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L'Unione informa |
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17 maggio 2009 - 23 Yiar 5769 |
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alef/tav |
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Benedetto Carucci Viterbi,
rabbino |
"Ben Zomà diceva: - Chi è veramente forte? Colui che domina il suo istinto" (Avot 4,1). Per chi pensa che la potenza si esplichi nei confronti degli altri. |
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Paura della libertà
è un testo di Carlo Levi che conviene tenere tra le mani in questi
giorni. E’ un testo composto nell’inverno 1940, mentre il nazismo si
espandeva, la Francia crollava e gran parte dell’Europa dell’Est
diventava dominio nazista sotto il nome di “Nuovo ordine Europeo”.
Questa era la parola per dire Europa, allora. In quel testo, Levi
rivolge un “messaggio in bottiglia” a un lettore che non c’è, comunque
che non sa come raggiungere, mettendolo in guardia dal disincanto
diffuso per la dimensione politica pubblica. Descrivendo il rapporto
tra cittadino e Stato – ma più correttamente si potrebbe dire tra
potere e suddito – Levi denunzia un eccesso della politica proprio
sulla base e in forza di una sua spoliazione, ovvero in relazione e in
conseguenza di una depoliticizzazione dell’individuo che gli sembra il
carattere proprio dell’anticamera dei totalitarismi. E spiega come sia
nella paura il cuore della macchina generativa del potere. Un potere
che proprio mentre denuncia i mali della politica e tenta di
accreditarsi attraverso l’offerta di protezione salvifica, riconferma
la sua vocazione ad espropriare chiunque della sua possibilità e
facoltà di decidere. |
David Bidussa,
storico sociale delle idee |
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Torino e i libri - Da Grossman a Kenaz a Bat Ye'or, il grande appuntamento con la cultura ebraica
All'ingresso
monumentali faraoni segnalano che alla Fiera del libro di Torino il
paese ospite quest'anno è l'Egitto. Eppure già all'ombra di queste
gigantesche statue di cartapesta decine di migliaia di visitatori
vengono a prendersi la loro copia di pagine ebraiche,
la pubblicazione a larga tiratura ricca di spunti di cultura e di
informazione che l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane sta
diffondendo in questi giorni. E l'attenzione alla letteratura in lingua
araba del Medio Oriente, grande protagonista dell'edizione in corso, si
accompagna a un ricco e seguitissimo filone dedicato alla cultura
ebraica e agli scrittori israeliani. Quasi che l'esperienza della Fiera
2008, dove tra mille polemiche l'ospite era stato Israele, abbia
lasciato un segno indelebile. Nelle sale del Lingotto si possono
incontrare scrittori del calibro di David Grossman o Yehoshua Kenaz,
l'inglese Howard Jacobson autore delle surreali Kalooki nights, il
newyorkese d'adozione André Aciman, il giovane statunitense Todd Hasak
Lowy o l'arabo israeliano Sayed Kashua. E poi giornalisti, storici,
politologi e tanti intellettuali del mondo ebraico italiano (tra cui
molti collaboratori del Portale dell'ebraismo italiano www.moked.it). Nei
padiglioni affollati e rumorosi della Fiera del libro, che in
quest'edizione 2009 vede come paese ospite l'Egitto, gli incontri si
susseguono a ritmi serrati, spesso accavallandosi. Un'ora esatta di
dialogo con l'autore, perché alla porta già preme il pubblico
dell'evento successivo e poi via di corsa verso il prossimo
appuntamento. Tra miriadi di sollecitazioni seguire una traccia
culturale, come quella ebraica, è un esercizio del tutto arbitrario e
spesso faticoso.
Venerdì ad aprire le danze sul fronte israeliano è Sayed Kashua,
intervistato dal giornalista Stefano Jesurum. A 34 anni Kashua è un
caso singolare nel panorama letterario. Arabo israeliano scrive in
ebraico, firmando tra l'altro una popolare rubrica sul settimanale Kol
ha'ir in cui racconta in toni scanzonati la quotidianità dei villaggi
arabi. I suoi due romanzi tradotti in italiano, E fu mattina e Arabi danzanti
(entrambi editi da Guanda) hanno segnato, per tanti lettori, una svolta
nella percezione della realtà del mondo arabo israeliano. Nonostante
ciò, spiega Kashua, è stato molto difficile trovare un editore in un
paese arabo. Gli gioca contro la scrittura in ebraico (e forse non a
caso la prima edizione araba delle sue opere uscirà a Beirut, città di
secolare tradizione cosmopolita). Eppure, dice lui, nella scelta
dell'ebraico non vi sono intenzionalità. “Non scrivo in arabo perché
non ne sono capace – dice – L'ebraico è la mia prima lingua di
scrittura, quella che ho appreso a scuola. Comunque non sono il primo
arabo che scrive in ebraico, anche il grande Shamas l'ha fatto”. Ma la
scelta della lingua esplicita in ogni caso una scelta di campo. “Non mi
piace parlare di arabi e israeliani come di due parti contrapposte.
Nella realtà viviamo una situazione di separatezza: io voglio però
mescolare le regole del gioco”. E a confondere ancor di più le acque
Kashua elenca i suoi autori preferiti. Tutti israeliani: al primo
posto, Etgar Keret.
Le regole del gioco si sovvertono anche per André Aciman,
nato ad Alessandria d'Egitto in una famiglia sefardita di origine
turca, che vive e lavora a New York. Intervistato da Elena
Loewenthal, Emmanuelle de Villepin e Wlodek Golkorn, Aciman, di cui in
italiano è appena uscito il romanzo d'ispirazione autobiografica Ultima notte ad Alessandria
(Guanda), incarna un cosmopolitismo vissuto e sofferto. Il suo legame
con il mondo dell'infanzia alessandrino, dove s'intrecciano in armonia
lingue, culture e religioni, s'interrompe bruscamente con l'espulsione
per un esilio che troverà approdo in un altro meltin'pot, quello
newyorkese. In mezzo, una tappa in Italia. “Non mi sento egiziano –
spiega Aciman – Non lo sono mai stato e non me l'hanno mai permesso. Ma
non mi sento nemmeno statunitense. Mi sento un newyorkese così come una
volta mi sentivo alessandrino, figlio di una civiltà che oggi non
esiste più”. Ma quest'identità così volatile e per tanti versi così
moderna porta con sé un dolore vivo e profondamente ebraico. “Quando la
gente si sposta molto i morti rimangono abbandonati e pochi anni dopo
sono dimenticati, quasi non siano mai esistiti. E' accaduto a intere
generazioni di ebrei, anche alla mia famiglia. Da qui mi è venuta la
spinta a scrivere il libro, perché si sappia com'era il mondo ormai
scomparso d'Alessandria d'Egitto”.
Affonda le sue radici in Egitto anche l'esperienza di Bat Ye'or,
lo pseudonimo che in ebraico significa Figlia del Nilo con cui è nota
la scrittrice Giselle Littman, protagonista insieme a Ugo Volli e Dario
Peirone di un incontro organizzato dall'Associazione Italia Israele.
Nata al Cairo e naturalizzata britannica, Bat Ye'or è conosciuta come
pioniera nello studio delle forme di sottomissione al dominio islamico
e della Jihad. “Leggere i suoi libri – dice Ugo Volli – è importante
per riuscire a guardare in controluce le notizie pubblicate dai media e
capire davvero ciò che sta accadendo”. Per Bat Ye'or la direzione degli
eventi è infatti molto chiara, come illustra nel suo libro Il califfato universale,
da poco edito in italiano da Lindau. “In Occidente – spiega – è in atto
un profondo processo di islamizzazione. Gli stretti legami fra l'Unione
europea e la Conferenza islamica stanno indebolendo le identità
nazionali e i valori religiosi europei così da rafforzare il potere
islamico. Per questo le politiche di contenimento dell'immigrazione
vengono definite razziste e vi sono forti pressioni per favorirla”. E
sempre in direzione di una progressiva islamizzazione dell'Europa, dice
Bat Ye'or, va inserito il prospettato ingresso della Turchia in Europa.
“Il momento è molto critico – conclude – Se non lottiamo, anche a
sostegno di Israele, rischiamo di perdere i nostri diritti e la nostra
identità giudaica e cristiana”.
La giornata di sabato porta con sé l'appuntamento con due grandi della letteratura israeliana, Yehoshua Kenaz
e David Grossman. Incontri molto diversi - raccolto e quasi sussurrato
il primo, vibrante di applausi e affollatissimo il secondo – a
significare un divario netto di poetica, linguaggio e, perché no,
perfino esposizione mediatica. Intervistato da Elena Loewenthal, Kenaz
– di cui Nottetempo ha da poco mandato in libreria Paesaggio con tre alberi
- parla del mestiere di traduttore (traduce dal francese), di libri e
di scelte letterarie con il rigore gentile di chi della riservatezza ha
fatto una cifra di stile e di vita. “A 62 anni non ho ancora capito né
perché si scrivono libri né perché si leggono So soltanto che per
me è una sorta di dovere – dice – Scrivere è molto diverso dal
tradurre. Quando traduco m'immedesimo nell'autore e scrivo in ebraico
come potrebbe fare lui stesso. Ma se sono io a scrivere non sono mai
convinto di ciò che sto facendo. La storia inizia a girarmi per la
testa e la lascio lì a passeggiare per un po'. Finché non mi decido a
scrivere”. E nel processo creativo si dà una sorta di misteriosa
trasfigurazione. “Non amo rileggermi. Ma quando lo faccio spesso mi
stupisco di quel che ho fatto. Mi viene da dire: è troppo buono per
me”. Potrebbe essere una sorta di prova del nove artistica. “In tutto
ciò che ho scritto – dice infatti Kenaz - c'è un nucleo autobiografico.
Non posso pensare d'iniziare senza questo nucleo da tenere in mano. Ma
l'arte non è solo questo. E' quel tessuto di avvenimenti e personaggi
che gli si costruisce intorno. E' questa la grande avventura della
letteratura”.
Viaggia su tutt'altri binari l'incontro con David Grossman.
A cominciare dalla sala, la più grande e lussuosa del Lingotto. Per
entrare è indispensabile il biglietto. E i biglietti sono andati a ruba
già di prima mattina. Ciò nonostante una coda chilometrica attende
comunque all'ingresso nella speranza di rimediare in extremis un posto
per ascoltare lo scrittore che vent'anni fa, con Vedi alla voce amore,
fece scoprire all'Italia la letteratura israeliana. Esce il Nobel Orhan
Pamuk, entra David Grossman. Lo accoglie un applauso scrosciante, da
rockstar più che da raffinato autore. Lui sorride affabile, ringrazia.
Ma non cede alle civetterie da divo e per un'ora abbondante,
intervistato da Giovanna Zucconi, zooma su un panorama di vita,
letteratura e politica di respiro ampissimo. A partire dal suo ultimo
libro A un cerbiatto somiglia il mio amore (Mondadori), da mesi ai primi posti nelle classifiche dei best seller italiani, per approdare alla pace in Medio oriente. “In
Italia – dice – la gente si è mostrata ben disposta a esporsi a questo
libro su un piano emotivo. All'inizio ero convinto che questo lavoro,
che parla di Israele, dei suoi dilemmi e delle tensioni della sua vita,
poteva interessare solo chi vive lì. Ma quando è stato pubblicato
all'estero moltissimi lettori mi hanno detto che affronta invece temi
universali: le paure, il modo di allevare i figli, i rapporti tra
fratelli”. Grossman non nomina mai il figlio Uri, caduto sul fronte
libanese nel 2006. Ma la sua presenza è palpabile in ciascuna delle
parole che descrivono il libro, scritto dopo la sua morte. Poi il
discorso si sposta sulla scrittura (“il grande piacere dello scrivere è
lo sforzo di comprendere gli altri, di vedere il mondo come loro lo
vedono”) sui media (“siamo vittime di un linguaggio che manipola le
persone e sminuisce la loro unicità. Tanti oggi sono attenti alla
pulizia dell'ambiente o degli alimenti: perché non dovremmo prestare
altrettanta attenzione alla purezza del linguaggio?) per concludere con
la politica. Da Obama (“per la prima volta dopo molti anni ha parlato
agli americani come a degli adulti: senza manipolarli o illuderli”)
alle prospettive di pace. “Spero che Obama imponga a Nethanyahu la
soluzione dei due stati. Voglio credere che il nostro primo ministro in
fondo sta aspettando proprio che qualcuno lo costringa. Tutti noi
sappiamo che la soluzione può arrivare solo da questa formula.
Altrimenti tra poco entreremo in un ennesimo ciclo di violenza e
sangue. E al termine ci ritroveremo al punto in cui siamo ora”. Sono
di nuovo applausi entusiasti. L'incontro si chiude e si apre uno dei
rituali che alla Fiera del libro coinvolgono tutti gli autori,
dall'esordiente alla star: la firma degli autografi. Superfluo
sottolineare che la calca per David Grossman è numerosa ed entusiasta.
La security ha ormai i nervi a pezzi. Un'addetta della casa editrice
raccoglie i nomi per le dediche e lo scrittore firma una mole
impressionante di volumi. Senza dimenticare un sorriso gentile, una
parola e una stretta di mano per tutti.
Daniela Gross |
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“Vi racconto la gratitudine degli ebrei di Libia. Ecco perché vogliamo aiutare chi soffre”
Qualche
mese fa, un aereo della sua compagnia che volava verso il Medio Oriente
per portare il controvalore di centinaia di migliaia di euro in
medicinali ai bambini di Sderot e di Gaza, aveva suscitato un'alzata di
scudi da parte di chi non riusciva a comprendere il suo gesto. Ma per Walter Arbib
non ci sono conflitti di interesse quando si tratta di aiutare gli
altri. Ora si parla di nuovo di lui per gli aiuti che sta inviando alle
popolazioni terremotate dell'Abruzzo. “Questo progetto è un’occasione
speciale di esprimere la mia gratitudine per l'aiuto che
l'Italia ha offerto a me e alla Comunità ebraica tripolina quando
la Libia ha espulso gli ebrei dal Paese nel 1967» osserva Arbib, che
quando fu costretto a lasciare il suo paese assieme a moltissimi altri
ebrei aveva 26 anni. «Abbiamo due possibilità nella vita, una è
affrontare la realtà, l' altra è distogliere gli occhi», aveva
dichiarato qualche mese fa in un'intervista rilasciata al Portale dell'ebraismo italiano.
E lui gli occhi non li ha distolti mai, perché dell'aiuto agli altri ha
fatto la sua filosofia di vita. Walter Arbib, 67 anni di origini
tripoline, è l'amministratore delegato di Skylink Air and Logistics,
una società canadese con un fatturato di 330 milioni di dollari che
collabora per conto di numerosi governi a missioni di aiuto in zone di
emergenza in tutto il mondo. La sua flotta, oltre ai jet e agli
elicotteri, vanta anche un enorme Antonov 124 capace di trasporti
da 120 tonnellate e un'addestrata squadra di “good guys” i “bravi
ragazzi”, operatori pronti a partire a qualsiasi ora del giorno e della
notte. Il 5 giugno 1967, Arbib stava guidando la sua auto quando
ascoltò alla radio che era scoppiata la Guerra dei Sei giorni e
improvvisamente la sua vita cambiò. Con il pretesto del conflitto gli
ebrei tripolini furono assediati nelle loro case. Al ricordo dei
pogrom, delle case bruciate, dei beni confiscati, si associa quello
dell'accoglienza che l'Italia offrì a centinaia di famiglie ebraiche
che vivevano a Tripoli e, fra queste, alla famiglia di Walter. “Io
mi auguro che quelli della nostra età tramandino ai propri figli il
senso della gratitudine per questo Paese. Quello che l'Italia ha fatto
per noi non è una cosa scontata” osserva Arbib “Ricordo l'arrivo,
e l'accoglienza. Non dobbiamo dimenticare mai che molti profughi
ebrei hanno potuto ricostruirsi una vita grazie all'aiuto italiano”. La
permanenza di Arbib a Roma, durò poco tempo, si trasferì in Israele e
nel 1988 in Canada dove fondò la SkyLink, ma una parte del suo
cuore è rimasta qui in Italia “Mi considero equamente italiano, ebreo e
canadese” dichiara con un senso di orgoglio “Quando ho sentito del
terremoto in Abruzzo ho pensato che avevo finalmente l'occasione di
fare qualche cosa, a nome degli ebrei tripolini, per questo Paese che
nel '67 ci aveva accolto, ma che sarebbe stato anche un modo per
esprimere la gratitudine agli abitanti di Fossa per gli aiuti dati ad
alcune famiglie ebraiche durante la persecuzione nazista”. Da
esperto del settore, Arbib, esprime anche il suo apprezzamento per il
modo in cui il Governo italiano ha gestito l'emergenza terremoto:
“Penso che in questa occasione Berlusconi e Bertolaso e tutto il
governo abbiano dimostrato grande efficienza”, osserva Arbib e aggiunge
“Far conoscere il cuore degli italiani è un altro dei miei scopi,
qualche tempo fa ho organizzato qui in Canada con la collaborazione
della Comunità italocanadese una serata in onore di Giorgio Perlasca,
perché mi sembrava giusto far conoscere ai canadesi un uomo eccezionale
che ha donato la sua vita per salvarne delle altre.” Walter Arbib
si definisce un israeliano-italiano-canadese. Ma osservandolo da vicino
ci si rende conto che probabilmente è qualcosa di più. Un ebreo che è
voluto diventare cittadino del mondo.
Lucilla Efrati
Nell'immagine
in alto uno fra i tanti colli di aiuti umanitari destinati ai
terremotati d'Abruzzo. Queste scatole portano i simboli dell'Abruzzo
Earthquake Relief Found, della Comunità ebraica di Roma e del Congresso
ebraico canadese. "Un contributo concreto e allo stesso tempo un gesto simbolico", afferma il presidente della SkyLink Walter Arbib, "per dimostrare
la riconoscenza all'Italia di noi ebrei di Libia che siamo stati
accolti al momento dell'esilio". Il messaggio da parte della Comunità
ebraica di Roma posto sulle confezioni destinate all'Abruzzo richiama
invece il coraggio dimostrato dalla popolazione Abruzzese nel trarre in
salvo alcuni perseguitati durante l'ultima guerra: "Al popolo
d'Abruzzo, con affetto e stima ed eternamente grati per il coraggio
dimostrato nei momenti tragici e bui dell'ultima guerra". |
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rassegna stampa |
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L’“outing” degli ebrei: Un giornale per riaprire il dialogo Firme prestigiose, interviste e un inedito di Primo Levi 100mila copie Il giornale sarà distribuito in tutta Italia
ROMA
- Che si tratti di numero unico o di numero zero, e il dilemma non è
del tutto risolto, per adesso sono centomila copie con l’obiettivo
dell’otto per mille. L’Unione delle comunità ebraiche italiane ha
deciso di raccontarsi così, con un tabloid full color di 48 pagine
appena uscito e distribuito in questi giorni alla Fiera del libro di
Torino (non chiamatelo giornale, il presidente Gattegna non gradirebbe,
piuttosto dossier), destinato ad aprire il dialogo col mondo “esterno”. Volete
sapere chi siamo, quale storia millenaria ci portiamo dietro, ma anche
magari come procedono i restauri della sinagoga di Pisa, quali festival
ebraici si organizzano in giro per l’Italia, dal cinema, alla
letteratura, alla musica klezmer, com’è andata che dopo aver
desalinizzato l’acqua del Mar Rosso un’innovativa azienda hi-tech
israeliana è poi riuscita a vendere ad Austria e Svizzera cannoni
sparaneve realizzati nel deserto. Ci sono notizie, commenti, storie,
personaggi, un testo inedito di Primo Levi sul ruolo dell’immagine
nell’elaborazione del ricordo, un’intervista al direttore
dell’Osservatore Romano Giovanni Maria Vian che dice «Non fratelli
maggiori, fratelli e basta. Un cristiano non può essere estraneo
all’ebraismo». Prove di dialogo, dunque, e cambio di prospettiva
in vista della scadenza della dichiarazione dei redditi. «Abbiamo
deciso di stampare questo dossier destinato agli opinion leaders
italiani, ma anche a chiunque voglia saperne di più - spiega Renzo Gattegna,
presidente dell’Ucei, l’Unione delle comunità ebraiche italiane - per
tentare una strada nuova. Basta con le paginate di pubblicità per
chiedere agli italiani una firma per l’otto per mille, quest’anno
saremo l’unica confessione ad evitare gli spot televisivi, peraltro
carissimi. Questi soldi che lo Stato ci attribuisce servono per opere
sociali, culturali, assistenziali e ci è sembrato contraddittorio
usarli per promuovere noi stessi. Meglio allora provare a raccontare
all’Italia chi sono gli ebrei italiani, da venti secoli parte
essenziale della vita civile, sociale e culturale, ma spesso incompresi
per pregiudizi e luoghi comuni. Che poi questa pubblicazione possa
costituire lo spunto per lanciare in autunno il giornale nazionale
dell’ebraismo italiano che stiamo progettando, perché no?». E allora che queste Pagine ebraiche (uscite come supplemento della Rassegna mensile di Israel e realizzate dal portale www.moked.it,
in italiano “messa a fuoco”) servano o meno ad innalzare la quota dei
3,7 milioni di euro ottenuti l’anno scorso con l’otto per mille,
provenienti sia dai 35mila ebrei italiani che da “simpatizzanti”,
l’importante è farsi conoscere. Puntando su temi diversi rispetto alla
Shoah e al conflitto arabo-israeliano. «Ci saranno firme qualificate -
aggiunge Guido Vitale,
direttore responsabile del portale Moked, da cui derivano queste
Pagine, nonché coordinatore del Dipartimento cultura e informazione
dell’Ucei - che hanno fornito il proprio contributo gratuitamente, dal
rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni alla storica Anna Foa, dal professor Sergio Della Pergola alla scrittrice Elena Loewenthal, e ancora Giorgio Israel, Ugo Volli, Vittorio Dan Segre. Da segnalare i disegni di Paolo Bacilieri e Giorgio Albertini, un racconto dello scrittore Alessandro Schwed,
autore del libro “La scomparsa di Israele”, un ritratto di Jonathan
Pietra, italiano campione della Nazionale di karate israeliana, che si
è trovato a fronteggiare discriminazioni e pregiudizi oltre che
avversari sportivi». Molti gli argomenti rivolti ai giovani, come ad
esempio i siti di social networking stiano cambiando anche il mondo
ebraico o l’intervista a Idan Raichel, il Peter Gabriel israeliano. Ma
c’è spazio anche per temi più delicati, come un servizio intitolato “Un
modello di outsourcing che avvicina arabi ed ebrei” su una società di
software che costruisce il suo processo di pace assumendo arabi
israeliani. L’otto per mille, come ricorda l’Ucei, è cultura, memoria,
solidarietà.
Francesca Nunberg, Il Messaggero, 16 maggio 2009
Giornali verso il Medio Oriente, di Cinzia Leone, Il Riformista
Gli ebrei si raccontano, L'Osservatore Romano
Immagini e pensieri dal Lingotto, www.torino.republicca.it |
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notizieflash |
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La
vigilia dell'incontro tra Obama e Netanyahu
e le dichiarazioni di John Kerry Roma, 17 mag - "Noi
sosteniamo Israele. Ma la realtà sul campo deve cambiare: a noi sembra
molto chiaro che gli insediamenti israeliani vanno congelati. Il
presidente Obama sarà fermo su questo", così il presidente della
commissione Esteri del Senato americano John Kerry spiega la politica
degli Stati Uniti su Israele. E sottolinea: “Gerusalemme, diritto al
ritorno dei profughi palestinesi, frontiere: tutto deve essere sul
tavolo del negoziato". Kerry si augura che l'incontro tra Obama e
Netanyahu sia produttivo e ribadisce: “La nostra posizione è chiara:
vogliamo la soluzione dei due Stati. Crediamo che i palestinesi abbiano
diritto a uno Stato, se non otterremo in fretta dei risultati, il
futuro politico della regione sarà molto difficile”. Sull'Iran e il
pericolo Ahmadinejad afferma: “L'Iran ci deve ascoltare: il nostro
obiettivo non è un cambio di regime a Teheran. Noi stiamo cercando di
creare un nuovo sistema di sicurezza in Medio Oriente e gli iraniani
sono parte di questo sforzo".
Netanyahu, la proposta dei due Stati e l'incontro con il presidente Barack Obama Gerusalemme, 16 mag - Questa
sera è prevista la partenza del premier israeliano per Washington dove
lunedì incontrerà il presidente americano Barack Obama. Due membri del
Likud (partito del premier) affermano: “Benjamin Netanyahu dirà al
presidente Obama di essere contrario alla creazione di uno stato
palestinese”. Il deputato Ophir Akunis ne spiega le ragioni: “Il
premier a Washington non si impegnerà a favore della creazione di uno
stato palestinese, che rischia di diventare un Hamastan” e Israel Katz,
ministro dei Trasporti aggiunge: "Netanyahu si opporrà alla creazione
di uno Stato palestinese armato e confinante con Israele, perché uno
Stato del genere metterebbe in pericolo la sicurezza di Israele". |
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli
utenti che fossero interessati a partecipare alla sperimentazione
offrendo un proprio contributo, possono rivolgersi all'indirizzo desk@ucei.it per concordare le modalità di intervento.
Il servizio Notizieflash è realizzato dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
ricevuto questo messaggio perché avete trasmesso a Ucei
l'autorizzazione a comunicare con voi. Se non desiderate ricevere
ulteriori comunicazioni o se volete comunicare un nuovo indirizzo
e-mail, scrivete a: desk@ucei.it indicando nell'oggetto del messaggio “cancella” o “modifica”. |
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