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L'Unione informa |
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3 maggio 2009 - 9 Yiar 5769 |
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alef/tav |
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Benedetto Carucci Viterbi, rabbino |
"Siate
santi...." recita l'inizio della parashà di Qedoshim. Un invito,
secondo i commentatori, alla distinzione; in altri termini all'identità
individuale. Ma il testo si esprime al plurale, suggerendo una delle
sfide dell'educazione ebraica: coniugare identità individuale e
appartenenza a una comunità.
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Il
bilancio del primo maggio lo si può sintetizzare in due scene diverse:
un concerto megagalattico a Roma; la violazione dei diritti umani in
Iran con l’impiccagione di Delara Darabi. Apparentemente sono
due scene molto lontane tra loro, ma che si sarebbero dovute
parlare. La scena di Roma è quella apparentemente più facile da
decodificare: la musica, dice quella scena, si afferma come
l’unico linguaggio universale e trasversale del nostro tempo, capace di
muovere emozioni e di produrre immaginario. Probabilmente è davvero
così. E allora chiediamoci. Perché nello scenario più massificato e
collettivo dove parlare era possibile, dove in fondo era obbligatorio
il riferimento ai diritti, non ha trovato parola, spazio, opportunità
di affermarsi? E’ certo complicato e forse anche non piacevole
pronunciare alcune parole nel momento dell’evasione, ma era importante
trovarle ed era anche un modo per dire che la festa del lavoro conserva
ancora un’ombra della cultura della domanda di diritti a cui deve la
sua lunga storia. E allora forse è anche opportuno chiederci: che cosa
rimane dopo, una volta svuotata quella piazza? Chi era lì, il giorno
dopo dov’è? Che fa? In che relazione sta con il contenuto di quella
giornata? Ha un rapporto quell’evento con quella giornata? In breve:
che cosa passa per quella piazza nel corso di quel’evento e che cosa
rimane dopo? Certo nei giorni di festa ha un valore in sé l’evasione, e
un concerto vale anche per il fatto che non deve rendere conto a una
logica della politica. In breve proprio perché non è una
manifestazione, un concerto è uno spazio di libertà. Ma con il
contenuto di quella giornata ha un rapporto? Oppure, più semplicemente,
è un appuntamento nel calendario privo di contenuto? Non è una domanda
banale, perché se è vero che nel tempo festivo ci deve essere una
dimensione di sospensione, di vacanza, è anche vero che nel primo
maggio da sempre si colloca una dimensione di proiezione di futuro in
cui conta come si fa il bilancio del presente, come si prendono le
misure rispetto ai mutamenti e alle trasformazioni avvenute nel
tempo immediatamente trascorso e si prova a riflettere e a
proporre qualcosa per l’immediato futuro. In quella piazza, oltre i
suoni, e al di là del successo di pubblico, quella dimensione di
responsabilità semplicemente non c’era. E’ così difficile da dire? |
David Bidussa,
storico sociale delle idee |
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Delegati del Congresso Ucei a confronto sulla riforma delle istituzioni ebraiche
E'
in corso stamane, a Milano Marittima, l'Assemblea dei delegati del
Congresso dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. L'incontro si
svolge al margine del tradizionale Moked primaverile, la grande convention
dell'ebraismo italiano che ha richiamato nella località adriatica
centinaia di ebrei italiani provenienti da tutte le Comunità per
dibattere delle problematiche della formazione e dell'educazione e
trascorrere assieme giornate di studio e di confronto. All'attenzione
dei partecipanti dell'Assemblea, soprattutto il progetto di riforma
dello Statuto dell'Unione e l'inquadramento organizzativo delle realtà
ebraiche italiane. Nella relazione introduttiva del Consigliere Ucei Valerio Di Porto,
coordinatore della Commissione che ha posto allo studio la riforma, è
stato fatto il punto dei lavori preparatori che hanno visto impegnati
negli scorsi mesi i 15 componenti designati dal Consiglio dell'Ucei e
dai Presidenti di Comunità nello scorso dicembre. “La Commissione – ha
spiegato Di Porto – è partita dalla constatazione dei profondi
mutamenti intervenuti nei 22 anni trascorsi dal 1987 a oggi. In
particolare il declino demografico, la partecipazione al riparto della
quota dell’8 per mille dell’IRPEF, la nuova vitalità registrata dalle
Comunità, anche grazie all’iniezione di risorse derivanti dall’8 per
mille e la forza acquisita per le stesse ragioni dall’UCEI, che ha
portato in epoca recente anche ad una movimentata dialettica, il
mutamento del contesto generale, in un mondo sempre più plurale, dove
si è affermata una vera e propria rivoluzione dovuta alla generalizzata
diffusione degli strumenti telematici e alla necessità di assumere
decisioni in maniera sempre più tempestiva”. “Diverse
constatazioni – ha aggiunto Di Porto - hanno indotto la Commissione a
considerare un nuovo assetto dell’Unione e delle comunità che, tenendo
conto dei fattori enunciati, sia in grado di garantire la più ampia
rappresentatività ed inclusività delle Comunità, dell’Unione e dei loro
organi, favorendo contemporaneamente la governabilità e i legami di
collaborazione tra le realtà comunitarie. In questo senso si sono mosse
le tre direttrici principali del lavoro della Commissione, già indicate
nella lettera di convocazione dell’Assemblea: forma di governo delle
Comunità maggiori, forme di collaborazione tra le Comunità e assetto
dell’UCEI”. I lavori, che erano stati aperti dalla relazione generale del Presidente Ucei Renzo Gattegna, sono proseguiti con gli interventi di Leone Paserman e Dario Bedarida
che hanno affrontato alcuni aspetti specifici della riforma, come i
meccanismi elettorali interni alle comunità, la ripartizione delle
risorse derivanti dall'Otto per mille, i rapporti delle comunità con il
rabbinato. Ha fatto seguito un dibattito fra i delegati che deve essere
inteso, come è stato sottolineato da più parti, come un grande processo
di confronto e di ragionamento riguardo alle istituzioni, destinato a
coinvolgere, nei prossimi mesi, tutti gli ebrei italiani. Il
dibattito, aveva già messo in luce nella relazione introduttiva il
presidente Gattegna, “costituisce anche l'occasione per lanciare lo
sguardo su un orizzonte più vasto e per prendere atto che il grande
processo di trasformazione sociale, tecnologica ed economica che è in
corso nel mondo procede a una velocità sempre crescente. In questa
prospettiva – ha aggiunto – nessuna società, nessun paese, nessuna
Comunità può sottrarsi al difficile, ma affascinante compito di capire
il presente per progettare il futuro”. “Nessuno – ha detto ancora il
Presidente Ucei – può sottrarsi al tentativo di conseguire rapporti di
costruttiva convivenza tra le diverse componenti della società civile
nella quale sono presenti nazionalità, etnie, religioni e tradizioni
diverse”.
Moked - Un successo il grande incontro sui temi dell'educazione ebraica
Si
conclude oggi a Milano Marittima la grande convention di primavera
delgli ebrei italiani dedicata ai temi dell'educazione e della
formazione. All'incontro hanno partecipato oltre 600 persone, fra cui
molti giovani, provenienti da tutte le realtà ebraiche italiane. Oltre
ai dibattiti, agli approfondimenti e alle occasioni di studio, le
giornate sono state caratterizzate da una intensa partecipazione a uno
Shabbat straordinario e profondamente vissuto da tutti i presenti che
hanno voluto vivere momenti della festività anche sulla riva del mare.
Nell'immagine un momento della preparazione del Sabato.
Moked - Nuove frontiere per l'educazione ebraica
A
vederla con quel suo modo calmo e pacato non lo diresti eppure è stata
lei a provocare una vera e propria rivoluzione nel modo di concepire
l'insegnamento delle materie ebraiche nelle scuole italiane
attraverso l'organizzazione di una rete di collaborazione che ha unito
e uniformato i programmi di insegnamento delle materie ebraiche nelle
scuole di Roma, Milano, Trieste e Torino. Odelia Liberanome Bedarida,
fiorentina sposata un figlio di 15 anni, è il coordinatore del Centro
Pedagogico una struttura inserita nel Dipartimento Educazione e Cultura
dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, che ha sede operativa e
logistica presso la Comunità Ebraica di Firenze.
Odelia, parlaci del Centro Pedagogico L'attuale
struttura del Centro Pedagogico nasce nel 2002 in seguito alle
richieste formulate nella Conferenza programmatica sull'educazione
ebraica svoltasi a Montecatini nel novembre 2001. Da quel
dibattito sullo status e sulle prospettive dell'educazione ebraica in
Italia, scaturirono importanti richieste, sulle quali il Centro
Pedagogico del DEC, di lì a breve istituito, ha in seguito lavorato: la
necessità di un confronto su un possibile curriculum scolastico comune,
la richiesta di un costante aggiornamento professionale per gli
insegnanti, la diffusione di materiale didattico appropriato e adatto
ai vari ordini scolastici, la rilevanza della lingua ebraica come
fondante elemento educativo. Il Centro Pedagogico si sviluppa
quindi per fornire un supporto all'educazione formale e non formale in
Italia, attivando, sostenendo e implementando percorsi formativi
mediante attività, relazioni, corsi, sia presso le strutture educative
esistenti, che presso le Comunità ove queste strutture sono presenti in
forma minima o nulla. Oggi le aree di intervento del Centro
Pedagogico sono concentrate principalmente nell'ambito dell'educazione
formale. Da un lato le strutture scolastiche comunitarie, presenti a
diversi livelli nelle quattro comunità di Roma, Milano, Torino e
Trieste. Dall'altro i Talmud Torà delle piccole e medie Comunità. Ed
infine le scuole per l'infanzia, presenti a livello nazionale in molte
Comunità, con struttura e modalità diversificata, a seconda che esse
costituiscano una vera e propria struttura scolastica, o che si
configurino come un Talmud Torà di età prescolare. Perché la sede operativa è a Firenze? La
scelta di Firenze come sede del Centro Pedagogico è frutto di una
scelta politica dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, quando
assessore alla cultura e all'educazione era il consigliere Saul
Meghnagi. Questa scelta è scaturita in un accordo con la Comunità
Ebraica di Firenze che ha messo a disposizione le strutture. Il fatto
che io abiti lì non è indicativo, io sarei stata disposta anche a
trasferirmi a Roma alcuni giorni della settimana, si tratta proprio di
una scelta meditata dall'UCEI. Quali sono i principali obiettivi realizzati dal Centro Pedagogico? Innanzitutto,
come già preannunciato, la costituzione della rete delle Scuole
ebraiche attraverso un protocollo di intesa denominato Galgal.
Questo ha portato alla creazione di un Forum dei Presidi, attivo da tre
anni, una struttura oggi consolidata con un calendario di incontri
stabilito nel corso dell'anno scolastico e più di recente, un Forum dei
vicepresidi e collaboratori alla direzione. Dalla creazione dei due
Forum sono scaturiti alcuni seminari nazionali a cadenza annuale e
l'adozione di programmi di studio comuni per l'insegnamento della
lingua ebraica. Dai primi incontri di coordinamento e interventi
formativi per il Progetto lingua ebraica
del 2002, le Scuole hanno oggi a disposizione una ampia serie di
progetti e percorsi articolati che riflettono le varie aree di supporto
all'educazione ebraica, frutto di una costante sinergia di intenti fra
le istituzioni e il Centro Pedagogico. Parlaci del progetto di collaborazione con la Scuola di Studi sull'Olocausto di Yad Vashem Questo
progetto è in corso da tre anni, ed ha visto l'organizzazione di tre
seminari (uno a Firenze e due in Israele) sulla didattica della Shoah.
Nell'autunno scorso il secondo gruppo di 24 insegnanti, ha seguito un
Seminario di formazione sulla didattica della Shoah e
dell'antisemitismo presso la Scuola di Yad Vashem a Gerusalemme,
appositamente preparato per scuole ebraiche e Talmud Torà italiani.
Sono così circa 50 gli insegnanti formati in modo omogeneo e altamente
specializzati su questo tema. Il percorso di collaborazione con
Yad-Vashem proseguirà con attività e formazione sia in Italia che in
Israele. Abbiamo infatti in programma un seminario di secondo livello,
con l'approfondimento di tematiche riguardanti appunto l'antisemitismo
e la Shoah a Gerusalemme al quale parteciperanno 25-30 insegnanti . Che cos'è invece il Progetto TalAm? Da
circa due anni il programma TalAm per l'apprendimento della lingua
ebraica è adottato nelle quattro scuole primarie nazionali. Ciò
costituisce un terreno comune di confronto sulla programmazione dei
contenuti e di valutazione degli obiettivi raggiunti. Perseguire e
ottenere un curriculum comune, così come richiesto dalla conferenza di
Montecatini 2001, è utilizzare strumenti comuni ed avere una comune
finalità per la formazione dei ragazzi non essendo possibile una
programmazione identica per tutti, che mal si adatterebbe a realtà
organizzative, strutturali demografiche e sociali diverse. Un simile
approccio vale anche per i Talmud Torà, da sempre linfa vitale per le
piccole e medie Comunità. Quanto
è difficile per te lavorare in una sede diversa da quella in cui si
trovano le strutture principali dell'UCEI e, tutto sommato, da sola? Qualche
volta soffro un po' perché credo molto nel lavoro in team, la mia
determinazione è nata dall'esperienza nella Scuola di Torino dove ho
insegnato per cinque anni e dove ero coordinatrice delle materie
ebraiche, in quel contesto mi sono resa conto della necessità del
confronto con altre realtà simili. Ho ritenuto che la rete delle scuole
fosse indispensabile, che fosse indispensabile che questa gente si
conoscesse. L'importante per me era creare un'utenza, ma all'inizio non
avevo nulla se non il lunario delle Comunità. Quale è il tuo sogno nel cassetto? Non
ritengo conclusa la mia esperienza nel Centro Pedagogico, perché vedo
ogni giorno l'evolversi di una situazione e i progressi che si fanno
anche in condizioni non facili, credo molto in quello che faccio
e sono una persona ottimista, che non si lascia spaventare dalle
difficoltà. Il mio sogno è una grande interazione fra tutti, scuole
insegnanti, Comunità. Un dialogo sereno e un confronto positivo: a
volte ci si intoppa su piccole cose e si perde l'obiettivo principale,
che è una migliore educazione per i nostri ragazzi...
Lucilla Efrati
Moked - "L'esperienza di Torino un laboratorio di interazione" La
scuola ebraica di Torino nasce nel 1938, per assicurare la prosecuzione
degli studi ai ragazzi ebrei cacciati dopo la promulgazione delle leggi
razziali. Riaperta dopo la fine del conflitto mondiale, e dedicata
al partigiano ebreo Emanuele Artom, oggi è l’unica fra le scuole
ebraiche italiane ad avere una popolazione di studenti ebrei,
provenienti da famiglie miste e non ebrei. Tra infanzia, primaria e
secondaria sono iscritti un totale di 170 bambini, di cui a provenire
da famiglie ebree o miste è circa il 40%. Come tiene a sottolineare la
Vicedirettrice, Sonia Brunetti,
(nella foto insieme al rav Benedetto Carucci Viterbi, al rav Gianfranco
Di Segni e al Consigliere Ucei Victor Magiar) il successo di questo
modello sta prima di tutto nel garantire una elevatissima qualità
didattica, ma non solo questo.
Qual è la motivazione che spinge le famiglie verso una scelta di questo tipo? Quando
la scuola riaprì dopo la Seconda Guerra Mondiale, era frequentata,
oltre che dai ragazzi ebrei, solo da alcuni studenti provenienti da
famiglie valdesi. Man mano che è cominciata ad essere ricercata
un’educazione più laica e pluralista nel corso degli anni ’60, le
richieste di frequentare la scuola sono aumentate. Paradossalmente, una
scuola dichiaratamente ebraica era più atta a garantire questo tipo di
valori rispetto alla scuola pubblica, in cui già solo ottenere
l’esonero dall’ora di religione era davvero complicato. La qualità
della scuola unita a questa garanzia di laicità, rimangono le
principali ragioni che spingono le famiglie non ebree a fare studiare
da noi i loro figli. Poi naturalmente c’è anche chi la sceglie
semplicemente perché è l’istituto più vicino a casa. Il fatto che la maggior parte degli studenti non sia di religione ebraica non rischia di indebolire l’ebraicità della scuola? La
nostra scuola è un laboratorio, l’esperimento didattico è continuo, per
conservare un equilibrio dinamico tra parti diverse, che non significa
assimilazione. Mantenere una forte connotazione ebraica è la nostra
principale preoccupazione. Se la popolazione studentesca è mista, la
scuola è completamente ebraica. Il calendario che segue è quello
ebraico, ci sono 4 ore di ebraico ed ebraismo alla settimana e anche i
bambini non ebrei sono sempre molto partecipi e incuriositi. Non c’è
nessuna differenza da questo punto di vista con le scuole ebraiche di
Milano e Roma. Non è prevista l’ora di religione o di “religioni”
diverse da quella ebraica, così come non sono celebrate le festività
cristiane. Un momento invece solitamente riservato ai ragazzi ebrei è
la lettura della Tefillà del mattino, che precede l’orario di inizio
delle lezioni, anche se naturalmente è aperto anche a chi lo volesse
tra gli studenti non ebrei. Ma dopo pranzo la Birchat Hamazòn (la
benedizione del dopo pasto nda) si canta tutti insieme. Le famiglie sono soddisfatte dell’offerta formativa della scuola? Nella
scuola l’importanza dello studio viene particolarmente
valorizzato. Sappiamo che la qualità rappresenta la chiave per il
nostro successo e cerchiamo di regolarci di conseguenza. Maestri e
professori svolgono un lavoro straordinario. La famiglie si
aspettano molto da noi. La scuola è l’unica agenzia informativa della
Comunità di Torino, perciò i genitori ebrei ci tengono che essa
trasmetta i valori dell’ebraismo ai loro figli, facendoli crescere in
un’atmosfera ebraica, mentre per le famiglie non ebree è
particolarmente importante la possibilità per i loro bambini di
imparare a conoscere e confrontarsi con una cultura diversa. I genitori
ci offrono sempre una grandissima collaborazione. E il grande punto di
forza della nostra scuola è appunto il porre l’educazione dei ragazzi
sullo stesso piano dell’istruzione. La possibilità di confrontarsi con
culture e mentalità diverse dalle proprie in un ambiente protetto. La
centralità dei valori di democrazia, laicità e rispetto reciproco.
Tutto questo rappresenta senz’altro il nostro valore aggiunto. Negli
ultimi anni si è assistito a un incremento dei problemi di
antisemitismo, legati all’inasprimento del conflitto
israelo-palestinese. Voi ne siete stati toccati? All’interno
della scuola per fortuna no. Soprattutto con i ragazzi più grandi, di
seconda e terza media, i professori hanno potuto discutere questi temi
con serenità. Ci hanno talvolta chiamati, invece, da altre scuole
per combattere il fenomeno dell’antisemitismo, sia con lavori sulla
Shoà, sia per problemi più specifici. Ad esempio lo scorso anno la
professoressa di una terza media in una scuola statale, ci chiese aiuto
per fronteggiare il clima di antisemitismo e pregiudizio strisciante
che percepiva nella propria classe. Siamo intervenuti con un percorso
sui sessant’anni di Israele, svolto di concerto con i nostri ragazzi
della stessa età, che ha coinvolto anche artisti sia israeliani che
palestinesi. È stata un’esperienza importante. Su questo
frangente, così come su molti altri la nostra scuola ha sempre dato e
continua a dare un importante contributo, sia alla città di Torino, che
a tutto l’ebraismo italiano. Rossella Tercatin |
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Anna Foa: “La Shoah non può essere ridotta a una sceneggiatura o a una fiction”
“Perché - si domanda la storica Anna Foa in un articolo che apparirà la
prossima settimana sulla rivista Vita e Pensiero anticipato
dall'Osservatore Romano e dalle agenzie di stampa - la morte di
Auschwitz, che abbiamo visto in tante immagini documentarie, non ci
basta più? Perché questo riaffiorare voyeuristico di sadismo in romanzi
e letteratura di fiction?”. “Potremmo
ipotizzare – aggiunge la studiosa - che la morte ideologica non
interessi più nessuno, che per spiegare l'animo dei carnefici ci voglia
almeno, come nel romanzo di Littell, il trauma di un incesto. O che,
forse, si tratti di una risposta inconsapevole al dilagare del
negazionismo: eccoti sangue e torture, nudità e morte visibile, a iosa.
Come puoi negare ancora? O, forse, che tale sia ormai l'abitudine alla
morte da richiedere per i nostri palati distratti che sia cucinata in
sempre nuove salse”. “L'onda lunga dell'eredità di Auschwitz – si legge
nell'articolo - ancora ci sommerge. Perché ancora dobbiamo capire fino
in fondo cosa rappresenti, in noi eredi della rottura della civiltà
rappresentata dalla Shoah, questa fame di sangue, questa assuefazione
ai cadaveri, questa bramosia di letture accompagnata da tutta questa
infantile e pervicace volontà di negare la storia, la realtà, solo
perché troppo condivisa”. “Inquieta – aggiunge inoltre la studiosa
riferendosi alla spettacolarizzazione della Shoah - la notizia apparsa
sui giornali in questi giorni, dell'ultimo film di Quentin Tarantino:
un manipolo di coraggiosi e sanguinari ebrei americani alla ricerca,
nella Seconda Guerra Mondiale, degli scalpi dei nazisti”.
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Per un'etica condivisa fra laici e cattolici Nell’Ottocento fu la battaglia per l’emancipazione dall’ancien régime
e dalla Chiesa. Stato, nazione, cittadinanza, comunità culturale
coincisero nell’identità patriottica. Due France, laica e cattolica,
entrarono in lotta. Avvenne pure in Italia con lo Stato unitario e
Roma capitale. La laicità non è solo separazione dalla Chiesa o
posizione anticlericale, ma realizzazione dell’identità dello Stato. Fu
religione della laicità e della nazione. Tra laici e cattolici, un
forte confronto sale dal Risorgimento: è ben noto. L’accoglienza dei
Patti del Laterano nella Costituzione sembrò chiudere la storia e fare
della laicità un tema per studiosi. La Dc, perno del sistema italiano
per 40 anni, è stata accusata di aver clericalizzato lo Stato. La
«laicità democristiana» ha teso invece a superare lo scontro tra guelfi
e ghibellini, come voleva De Gasperi. Ma non ha potuto gestire in
Parlamento due gravi questioni, il divorzio e l’aborto, all’origine di
referendum. Di nuovo, con i referendum, si profilarono due Italie:
laica e cattolica. Appariva all’orizzonte la questione sull’etica, la
vita. Rinasce oggi il conflitto tra laici e cattolici, come ieri,
anche se non più sulla questione romana, ma su quella antropologica? Tale
conflitto mette in difficoltà i due poli politici (plurali al loro
interno). Ma c’è un fatto da notare. Il tempo è passato e le culture si
sono incrociate. Croce scriveva: perché non possiamo non dirci
cristiani. Aveva ragione. Un laico sente le acquisizioni del
Cristianesimo dentro la laicità. Anche i cattolici possono dire: perché
non possiamo non dirci laici. C’è una laicità del cristiano. Tutto è
complesso. Eppure il funzionamento dell’opinione pubblica, come un talk
show gridato, gioca alla contrapposizione. Il problema, a mio avviso, è
invece lavorare per una laicità condivisa, che affronti in modo serio
le grandi questioni nazionali, umane, antropologiche, con la
convinzione che nessuno ha il monopolio della modernità. Siamo tutti
più perplessi di quanto sembri di fronte al futuro. Il conflitto
tra le due Italie è fuori luogo, perché il mondo è cambiato. È stato
smentito quell’assioma della cultura occidentale per cui più modernità
avrebbe significato meno religione: una storia che scorre inesorabile
verso la secolarizzazione universale. Ci si trova invece a fronteggiare
i fondamentalismi con la riscoperta della laicità. Siamo in un tempo di
crisi, non solo economica, ma di identità. L’Italia è sfidata. Diventa
multireligiosa con ortodossi, musulmani e altri. Non è più una
questione solo tra laici e cattolici. A quale identità si avvia il
Paese? Una federazione di identità differenti? Lo scenario si allarga.
Di fronte ai «nuovi italiani» dell’immigrazione, alla globalizzazione,
ai giganti asiatici, che vuol dire essere italiani? Bisogna riprovare a
dire cos’è l’Italia e chi sono gli italiani. C’è da costruire una
laicità condivisa nel senso profondo della parola, laòs, popolo. Oggi
la laicità si connette all’identità nazionale. È un grande cantiere
culturale ed educativo. Ieri, partiti ideologici erano portatori di
visioni del Paese. Oggi è diverso. Laicità è ricerca ragionevole,
possibile, del bene comune, al di là del messianismo o delle passioni
di parte. Ci sono grandi differenze, ad esempio sui temi della vita. Ma
i valori del mondo religioso sono tutt’altro che regresso. Ridire
l’identità italiana in modo laico coinvolge la Chiesa, tutt’altro che
estranea al Paese per la storia, l’eredità umanistica di pietas che
segna l’umanesimo italiano. Perché il cristianesimo in Italia è una
religione di popolo, parte vitale dell’eredità storica e
dell’attualità. Se si prescinde dal cristianesimo italiano, non si può
costruire un’identità nazionale condivisa. Il rabbino Jonathan
Sacks ha notato: «Il relativismo è inadeguato alla sfida
dell’affermazione etnica e dei sistemi di credo esclusivi». C’è una
crisi spirituale del nostro tempo, nel vuoto di menti e di cuori,
all’origine della violenza dei giovani. La crisi dell’uomo italiano è
anche spirituale. Resto fedele alla lezione di Olivier Clément:
«Convocare lo spirituale nel cuore della cultura europea: se non
vogliamo ritornare all’uomo delle caverne, dobbiamo scoprire l’uomo
interiore nelle caverne dell’uomo». Nella crisi della banlieue parigina
il detonatore non fu l’islam (erano bande interetniche), ma il vuoto. Régis
Debray commentò quegli episodi: «Qui il problema non è la troppa
religione, ma la sua scarsa quantità». Il vuoto produce identità
contro, senza cultura, espresse da una pratica aggressiva. È pericoloso
in tempo di crisi. Si ricordi l’antisemitismo o i movimenti totalitari
dopo la crisi economica del 1929. Esclusivismi aggressivi crescono nel
vuoto e nella paura di uomini e donne spaesati. Bisogna ridire
agli italiani cos’è l’Italia. Le identità non si inventano. Come sono
effimere le operazioni che creano arbitrariamente il pantheon delle
nuove identità partitiche! Bisogna costruire una laicità di tutti, non
facilmente irenica, capace di vivere nelle diversità, ma di dire che
c’è un destino comune alla comunità nazionale: laicità di tutti per
dire una nuova identità nazionale. È il problema posto da Sarkozy,
parlando di «laicità positiva»: «Dobbiamo tener insieme i due capi
della corda: accettare le radici cristiane della Francia, e anche
valorizzarle, continuando a difendere la laicità giunta a maturità».
Benedetto XVI gli ha risposto, insistendo sulla necessità di «una più
chiara coscienza della funzione insostituibile della religione per la
formazione delle coscienze e del contributo... insieme ad altre
istanze, alla creazione di un consenso etico di fondo». Il presidente
francese ha auspicato «una laicità che rispetti, una laicità che
riunisca, una laicità che dialoghi. E non una laicità che escluda e che
denunci». In Italia non c’è un culto sacro della laicità o un
complesso cattolico di fronte allo spazio pubblico. Ci sono però un
involgarimento del dibattito e tanta timidezza verso le grandi imprese.
Non si deve pensare invece a un grande disegno, a cui lavorino cultura,
cristiani, laici, ebrei? Dobbiamo non avere paura di investire sul
lungo periodo. C’è bisogno di visioni. Nel 2011 ricorrerà il
centocinquantesimo dell’Unità: è il tempo di dire al Paese qualcosa di
nuovo, coinvolgente, dalle radici antiche, ma proiettato sul futuro.
Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant'Egidio (Corriere della Sera, 3 maggio 2009)
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Israele, presto sul mercato una nuova specie di grano che prende il nome dal papa Tel Aviv, 3 mag - Il
quotidiano israeliano Maariv pubblica oggi la notizia di una nuova
specie di grano messa a punto in Israele da un'equipe di scienziati
dell'Istituto di ricerca agricola Volcani, guidati dal dottor Uri
Kushnir che si chiamerà 'Benedetto XVI'. La sua presentazione avverrà
la settimana prossima in occasione dell'incontro a Gerusalemme fra il
capo dello Stato Shimon Peres e il Pontefice. Questa nuova specie di
grano, che sarà presto introdotta nel mercato israeliano, è
caratterizzata da spighe alte fino a un metro, dotate di grande potere
nutritivo, e particolarmente resistenti alle malattie. Con la 'farina
Benedetto XVI' saranno in futuro prodotte pagnotte destinate in
particolare ai pellegrini cristiani in visita in Israele. |
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