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L'Unione informa
 
    8 maggio 2009 - 14 Yiar 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  Roberto Colombo Roberto
Colombo,

rabbino 
Tra qualche giorno termineranno le usanze di lutto iniziate fin da Pesach per la morte degli alunni di rabbì Akivà, colpiti secondo il Talmud da un’epidemia per non aver avuto rispetto uno dell’altro. A Lag ba omer ricorderemo infatti l’opera di rabbì Shimon bar yochai, anch’egli alunno di rabbì Akivà, e faremo festa. Rabbì Shimon era assai diverso dai suoi compagni. Si racconta che egli si sia avvalso dell’aiuto di semplici contadini, da lui un tempo disprezzati per la loro ignoranza, per riuscire a scovare cimiteri e fosse comuni nascoste dai romani, ridando la giusta dignità ai defunti e permettendo agli ebrei di non entrare, anche se inavvertitamente, in posti impuri. Rabbì Shimon imparò così ad apprezzare ogni ebreo, anche l’incolto e colui che è lontano dal mondo delle mitzvòt. A patto, però, che l’ebreo agisca per dare dignità al suo popolo e si impegni per portare in seno ad ‘am Israel la purità. Chi si adopera per allontanare i propri fratelli dalla tradizione ebraica non può essere apprezzato.
Vorrei salutare su questa rubrica l'uscita di pagine ebraiche, con la speranza che si tratti solo dell'inizio, che l'Unione vada avanti nel progetto di realizzare un vero e proprio giornale dell'ebraismo italiano rivolto al mondo oltre che all'interno, tale da rendere il mondo ebraico un protagonista reale del dibattito culturale e politico del nostro paese. Nella storia dell'ultimo secolo, in realtà, i rapporti degli ebrei con i giornali sono stati molto stretti. E non solo come ideatori, editori e giornalisti di tanti importanti giornali non ebraici. Ricordiamo il ruolo avuto all'inizio del XX secolo in America dai quotidiani in yiddish, ben cinque che tutti insieme avevano una tiratura superiore a quella del New York Times, oltre mezzo milione di copie. Il più importante di questi quotidiani, tuttora in vita, è il Forverts, in inglese il Jewish Daily Forward, fondato nel 1897 da Abraham Cahan, il più importante scrittore ebreo americano di questo periodo, che lo diresse fino al 1946. A questa tradizione, al tempo stesso fortemente ebraica e fortemente aperta al mondo, vorrei ripensare, nel momento in cui formulo a questa iniziativa dell'Unione delle Comunità ebraicheItaliane il mio augurio più caldo di lunga vita.  Anna Foa,
storica


Anna Foa  
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  mokedMoked primaverile 5769 - Un bilancio
della convention degli ebrei italiani

Si è concluso da qualche giorno il Moked primaverile 5769 svoltosi a Milano Marittima dal 30 aprile al 3 maggio e sembra opportuno fare qualche bilancio sugli interrogativi emersi, quali sono state in conclusione, le considerazioni riassuntive di questo Moked sull’educazione ebraica?
Il primo grande problema emerso riguarda la definizione del concetto di educazione: cosa significa, educare? E che cosa vuol dire educare alla Torà? A porre quest'interrogativo al pubblico intervenuto in sala è il neuropsichiatra Gavriel Levi, affermando che quello a cui l’ebreo dovrebbe tendere è l’educazione alla zedakà e alla ghemilut hasadim (l’obbligo a dare una propria percentuale di guadagno a chi è più povero e la disponibilità a fare ‘generiche opere di bene’ verso il prossimo), due valori etico-sociali che costituiscono una legge positiva e che risultano incompatibili anche con quell’osservanza minuziosa che però naviga, in modo contraddittorio, in mezzo alle logiche consumistiche della nostra società. Una vita al di fuori di questi due valori non può voler dire, afferma il professor Levi, “vivere nella Torà”.
Sulla stessa linea si pone il pedagogista israeliano Jonathan Cohen, nel mostrare come l’Haggadà, attraverso le storie delle difficoltà, dei sentimenti e delle relazioni che legano i personaggi che vi sono raccontati, indichi molto più chiaramente delle semplici halachot (i precetti) le strade educative. In particolare Cohen si sofferma sulla necessità di accogliere il “forestiero”, come colui che porta la sua esperienza di vita concreta per illuminare di significati nuovi le parole di uno studio, che costretto spesso tra quattro mura, perde il suo rapporto con la realtà. Un tentativo di comprendere di nuovo cosa sia il “dentro” e il “fuori”, l’ideale e il reale: tutte questioni che si mettono in gioco proprio nel rapporto con l’altro, in particolare tra maestro e allievo, tra due compagni di studio, tra genitori e figli.
Confrontarsi con la vita concreta e reale implica la necessità di un incontro tra linguaggi diversi, che tessuti insieme aiutano  a comprendere quanti risvolti possano esserci nel vivere una vita ebraica. Questo è uno dei messaggi che il Rav Mino Bahbout, commentando la Parashà della settimana, tenta di esprimere proprio durante  il mezhè, il tradizionale aperitivo che gli ebrei di Tripoli consumano prima del vero e proprio pranzo del sabato e che contraddistingue fortemente questo giorno.
Proprio durante lo Shabbat, attraverso le lezioni di alcuni dei rabbini intervenuti, sono emerse le linee guida su cui basare un approfondito ragionamento sull'educazione ebraica. L'ingresso di decine e decine di giovani nella sala adibita a tempio, per la Tefillà del venerdì sera, ha segnato la prima finalità del progetto educativo: la trasmissione alle nuove generazioni, un compito che rappresenta sempre una sfida e che si declina diversamente in ogni tempo.
Chi è quindi colui che educa?
Rav Shmuel Rodal, Rav Roberto Colombo e Rav Roberto Della Rocca sono d’accordo su un punto: l’educatore è colui che “inaugura” e prepara il giovane, ma anche l’adulto, a costruirsi, soprattutto nei momenti di maggiore difficoltà e smarrimento. Solo colui che è capace di cogliere e valorizzare quegli aspetti che faranno da perno nella "costruzione" di una persona rimanendo nel tempo, può dirsi un educatore.
Il percorso, insiste Rav Della Rocca, è però difficile e si esprime bene nella storia tortuosa del popolo ebraico: un’educazione non è mai avulsa dalla vita pratica e concreta ed è questa che fa la differenza. Per questo motivo, riconoscere quale essa sia non è facile. Chi insegna dovrebbe sempre chiedersi dove portino le proprie parole, se esse possano essere devianti, manipolate magari da altre priorità o debolezze personali, così da “portare in esilio” anche i propri allievi. L’esilio infatti rappresenta proprio questo allontanamento, luogo e tempo che contemporaneamente, però, diventa anche lo spazio in cui cercare e trovare nuovi punti di riferimento. Qui, sembra, sta il compito della relazione, ricca e complessa, tra maestro e allievo, tra genitore e figlio e tra compagni di gioco e di studio.

Ilana Bahbout

 
 
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  MomiglianoRotschild Boulevard -  Una start up israeliana risolve il rompicapo dell'influenza suina 

Di maiali in Israele se ne vedono pochi. Eppure la risposta all'influenza suina, che a torto o a ragione sta terrorizzando il Messico e molti altri Paesi, potrebbe arrivare da una piccola start-up israeliana. Anzi, forse è già arrivata. Fino a pochi giorni fa quasi
nessuno conosceva il nome di CartaSense, un'azienda nell'area di Tel Aviv con appena 10 dipendenti. Ma nelle ultime settimane gli uffici di della piccola compagnia sono stati letteralmente bombardati da telefonate provenienti da tutto il mondo, e il suo nome è rimbalzato sulla stampa internazionale.
Il perché è presto detto: la start-up, specializzata nell'applicazione dell'alta tecnologia all'agricoltura e all'allevamento, ha recentemente sviluppato un meccanismo per comunicare in tempo reale le variazioni nello stato di salute di ogni singolo capo di bestiame, anche in grandi mandrie o altri gruppi. Cioè esattamente quello di cui i grandi allevatori (soprattutto in Paesi come Usa, Messico e Argentina) hanno bisogno adesso che gli allarmi sulle malattie di origine animale, dall'aviaria in poi, si stanno intensificando.
Il problema, sostiene il vicedirettore Sharon Soustiel, è che una piccola start-up non è in grado di sobbarcarsi da sola i costi di una produzione su scala industriale: “Ma siamo già in contatto con una serie di grandi aziende americane ed europee per avviare la produzione”, ha detto Soustiel alle agenzie di stampa.
A essere onesti, racconta Soustiel, il progetto era nato pensando ai bovini: l'obiettivo era monitorare le grandi mandrie, composte anche da decine di migliaia di capi, che si spostano negli spazi aperti. “Ma adesso senz'ombra di dubbio la nostra priorità sono i maiali”.

Anna Momigliano 
 
 
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Un’ombra si accompagna al dibattito politico e, di immediato riflesso, si proiettata sul nostro paese. Le misure discusse in Parlamento (a partire dal disegno di legge sulla sicurezza), così come tra i partiti e nella stessa società civile, per contenere e regolamentare il flusso di immigrati, in particolare di quelli clandestini, non rischiano in certi casi di introdurre elementi di pericolosa discriminazione? E ciò, nella memoria storica degli italiani, non demanda in qualche modo al 1938, anno delle infami leggi razziste? Le posizioni sono articolate e differenziate ma c’è chi pensa (e non sono pochi) che certe ipotesi di norme caldeggiate da alcune forze politiche siano potenzialmente molto pericolose. Si leggano al riguardo l’intervista all’ex presidente dell’Ucei Amos Luzzatto su la Repubblica così come l’editoriale di Gad Lerner sulla medesima testata. Sempre su la Repubblica Alberto Custodero, insieme a Guido Ruotolo su la Stampa e a Luigi Manconi su l’Unità, illustrano il merito degli effetti delle nuove misure così come delle controverse, e provocatorie, prese di posizioni di alcuni politici. Su quest’ultimo aspetto si legga la gustosa e irriverente «amaca» di Michele Serra (ancora su la Repubblica), Marco Tedeschi su l’Unità e Susanna Marzolla su la Stampa. Di diverso avviso sono invece il Foglio, quando al riguardo afferma che si tratta di «parole senza confini» e, con toni ancora più accorati, Fiamma Nirenstein su il Giornale, Giancarlo Lehner su Libero e Marco Navarra su Lab il Socialista.
Il Papa, intanto, è partito per un viaggio in «Terra santa», destinato a durare una settimana, pieno di incognite. Le minacce dei Talebani, infatti, non si sono fatte attendere, ci dice Roberto Marroni per il Sole 24 ore. Del pari anche Rachel Donadio su l’Herald Tribune e Paolo Rodari su il Riformista. Tutta la stampa segue l’augusto viaggiatore, come ci ricorda Cinzia Leone su il Riformista. I primi resoconti - altri ne seguiranno diffusamente nei giorni a venire - li troviamo per la firma di Salvatore Mazza su l’Avvenire (testata tra le più prodighe nel raccontare il percorso del «pellegrino di pace»), per la penna di Francesco Battistini su il Corriere della Sera, per quella di Andrea Tornelli su il Giornale, di Luigi Accattoli su Liberal, di Orazio La Rocca su la Repubblica, di Alessandro Speciale su Liberazione, di Roberto Monteforte su l’Unità, sul Foglio che parla di «Giordania porta d’ingresso della Chiesa nel dialogo con l’Islam» e su la Nazione. Fazioso e monocorde, come d’abitudine, Michele Giorgio su il Manifesto. Va detto che tutti i viaggi dei pontefici, non più di tre peraltro, sono avvenuti sempre sotto auspici contrastanti, così ci ricorda Luigi Accattoli, sempre sul Corriere della sera
. La presenza in Israele di Ratzinger, ovvero di un uomo di Chiesa di origine tedesca le cui prese di posizione non hanno mai raccolto unanimi consensi, si compie dopo un periodo di non facili relazioni con l’intero mondo ebraico, oltre che con Gerusalemme medesima. Si sofferma su questi aspetti Angelo Scelzo per il Mattino. Le analisi al riguardo si sono peraltro sprecate, dividendosi tra quanti hanno rilevato il solipsismo nel quale agirebbe questo Papa (sostanzialmente estraneo, più che sordo, alle pressioni curiali e alle sollecitazioni manifestategli a più riprese dal mondo circostante), tra coloro che ne hanno tessuto le lodi (tra gli altri Luigi Geninazzi nel suo editoriale su l’Avvenire), facendone in non pochi casi l’apologia e, infine, tra chi ha cercato di collocare da subito la figura di un teologo di estrazione conciliare, quale Joseph Ratzinger è (e, per più aspetti, rimane, così come afferma Gianni Cardinale su l’Avvenire) nel contesto storico nel quale si trova ad agire. Non di meno le difficoltà di comunicare che ha rivelato a più riprese, anche con il mondo musulmano, hanno reso estremamente complesso, se non farraginoso, il confronto con un uomo, prima ancora che con una figura pastorale, che a volte sembra volere sfuggire alla presa dei tempi. Gli esiti del viaggio in Israele, in Giordania e nei Territori palestinesi (il cui significato per la Santa Sede è espresso dall’intervista di Gianluca Biccini all’arcivescovo Antonio Franco su l’Osservatore romano), saranno dirimenti per gli anni a venire rispetto a quanto l’ebraismo andrà pensando e soprattutto facendo d’ora innanzi nei confronti di una realtà, quella cristiana cattolica, che in quei luoghi si sente minoranza fortemente assediata, come ci ricorda Aldo Maria Valli su Europa. Le relazioni con Israele, in quanto determinazione storica dell’ebraismo, rappresentano un «turning point», un punto di svolta, che va al di là dell’aspetto in sé dei mutevoli rapporti tra due Stati per demandare e assumere, in una dimensione più ampia, la prospettiva dello sviluppo dei legami tra due universi culturali e religiosi che si richiamano, per alcuni aspetti, ad una comune radice ma a sviluppi storicamente divergenti e a volte conflittuali. Il punto di vista cattolico, al riguardo, è autorevolmente espresso da Carlo Maria Vian su l’Osservatore romano come dal teologo Bruno Forte su il Corriere della sera. Quello che Ratzinger troverà in Israele ce lo raccontano, dal loro angolo visuale, Anna Momigliano su il Riformista e Filippo Di Giacomo su la Stampa. Peraltro il confronto non è mai univoco, poiché lo stesso governo israeliano, da poco operante, è sotto prova da molti punti di vista. In altre parole: sarà quest’ultimo capace di sviluppare una autonoma iniziativa politica o si ridurrà all’amministrazione dell’esistente, viste le molteplici differenze che accompagnano la coalizione di partiti che lo sostengono? I primi esiti della visita di Avigdor Lieberman in alcuni paesi europei, tra la cui stessa Italia, vanno nella direzione del tentativo di rafforzare negli interlocutori una percezione fondata sulla consistenza delle intenzioni delle autorità israeliane. Ne dà una sintesi l’editoriale odierno di Le Monde, parlando di un «plan Lieberman». Si è detto che Gerusalemme stia testando una nuova «policy review» che gioca sul nesso di condizionamento tra l’evoluzione della questione iraniana, ora più che mai percepita e tematizzata come la vera sfida dei prossimi anni, e le risposte da dare alle richieste dei palestinesi. Per il governo Netanyahu i veri “interlocutori”, oggi, stanno a Teheran. Tutto ruota intorno alla questione nucleare, quindi, e alle risposte che ad essa verranno date. La lobby energetica, che si riconosce nella teocrazia teheraniana, non vede di buon occhio le intemperanze di Ahmadinejad. Il quale, invece, se non sarà sconfitto nelle prossime elezioni presidenziali del 12 giugno, cercherà di corroborare il proprio potere attraverso il richiamo al nucleare, sia civile che militare, come strumento per l’Iran e per i suoi elettori di emancipazione dalle dipendenze economiche, dalle sudditanze politiche dal clero interno e per la realizzazione di una politica di piena egemonia regionale. Più semplicemente, il presidente uscente sa che il suo blocco di consenso elettorale ha bisogno di un mito galvanizzante e l’ha trovato in questa moneta a due facce: la lotta contro l’«imperialismo sionista» (ed ebraico) e la costruzione di un circuito energetico indipendente da quello degli ayatollah. Come sia possibile muovere le pedine su uno scacchiere così complicato è la sfida sulla quale sia Obama che Netanyahu si giocheranno il loro futuro politico. Plausibile che la soluzione stia non in Medio Oriente ma nello spostamento dell’asse degli equilibri verso il Sud-Est asiatico, dove molte partite, a iniziare da quelle economiche, si giocano, vincendole o perdendole, già da tempo. Ma si tratta di una prospettiva di lungo termine, estremamente delicata, che va ben al di là dello spazio d’azione concesso ai singoli governi. Filippo Cicognani, nel mentre, su Europa parla di come sia mutato il volto d’Israele in questi ultimi dieci anni.
Da ultimo, segnaliamo l’intervento del Presidente dell’Unione, Renzo Gattegna, ospitato da l’Osservatore romano, dove racconta ai lettori non solo la rilevanza pubblicistica ma anche il significato civile, culturale e morale di «Pagine ebraiche».

Claudio Vercelli

 
 
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Il Papa in Israele, la cerimonia di benvenuto                                    
e due assenti giustificati 
Gerusalemme, 8 mag -
Potrebbero essere assenti i due rabbini capo di Israele alla cerimonia di benvenuto di Papa Benedetto XVI, prevista per lunedì 11 maggio, all'aeroporto di Ben Gurion di Tel Aviv. L'assenza non rappresenta un segno di malumore dei rabbini nei confronti dell'ospite. A precisarlo è stato il direttore generale del rabbinato israeliano Oded Wiener. “L'inizio della visita del Pontefice coincide con la solennità ebraica di Lag ba-Omer, che ricorda sia la morte del rabbino Shimon Bar-Yochai (perseguitato duemila anni fa dai romani) sia la rivolta ebraica del condottiero Bar Cochbà contro l'Impero romano degli anni 132-136 d.C”, queste le parole usate per giustificare l'assenza. Le celebrazioni termineranno martedì con un grande raduno religioso presso la tomba di Bar-Yochai sul monte Merom (Galilea) e dunque i due rabbini-capo (l'asheknazita Yona Metzger e il sefardita Shlomo Amar) sono presi dai preparativi. "Ancora oggi non sanno se potranno essere o meno all'aeroporto" - ha precisato ancora Wiener confermando poi che gli stessi accoglieranno martedì, con tutti gli onori del caso, il Pontefice nella sede del rabbinato di Gerusalemme, il Palazzo di Salomone. "Sarà un evento solenne - ha anticipato Wiener - alla presenza di rabbini importanti e di altre personalità della società israeliana".


Franco Frattini e l'Italia amica di Israele
Washington, 8 mag -
“L'amicizia con Israele e col suo popolo è un asse portante della politica estera dell'Italia" questa la dichiarazione del ministro degli Esteri Franco Frattini, esplicitata nel discorso tenuto ieri sera a Washington presso l'American Jewish Committee. Nella stessa occasione Frattini ha voluto ricordare la decisione "chiara e non ambigua" dell'Italia di non partecipare alla Conferenza di Ginevra sul Razzismo rivelatasi una piattaforma per affermazioni anti-semitiche. "Su certe questioni fondamentali non siamo disposti ad accettare compromessi", ha detto Frattini, raccogliendo un lungo applauso. "I fatti hanno dimostrato che la scelta dell'Italia era stata la scelta giusta", ha aggiunto Frattini. Il ministro degli esteri ha detto che per l'Unione Europea, apparsa divisa ed esitante, quella di Ginevra è stata una occasione mancata: "l'Unione Europea deve imparare a parlare con una voce unica e senza accettare alcun compromesso". Frattini nello stesso incontro ha anche toccato il tema del processo di pace in Medio Oriente e ha affermato che la nuova amministrazione Obama appare intenzionata ad avere "un impegno diretto e profondo" nei colloqui di pace. Inoltre, adesso che Usa e Europa appaiono essere sulla stessa lunghezza d'onda sulle prospettive politiche della regione, "l'Unione Europea ha la possibilità di giocare un ruolo attivo, in particolare l'Italia, nel rilancio del processo di pace". Circa il ruolo dell'Iran, Frattini ha detto che "é inaccettabile" che Teheran acquisisca ordigni nucleari ma che nello stesso tempo "non c'é alternativa" al tentativo di incoraggiare l'Iran "a giocare un ruolo positivo nella regione".
 
 
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