
il rav Eliashiv – ritenuto il posek hador dagli ortodossi lituani – abbia sottolineato in una delle sue sentenze che non vi è un articolo dello Shulchan Aruch (= Sh.A.) su cui non vi siano divergenze, ma alla fine viene stabilita la halachà e non sembre nel senso più rigido (lechumra), anzi molte volte nel senso più facilitante (lekula). Lo
Sh.A.Even Haezher (sui problemi famigliari) non è diverso dallo Sh.A.
Orach Chaim (sulle Tefillot, Shabbat uMoadim): anche sui problemi
famigliari non bisogna temere divergenze di opinioni, bisogna prendere
una decisione e non sempre lechumra. Un
giudice non può decidere sempre nella maniera più rigorosa, ed egli
dovrà tener conto della situazione e decidere talvolta anche
eccezionalmente per evitare di peggiorare ulteriormente la situazione.
"Un ghet (documento di divorzio) meusé (dato dal marito per costrizione) mi fa meno paura di un non ghet; ci si può cimentare con un ghet meusé,
che molte volte è casher almeno a posteriori, mentre con una situazione
di non ghet non ci si può cimentare…". Egli chiede quindi ai suoi
compagni giudici di saper prendere le loro responsabilità e per questo:
1)
Non consigliarsi con persone esterne: non aver paura di nessun uomo! E
questo comprende anche persone importanti; la responsabilità e il
potere di decidere sono dei giudici che vedono e sentono direttamente
le parti.
2) Bisogna decidere subito. Fate conto che vi
troviate di fronte a un parente che si trova in ospedale. Ogni ritardo
nel dare una sentenza è imperdonabile.
3) Non parlare male
dei tribunali (statali); anche se le compenze del Tribunale rabbinico
mi sono state sempre molto care, bisogna cercare di
conservarle senza urla, che non solo non ottengono il risultato
sperato, ma anzi possono provocare danni anche in altre materie.
4)
E` importante scrivere delle sentenze (e non dei telegrammi) con un
buon
ebraico. E` importante far capire perché è stata data quella
determinata sentenza.
5) Bisogna ubbidire al Tribunale
rabbinico superiore: il non seguire questa regola può provocare dei
danni ai tribunali rabbinici in generale e può causare perdite di tempo
e denaro alle parti in causa.
Bisogna essere grati al
giudice Dichowsky per essere stato capace di dare un insegnamento
profondo, senza trascurare fattori che potrebbero sembrare inezie, ma
che invece sono così importanti per le parti in causa, lui, abituato a
trattare argomenti di capitale importanza, come ad esempio l'Azione per risarcimento danni per rifiuto di dare il ghet. Di
recente si è tenuto un convegno in suo onore: non stupirà sapere della
partecipazione di personalità del mondo rabbinico (come il rabbino capo
sefardita, il rav Shelomò Amar) e del mondo giuridico, come il
professor Aharon Barak. Ha concluso il rav Dichowsky
dicendo: "Un dayan deve assumersi responsabilità halachiche con le sue
sentenze, e deve sapere che con le sue sentenze si potrà meritare il
gheinom nel mondo futuro o perfino in questo mondo. Ma non si può dare
una sentenza che sia accettata da tutti, e sia strettamente casher per
ogni sistema e per ogni idea". È un atteggiamento simile a quello
di un maestro di Chassidut che avendo saputo di non aver parte al mondo
futuro, reagì con una grande gioia; agli allievi che lo guardavano
stupiti, rispose il Maestro: "finalmente posso servire D-o per il Suo
amore, sicuro di non farlo per il mio mondo futuro". Queste sono le
persone che amano veramente D-o e il loro prossimo…
Alfredo Mordechai Rabello, giurista Università Ebraica di Gerusalemme e Zefat Academic College |
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rassegna stampa |
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La
settimana che va chiudendosi è stata contrassegnata, dal punto di vista
della nostra rassegna stampa, da molti fatti ma soprattutto da due
eventi: lo squallido show del presidente iraniano alla conferenza delle
Nazioni Unite, convocata per lottare «contro il razzismo» e divenuta
l’arena di conclamate verbosità paleorazziste, non meno che l’invito ad
andare a Washington rivolto da Barack Obama a quei leader mediorientali
che sono parte in causa nel conflitto israelo-palestinese. Mentre la
partita nel merito delle iniziative che la Casa Bianca porrà in essere,
di qui in avanti, rispetto ai protagonisti delle annose divisioni che
lacerano l’area in cui coabitano due popoli è questione aperta, che
avremo senz’altro modo di giudicare nei mesi a venire, diversa è la
questione dell’atteggiamento assunto da Mahomud Ahmadinejad, pesce in
barile nel consesso mediatico offertogli, su un piatto d’argento,
dall’Onu. Già nei commenti delle rassegne stampa dei giorni trascorsi
avevamo identificato una serie di questioni di fondo, di lunga durata.
Come valida sintesi, a tale riguardo, rimandiamo, con inconsueto
riferimento a un articolo già comparso ieri, a quanto Carlo Panella
rilevava su il Foglio parlando della «geopolitica dell’odio». Vale
ora la pena di riprendere il tutto, a conferenza oramai conclusa e in
ciò sorretti dalla lettura dei quotidiani di questa come delle
trascorse giornate, con alcune considerazioni di merito. Segnaliamo
intanto l’intervista alla dissidente iraniana Shirin Ebadi su la Repubblica
che si esprime a favore della partecipazione alla kermesse ginevrina,
affermando che l’astenersi non avrebbe comunque concorso alla causa
della comprensione reciproca. Non si meno, tra le notizie marginali,
ovverosia i “francobolli” che registrano i feedback sui fatti della
Conferenza si vedano sia Avvenire che il Corriere della sera
che raccontano di come alcune Organizzazioni non governative siano
state espulse dai lavori della medesima. Detto questo andiamo al
dunque. Il leader sciita ha usato Ginevra, com’era abbondantemente
prevedibile, in quanto comodo palcoscenico, trovandosi nel pieno della
campagna elettorale per la propria rielezione è fruendo a man bassa
della circostanza offertagli da un consesso internazionale dove ha
potuto dare il “peggio di sé”. Di prevedibilità per l’appunto si parla
poiché quanto si è consumato in sede pubblica è un copione non solo già
visto ma anche annunciato, peraltro a piede sospinto. L’antisemitismo
in salsa “antisionista” è consustanziale al satrapo iraniano, avendone
fatto l’ideologia di riferimento della sua presidenza, in ciò
rimarcando un tracciato che è proprio alla dottrina della Repubblica
islamica dell’Iran che fa di Israele una mera «entità sionista» e degli
ebrei, agenti dell’«imperialismo», nella migliore delle ipotesi dei
«dhimmi», figure subalterne all’egemonia politica, sociale e culturale
in questo caso dello sciismo. Il sempre informato Foglio
ci racconta oggi, tra le altre cose, di come «Ahmadinejad arruoli
giornalisti per la sua Press tv». Il problema di fondo, allora, diventa
il perché dinanzi alla preannunciata partitura per un solo attore ci
sia stata la disponibilità – quella avanzata dalle Nazione Unite – di
concedergli uno spazio così rilevante. Dai pochi minuti concordati il
“calimero nero” di Teheran ha strappato una intensa mezz’ora di
rutilanti verbosità. Mentre i rappresentanti dell’Unione Europea
abbandonavano la sala la buona parte dei restanti delegati plaudiva
sentitamente alle sue secche affermazioni, intervallando i passaggi del
discorso con battimani sentiti e partecipati. Non si sottovaluti questo
aspetto, che nella sua inquietante evidenza è il segno che Ahmadinejad
può contare su una discreta base di consenso a livello internazionale.
La situazione che è emersa nella sede ginevrina delle Nazioni Unite
rimanda quindi a un più ampio contesto internazionale che è segnata da
tre soggetti in campo. Il primo è Israele, che sconta, malgrado gli
attestati di simpatia e solidarietà di molti, un sostanziale isolamento
politico. Cosa questo voglia dire lo si capirà, con tutta probabilità,
solo nei mesi a venire. Il giudizio di senso comune, in ciò condiviso
anche da una parte dei paesi occidentali, è che l’attuale governo
israeliano sia assai poco attendibile come interlocutore. Si tratta di
una opinione diffusa il cui fondamento non spetta a noi discutere ma
che si impone – o per meglio dire, si imporrà - nei fatti qualora si
dovesse addivenire a scelte strategiche da parte di altri attori
presenti sul proscenio internazionale. Il rischio, in altre parole, è
quello di uno scavalcamento dell’Esecutivo presieduto da Netanyahu,
essendo ritenuto da alcuni interlocutori come troppo debole per fare
scelte impegnative, e forse anche impopolari, rispetto alla sua base
elettorale. Nei rapporti con l’Iran Gerusalemme già da adesso deve
scontare un corposo isolamento. Cosa ciò comporterà, rinnoviamo
l’inciso, lo si potrà dire solo con il tempo a venire ma dobbiamo
cogliere fin da adesso l’elemento in sé problematico. E a tale riguardo
si legga l’analisi di Tobias Buck sul Financial Times.
Il secondo soggetto sono gli Stati Uniti di Barack Obama che, sia pure
ancora troppo confusamente, vanno cercando una exit strategy dal
quadro, non meno confuso, di un Medio Oriente ben lungi dall’essere
pacificato, eredità difficile consegnata da George W. Bush al nuovo
presidente. Considerazioni al riguardo, ad esempio, sono quelle
espresse da Sergio Romano su Panorama.
Una riflessione a tutto campo su questa nuova presidenza, decisamente
in salita, dopo i «cento giorni di luna di miele» con gli elettori è
quella offertaci da Antonio Carlucci su l’Espresso.
Obama, investirà risorse ed energie in Afghanistan, vero punto critico
per l’amministrazione statunitense; non di meno, cercherà di smarcarsi
dall’Iraq, in ciò facendo adoperandosi per un rapporto non troppo
conflittuale con l’Iran sciita. Quel che gli occorre, infatti, è il
contributo di Teheran contro il fondamentalismo sunnita dei Talebani e,
più in generale, dei movimenti radicali presenti in tutta la regione.
Si vedano a tale riguardo le considerazioni che compaiono oggi su la Voce Repubblicana.
Ne deriva, plausibilmente, che per Washington un eventuale
unilateralismo di Gerusalemme sulla questione nucleare (l’ipotesi di un
bombardamento preventivo dei siti iraniani) sarà oltremodo osteggiato.
Del pari è prevedibile l’indisponibilità americana ad assecondare mosse
autonome di Gerusalemme rispetto alle negoziazioni sui futuri assetti
dei Territori palestinesi. Già manifestazioni in tal senso ci sono
state con documenti, più o meno ufficiosi, che circolano tra le
scrivanie degli alti funzionari e dei membri dell’amministrazione
statunitense, dove sia pure implicitamente, si lascia intendere che
quel che Israele non dovesse accettare per virtù glielo si dovrebbe
“offrire” per necessità. Una analisi del rischio di un «grande freddo»
tra Gerusalemme e Washington è quella offerta da R.A. Segre su il Giornale.
Il terzo soggetto è quello che va riagglutinandosi intorno a Teheran e
che se da molti punti è storicamente un déjà vu (il sodalizio
terzomondista, che data ai tempi di Nasser) non è per questo meno
pericoloso, sapendo che ora i fattori dirimenti sono essenzialmente
due: l’evoluzione tecnologica di una parte del mondo musulmano,
attraversato al suo interno da innumerevoli tensioni – a partire da
quelle fondamentaliste – e che ora promette di ribaltare gli equilibri
nucleari mantenuti nel corso dei decenni, e le trasformazioni
sociodemografiche, destinate a pesare nel bilanciamento numerico,
soprattutto per quello che riguarda il conflitto israelo-palestinese.
Dietro la tracotanza di Teheran c’è un disegno politico netto, che
vuole raccogliere l’attenzione e l’adesione di una parte delle masse
musulmane, soprattutto quelle escluse dai benefici di una modernità
ricca ma anche diseguale, intorno alla bandiera dell’antisemitismo
contrabbandato come antisionismo. In ciò sta un “vecchio-nuovo”
intendimento politico, che è arcaico nei suoi contenuti ma nuovo nella
forma con la quale è veicolato. Ahmadinejad quando parla dalla tribuna
delle Nazioni Unite ha alle spalle questo retroterra, che solo una
lettura per parte nostra affrettata potrebbe indurci a sottovalutare.
Dopo il fallimento delle ideologie di stampo laico e la loro
sostituzione con quelle di matrice islamista è ora il tempo di
quell’Iran parafascista, ma non necessariamente religioso, che l’ex
sindaco della capitale ben rappresenta. Con tutta probabilità il
reiterare ossessivamente i temi antisemiti funge da merce di scambio
per future contrattazioni. Ma questo non può di certo rassicurarci,
poiché un linguaggio che pareva espunto dai campi di legittimità della
comunicazione pubblica si reimpone, oggi, come una ovvietà alla quale
si accoda non solo una parte del mondo musulmano ma anche di una parte
dell’ Occidente che, nel nome del “politicamente corretto”, non
riconosce apertamente quella simpatia che invece coltiva
silenziosamente. A cercare di porre un freno a questa pericolosa deriva
si impegnano gli Stati Uniti, come ci ricorda Maurizio Molinari su la Stampa,
laddove ci parla della cerimonia a Capitol Hill in memoria della Shoah.
Ma è evidente che ad essere in gioco non è in questo caso il ruolo
americano bensì altro. Ricordiamo infine ai nostri lettori che
domani è il 25 aprile, ricorrenza della Liberazione. Ne parlano, tra
gli altri, per quel che concerne gli appuntamenti romani il Messaggero nella sua cronaca dalla capitale. Di segno alternativo è il pezzo di Marcello Veneziani su Libero dove contesta la rappresentatività morale e politica, a suo dire, della categoria dell’antifascismo storico.
Claudio Vercelli |
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notizieflash |
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Nahum
(Ugei): “Pannella cambi la sua proposta
sull'utilizzo del simbolo della Stella di David” In
riferimento alla proposta di Marco Pannella, di fare mettere la
stella gialla ai candidati del Partito Radicale alle elezioni europee,
perché discriminati dai mezzi di comunicazione, Daniele Nahum,
Presidente dell’Unione Giovani Ebrei d’Italia, dichiara: "Capisco e
comprendo le ragioni di Marco Pannella e del Partito Radicale che
denunciano di essere discriminati dai mezzi di comunicazione per le
elezioni europee, però non posso fare altro che contestare la proposta
di Marco di fare mettere la stella gialla ai candidati radicali alle
europee, perché è di pessimo gusto visto che la Shoah non è comparabile
a nulla. Ritengo che i contenuti in politica siano di fondamentale
importanza e il Partito Radicale ha sempre incentrato l’azione politica
su programmi forti, da amico mi permetto di fargli una proposta
che va in questa direzione ovvero basare la campagna elettorale del
Partito Radicale sull’idea di fare entrare Israele nell’Unione Europea
e dunque trasformare la stella gialla dei candidati radicali in
una bandiera europea con una stella di David come simbolo dell’ingresso
di Israele in Europa.” Questa domenica, Marco Pannella, sarà
protagonista di un incontro pubblico organizzato dall’Ugei che si terrà
a Roma, intitolato “Israele nell’Unione Europea, utopia e profezia”.
“In questa occasione - conclude Nahum - sarà interessante sapere
la sua risposta alla mia proposta”.
Oyoyoy festival: la cantante israeliana Noa il 25 aprile in concerto a Casale Torino, 23 apr - Al festival della cultura ebraica Oyoyoy, ideato e organizzato dall’associazione culturale Monferrato Cult,
che riunisce competenze professionali e sensibilità culturali della
città e della Comunità ebraica, un'ospite di eccezione, la
cantante israeliana Noa. Il suo unico concerto in Italia è previsto il
25 aprile. “La data del 25 aprile - spiega l'organizzazione Oyoyoy in
una nota – non è certo casuale sessantaquattro anni fa finiva la guerra
e finivano le persecuzioni, due eventi che si incrociano nella
consapevolezza che stanno sparendo gli ultimi testimoni diretti.
Occorre tenere viva la memoria di quei fatti e Noa è sempre stata in
prima linea in questa battaglia di coscienza". Noa mescola jazz,
rock americano e suggestioni mediorientali. Di se stessa, stella della
world music, dice: "Mi sono formata a New York, ma non potrei mai
vivere lontano da Israele" e, in effetti, quando si immerge nel clima
mediorientale, danzando e accompagnandosi con percussioni, tamburelli,
piccoli strumenti a fiato, Noa dà il meglio di sé. Tra i suoi brani più
noti al grande pubblico c'é Beautiful that way, il brano della colonna sonora del film di Roberto Benigni La vita è bella. Il concerto si chiuderà con il brano Shalom, che Noa rivolgerà alla platea. La manifestazione Oyoyoy festival della cultura ebraica è patrocinata dalla Città di Casale Monferrato, dalla Provincia di Alessandria, dalla Regione Piemonte e dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Hanno assicurato un sostegno anche la Fondazione Crt e la Fondazione Cral. Le attività sono realizzate in collaborazione con le Comunità ebraiche di Casale Monferrato, di Vercelli e di Torino (sezione di Alessandria), con la Fondazione Arte Storia e Cultura Ebraica a Casale Monferrato e nel Piemonte Orientale Onlus e da Palazzo Monferrato. |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli
utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
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