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L'Unione informa |
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18 maggio 2009 - 24 Yiar 5769 |
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alef/tav |
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Riccardo
Di Segni, rabbino capo di Roma |
Oggi
a Gerusalemme si inaugura una "piazza Roma". Evento inconsueto e di
grande valore simbolico. Per quanto Roma oggi sia tutt'altro,
nell'immaginario collettivo ebraico è la potenza che distrusse
Gerusalemme e la nostra indipendenza. E allora perchè una piazza in suo
onore? Forse perchè arriva sempre il momento in cui le storie si
invertono e, come dicono i nostri Maestri (Bechaye a Lev.11), "proprio
lei che distrusse, lei ricostruirà". |
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Il 5 aprile scorso, Giuliano Amato aveva invitato dalle pagine de Il Sole 24 ore gli intellettuali islamici a prendere posizione sulla legge afgana contro i diritti delle donne. Ieri, Amato scrive, sempre su Il Sole,
di avere avuto una risposta di netta condanna della legge afgana da
parte di un prestigioso intellettuale islamico, Abu Zayd. Zayd è
docente a Leiden e Utrecht ed è oggi il più importante studioso di
esegesi coranica. Un'esegesi non apprezzata dai fondamentalisti
egiziani, che lo hanno accusato di apostasia e obbligato a lasciare
l'Università del Cairo e a trasferirsi in Olanda. I lettori italiani lo
conoscono per i suoi libri tradotti in italiano, fra cui il bellissimo Una vita con l'Islam,
pubblicato anni fa da Il Mulino. Chi non ha risposto invece è Tariq
Ramadan, nonostante le sollecitazioni di Amato. Tariq Ramadan, di cui
oggi Pierluigi Battista denuncia su Il Corriere
le doppiezza, viene considerato da una parte importante della sinistra
europea un maitre à penser. Ma chi ha questo ruolo non può sottrarsi a
domande di questo tipo, che non partono soltanto da Amato, ma che
vengono da più lontano: dalle bambine sgozzate in Algeria perché
andavano a scuola, alle donne impiccate in Iran, lapidate in altre
parti del mondo islamico. Da Sitara Achakzai, assassinata meno di un
mese fa dai fondamentalisti a Kandahar. Zayd, perseguitato e in esilio,
ha preso posizione. Vorremmo che la prendesse anche Ramadan, che
perseguitato certo non è. |
Anna Foa,
storica |
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Torino e i libri – Georges Bensoussan: “La memoria distorta minaccia Israele”
Lo
Stato di Israele è davvero nato per compensare il popolo ebraico della
tragedia della Shoah? E’ vero che lo Stato ebraico deve la sua
creazione alla compassione del mondo occidentale per il genocidio dei
sei milioni? E’ vero che il mondo arabo era era senza responsabilità
rispetto al genocidio? A queste domande provocatorie risponde uno dei
grandi protagonisti, in questi giorni a Torino, della Fiera del libro e
delle altre manifestazioni culturali che attorno alla Fiera prendono
vita, lo storico francese Georges Bensoussan. Protagonista alla Fiera,
Bensoussan si è dimostrato tale anche negli appuntamenti culturali
esterni, come la presentazione in anteprima del suo libro che uscirà in
autunno Lo Stato d' Israele, il sionismo e lo sterminio degli ebrei d'Europa (Utet editore) al Museo della Resistenza di Torino. Lo storico francese (è autore anche di Genocidio. Una passione europea, Marsilio editori, Il sionismo. Una storia politica e intellettuale 1860-1940 e L'eredità di Auschwitz. Come ricordare?,
Einaudi) ci ammonisce dal sottovalutare la diffusione e la gravità di
questo pregiudizio, secondo cui Israele sarebbe una sorta di
risarcimento al popolo ebraico da parte degli Alleati, afflitti dal
senso di colpa per non aver impedito la Shoah. In questo modo, infatti,
si scredita il valore storico del sionismo, movimento a cui spetta di
diritto il riconoscimento per l'impegno della creazione dello
Stato d’Israele. Inoltre, fa notare Bensoussan, perché non fu scelto
l’Uganda, oppure uno stato dell’America latina o ancora il
Birobijan di Stalin? Perché "Israele è la terra che dava
abitazione agli ebrei anche se questi non vi vivevano materialmente".
Dal movimento Hibat Zion, amore per Sion, il riferimento a Eretz Israel
non è mai mancato. Anche per questo il libro che sarà pubblicato in
autunno dalla Utet si intitola Israele, nome eterno, a sottolineare il
rapporto millenario tra terra e popolo. Quale evento può
confermare la teoria del senso di colpa degli Stati europei? Non è
stata forse la Gran Bretagna ad astenersi nel 1947 dal votare per la
creazione dello Stato di Israele, fa notare lo storico. E sempre la
Gran Bretagna ha limitato l'immigrazione in Palestina, provocando la
morte di migliaia di ebrei nei campi di concentramento (gli Alleati
conoscevano i campi di concentramento già dal 1942). Bensoussan,
nato in Marocco, ma parigino già a sei anni, precisa con un certo
impeto che nemmeno il mondo arabo di allora può chiamarsi fuori dalla
responsabilità dell'antisemitismo. In Marocco Hitler veniva osannato,
addirittura definito un santo. La Shoah non è la causa della
nascita di Israele, ma al contrario fu una amara sconfitta per il
sionismo. Lo fu dal punto di vista morale, perché lo Yishuv non aveva
la possibilità di aiutare gli ebrei d'Europa. Lo fu
politicamente, perché non si è riusciti a convincere gli ebrei a
spostarsi in massa in Eretz Israel. Infine è una sconfitta demografica
perché la Shoah ha annientato sei milioni di ebrei, compromettendo
anche in seguito la stessa esistenza di Israele. Il punto
cruciale su cui insiste Bensoussan è che il genocidio ebraico non
è il motivo della creazione dello Stato, ma ne è diventato la memoria
collettiva. In altre parole il sionismo è stato sostituito dalla
"religione della Shoah", molti ebrei non conoscono più la Torah, non
frequentano la sinagoga e sono lontani dalla spiritualità millenaria
ebraica. Tutto questo è stato sostituito con una piena identificazione
nella Shoah. Ogni anno decine di migliaia di giovani israeliani partono
per il viaggio della memoria ad Auschwitz, ogni soldato visita Yad
Vashem; la tragedia oramai è diventata il più importante riferimento
identitario per ashkenaziti, sefarditi, israeliani di destra quanto di
sinistra. Sarah Kaminski, relatrice dell’incontro, ha sottolineato
la volontà di dare senso alle morte nei campi, senza toccare vittimismo
o eroismo, si esplicita in un episodio toccante come quello di Ilan
Ramon. L’astronauta israeliano, scomparso nel 2003 a causa
dell’esplosione dello shuttle Columbia, aveva deciso di portare con sé
nello spazio il disegno di un ragazzo del ghetto di Terezin, Petr Ginz,
intitolato Il pianeta visto dalla Luna. Bensoussan
racconta che nel suo viaggio in Israele è andato alla ricerca
dell'archivio del sionismo, situato in una via del centro di
Gerusalemme. Arrivato sul posto, non riuscendo a trovare l'edificio, ha
cominciato a chiedere indicazioni: né il tassista, né i passanti e
neppure il negozio di fronte sapevano dove fosse. Bensoussan con tono
ironico ha guardato il pubblico, domandandosi "e se avessi chiesto dove
fosse lo Yad Vashem, lo avrebbero saputo? Sono sicuro di sì". Per
concludere che se non vogliamo rischiare di delegittimarne l'esistenza
"la legittimità di Israele non è la Shoah, ma Israele stesso”. Daniel Reichel
Torino e i libri - Howard Jacobson e le nuove identità ebraiche
A
metà giornata nel caos della Fiera del libro di Torino si può godere di
una piacevole sosta al caffè letterario. L’atmosfera è quella di
un’informale chiacchierata con l’autore del libro presentato, Kalooki nights. Si tratta di un’interessante contaminazione britannica del tipico umorismo ebraico mitteleuropeo. Ospite nell'ambito dell'incontro Nuove identità ebraiche
è Howard Jacobson, scrittore, romanziere e umorista inglese, nato a
Manchester nel 1942. Conosciuto specialmente nei paesi anglofoni come
saggista, giornalista e conduttore televisivo, è particolarmente noto
per lo stile umoristico e la vena comica dei suoi romanzi, che hanno
spesso come soggetto storie di ebrei inglesi. Autore di dieci romanzi,
editorialista per il quotidiano The Independent. Kalooki Nights,
il suo primo libro tradotto in italiano (Cargo edizioni), è il romanzo
di formazione di un giovane ebreo senza peli sulla lingua. È stato tra
i favoriti al Man Booker Prize e ha vinto il premio Jewish Quarterly.
"Il kalooki, per chi non lo sapesse, è la variante del ramino
prediletta dagli ebrei in virtù del suo carattere intrinsecamente
argomentativo. Il modo teatrale in cui mia madre urlava ‘Kalooki!'
nel momento in cui poggiava le carte sul tavolo, per esempio, non si
poteva certo considerare un comportamento ortodosso. Ma, come dedussi
in seguito, il piacere stava proprio in quello: non tanto nel gioco in
sé, quanto nel continuo battibecco sul perché e come dovesse essere
giocato... ".
Manuel Disegni
Torino e i libri – Gilles Kepel Prove di dialogo fra Occidente e Islam
A
quasi otto anni di distanza dagli attacchi che segnarono la
dichiarazione di guerra del fondamentalismo islamico all’America,
Ground Zero appare ancora come un immenso cantiere a cielo aperto, un
brulicare senza sosta di gru, ruspe e operai indaffarati. Del faraonico
progetto di ricostruzione dell’area potrebbe non vedersi il risultato –
stando alle ultime indiscrezioni – per un altro intero decennio. Ma
l’era dello scontro frontale Bush-Bin Laden ha lasciato in eredità al
mondo un paesaggio ancor più desolante, sebbene su un altro piano: si
tratta del quadro dei rapporti fra l’Occidente ed il mondo musulmano. È
questo il tema centrale dell’ultimo lavoro dell’islamologo francese
Gilles Kepel, Oltre il terrore e il martirio
(Feltrinelli), presentato alla Fiera del Libro di Torino. Dopo quell’11
settembre – riassume lo studioso – il mondo intero è stato dominato,
per non dire fatto ostaggio, da due grandi discorsi pubblici impegnati
in una lotta mortale l’uno contro l’altro: da un lato la chiamata alle
armi lanciata da Al Qaeda per annientare il “Grande Satana” occidentale
tramite la jihad; dall’altro
l’altrettanto inflessibile guerra al terrorismo intrapresa
dall’amministrazione Bush per rispondere a tale minaccia. Ambedue
queste strategie, soprattutto sull’importantissimo piano della
comunicazione, sono andate incontro a un clamoroso fallimento, anche se
per ragioni diverse. Non ha certamente centrato l’obiettivo Al Qaeda,
nel suo tentativo di radicalizzare le masse musulmane sotto le insegne
del Profeta e tramite il ricorso programmatico alla violenza suicida, e
questo fiasco si è determinato con chiarezza nel momento in cui la jihad contro il nemico comune esterno ha lasciato spazio gradualmente – a cominciare naturalmente dall’Iraq – alla fitna,
cioè alla deleteria guerra intestina all’Islam. Ma ha perso la propria
battaglia volta anch’essa a conquistare “i cuori e le menti” delle
masse musulmane, oltre che di quelle occidentali, pure l’America di
Bush. Quella strategia politica e comunicativa che si proponeva di
diffondere il primato del diritto e l’istituto della democrazia in
tutto il Medio Oriente s’è arenata rumorosamente contro lo scoglio di
Guantanamo prima, e di Abu Ghraib poi, fino a ritorcersi contro
l’immagine della Casa Bianca agli occhi degli stessi elettori
americani. Chiusa l’era Bush e scomparso Bin Laden (se non
fisicamente, senza dubbio a livello politico e mediatico), il quadro
d’insieme risulta dunque quello di un “day after” disastroso. Come
riprendere allora, in questo contesto, i fili di un dialogo fra Islam e
Occidente quanto mai necessario in una fase tanto incerta
nell’evoluzione del sistema internazionale? La mente non può non
correre oggi all’impatto straordinario che anche in questa chiave
potrebbe esercitare il nuovo Presidente americano, sia con la storia di
positiva contaminazione culturale che è racchiusa nel suo nome e nel
suo volto, sia tramite la sfida ambiziosa rappresentata dal tentativo
di dialogo diretto intavolato con l’Iran. Quest’ultima tuttavia –
riconosce Kepel – è una scommessa difficilissima e ad alto rischio. La
vera molla per rilanciare la cooperazione fra il mondo islamico e
quello occidentale (con tutte le imperfezioni di queste due
definizioni) potrebbe arrivare invece – sempre secondo lo studioso –
dall’Europa: quel continente che ha vissuto sulla propria pelle negli
ultimi anni attentati micidiali, come quelli di Londra e Madrid, o
pericolosi segni d’instabilità sociale, come nel caso delle rivolte
nelle periferie delle città francesi, ma anche quell’insieme di società
in cui una maggioranza di milioni e milioni di musulmani risultano
ormai ben integrati. Proprio l’Europa, dunque, potrebbe proporsi come
laboratorio di dialogo interculturale. Resta da capire quanto
nell’analisi di Kepel pesi la riflessione razionale, e quanto invece un
pur lodevole ottimismo della volontà.
Simone Disegni |
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Franz Rosenzweig e la sua stella
Si
è aperto ieri a Parigi un grande congresso internazionale dedicato alla
filosofia di Franz Rosenzweig (1886-1929). Organizzato da numerose
istituzioni tra cui la Ecole Normale Supérieure, il Centro Rosenzweig di Gerusalemme, la Fondation pour la Mémoire de la Shoah, il congresso è intitolato Noi e gli altri
e si propone di delineare e discutere il nucleo teorico del pensiero di
Rosenzweig. Rimasta nell’oscurità per decenni, la sua grande opera, La stella della redenzione,
è stata riscoperta a partire dagli anni sessanta, grazie soprattutto a
Emmanuel Levinas. Oggi è considerata il pilastro della filosofia
ebraica del Novecento.
Rosenzweig crebbe in un ambiente
intellettuale aperto alla cultura dove però l’identità ebraica era
molto blanda. Fu addirittura sul punto di convertirsi al cristianesimo.
Ma decise di “restare ebreo” e da allora cominciò la sua teshuvah
che lo portò all’ortodossia e ispirò la sua riflessione. Al limite
della catastrofe Rosenzweig rivendicò l’universalità dell’ebraismo.
Redimere vuol dire riunificare D-o con la Sua Shekhinah
in esilio nel mondo. Il che è possibile adempiendo la Legge. Ma che
cosa significa questo adempimento? Perché l’ebreo adempie le infinite mitzvot?
Non per la ricompensa – né sulla terra, né in cielo. “Non
dire: non mi piace la carne di maiale; dì, io la gradirei, ma il
mio Padre nei cieli me l’ha proibita”. L’adempimento di un precetto
avvicina la redenzione. L’ebreo che adempie la Legge agisce
incondizionatamente e agisce come se il suo atto potesse essere
l’ultimo. Non si può sapere infatti se l’eternità non dipenda da
quell’atto. Ecco perché “nella più intima angustia del cuore ebraico
brilla la stella della redenzione”.
Donatella Di Cesare, filosofa |
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Oggi
è la giornata dell'importantissimo primo incontro ufficiale a
Washington fra Netanyahu e Obama (pochi gli echi sulla stampa, si
segnala una notizia sul Messaggero e una sul Tempo). Dominique Moisi sul quotidiano finanziario parigino Les Echos
si allinea alla numerosa compagnia di opinionisti che consiglia al
leader israeliano una resa alla volontà dell'alleato americano:
"Israele non può alienarsi tutti i suoi amici". Da leggere l'analisi
che dello stato dei rapporti fra i due paesi e delle modifiche della
posizione dell'ebraismo americano dà David Bidussa sul Secolo XIX. Da notare, in tema di Medio Oriente, che secondo La Stampa ci sarebbe stato al Cairo un accordo fra AP e Hamas sul tema cruciale dei controlli di sicurezza comuni da esercitare su Gaza.
Sui
giornali di oggi, oltre ai temi politici e di attualità, emergono
alcuni momenti importanti di dibattito culturale e ideologico. Per
esempio la spiritosa ma precisissima rubrica di Pierluigi Battista sul Corriere
dedicata all'incoerenza o piuttosto alla dissimulazione praticata dal
più importante teorico e propagandista islamico presente oggi in
Europa, Tariq Ramadan: ci sarebbe un Ramadan numero 1, quello che va
alla Fiera del libro e fa discorsi moderati e dialoganti al pubblico
occidentale e un Ramadan numero 2, che nel mondo islamico promuoverebbe
posizioni antifemminili, omofobe, oppressive ecc. E' utile leggere anche la rubrica delle lettere di Sergio Romano, sempre sul Corriere:
interrogato da due lettori sulle celebrazioni che si svolgono in questo
periodo di Padre Agostino Gemelli, antisemita e razzista dichiarato,
delatore del regime fascista, Romano spiega che dato che gli uomini
sono esseri fragili e incoerenti, un po' di antisemitismo non è grave,
se no non potremmo goderci le poesie di Eliot: inutile commentare il
facile cinismo di questo discorso. Interessante anche un articolo di Carlo Guidi sul Secolo XIX,
che riferisce di un'inchiesta del settimanale tedesco Der Spiegel sugli
altri popoli e governi che collaborarono "volonterosamente" coi
tedeschi nella Shoà. Questo certamente è vero di Ucraini, lettoni,
ungheresi e tanti altri, compresi i repubblichini di Salò, ma
naturalmente non attenua affatto le colpe della Germania. Bernardo
Valli, che pure nelle precedenti puntate del suo reportage dell'Iran
era stato particolarmente tenero col regime degli ayatollah, nel pezzo
di oggi su Repubblica testimonia che "su una cosa tutti i candidati delle elezioni presidenziali sono d'accordo: dal nucleare non si torna indietro".
Continua l'eco del viaggio del Papa. Sul Wall Street Journal
il rabbino Jackiel Eckstein, fondatore della International Fellowship
of Christian and Jews lo giudica "un successo". Rachel Donadio sullo Herald Tribune
ne dà invece un giudizio molto più severo: anche se ha evitato grossi
errori, il viaggio non ha avuto esiti positivi. Da leggere su Repubblica la testimonianza commossa di padre Enzo Bianchi, priore di Bose. Sulla stampa trova spazio anche il viaggio del sindaco di Roma Alemanno in Israele (E polis, D News). La pagina romana del Corriere parla della sua visita agli impianti dell'acquedotto di Tel Aviv, Susanna Novelli sul Tempo e Giovanna Vitale su Repubblica raccontano del ritiro del premio Dan David assegnato alla città di Roma già ai tempi del sindaco Veltroni.
Intanto prosegue il dibattito accanito sull'immigrazione clandestina. Rocco Buttiglione, in un'intervista al Messaggero
richiama il diritto all'asilo politico con il solito paragone con la
fuga ebraica dal nazismo (richiamato anche da Mario Pirani su Repubblica)
e prova a trovare una via di mediazione, proponendo di accordare ai
comandanti delle navi di guardia nel mediterraneo il potere di decidere
chi fra i clandestini sia in cerca di asilo politico e chi abbia altri
motivi per immigrare; ma non sembra una proposta molto facilmente
praticabile. Silvia Ballestra sull'Unità
ripropone un'idea espressa ieri da Furio Colombo, che fra dieci o
vent'anni ci sarà "un'altra giornata della memoria "per ricordare "le
leggi razziali del 2009". A me sembra che la polemica politica su
questo tema abbia superato un confine grave: bisogna ricordare a
Ballestra e Colombo alcuni fatti elementari, e cioè la Giornata della
memoria non ricorda affatto le leggi razziali ma la Shoà; le leggi
attuali possono essere ritenute ingiuste e sbagliate ma non sono certo
"razziali" nel senso diretto e corretto della parole; i respingimenti
in mare su cui si discute oggi non c'entrano nulla con queste leggi. E
bisogna chiedere un minimo di senso della proporzione e di rispetto per
la tragedia senza proporzioni che fu la Shoà. Le scelte del governo
italiano possono non piacere, questo governo può essere legittimamente
combattuto; ma questo non dà ad alcuno il diritto di appropriarsi della
Shoà e di banalizzarla per combattere delle leggi approvate dal nostro
Parlamento e assai simili a quelle in vigore in mezzo mondo.
Ugo Volli |
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notizieflash |
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Netanyahu
al vertice israelo-americano
Tel Aviv, 18 mag - "La
questione dell'Iran sarà al primo punto della sua agenda. Anche al
secondo. E anche al terzo", così un analista al seguito del premier
israeliano Benjamin Netanyahu, negli Stati Uniti per un incontro con il
presidente americano Barack Obama, ha voluto chiarire gli argomenti
all'ordine del giorno dell'incontro. E' stato un giornale vicino
al Likud, Israel ha-Yom, a spiegarne più in dettaglio le ragioni, in un
articolo in prima pagina titolato L'Iran è come Amalecco,
un popolo antico che secondo la Bibbia incalzò gli ebrei dopo la fuga
dall'Egitto e che rappresenta nell'ebraismo una ricorrente incarnazione
del male. Intanto, secondo il quotidiano Maariv, Netanyahu avrebbe
definito la sua visita negli Stati Uniti come “la missione della mia
vita”. Ancora Israel ha-Yom tocca l'argomento “Stato palestinese”
ribadendone l'opposizione del premier. La soluzione, a suo parere, va
ricercata in un contesto regionale, ossia di conclusione del conflitto
fra Israele e il mondo arabo. Uzi Arad, un consigliere del premier, ha
detto al giornale che "per quanto concerne lo Stato palestinese è
possibile che fra Stati Uniti ed Israele emergeranno approcci diversi.
Penso comunque che sarà un approccio pratico a determinare i passi
futuri sul terreno e che l'incontro sarà positivo".
Israele, i negoziati di pace e le posizioni del presidente Tel Aviv, 17 mag - “Israele
è pronto a riprendere i negoziati di pace con i palestinesi e il mondo
arabo” così il presidente israeliano Shimon Peres è tornato ad
assicurare l'impegno per la pace del suo Paese, garantendo anche sulla
disponibilità del nuovo primo ministro, il leader della destra Benyamin
Netanyahu, impegnato nel vertice israelo-americano a Washington con
Barack Obama. Gli esponenti dell'Autorità nazionale palestinese non
sono d'accordo. Ashraf al-Ajami, ministro dell'attuale governo dell'Anp
e uomo vicino al presidente Abu Mazen (Mahmud Abbas), ha dichiarato che
"le nuove strategie" negoziali che Netanyahu sembra voler sottoporre a
Obama mirano in realtà a "uccidere il processo di pace", cambiando le
regole del gioco e allungandone i tempi. "Da parte nostra - ha
avvertito - non permetteremo di rimettere in discussione i principi del
negoziato e accetteremo solo di trattare sull'attuazione degli accordi
esistenti, con scadenze precise". Peres, a margine di un suo odierno
incontro con re Abdallah di Giordania, nel quadro di un forum in corso
sulla sponda giordana del Mar Morto, dal canto suo ha ricordato ai
giornalisti israeliani come "il primo ministro abbia già detto di voler
attuare gli impegni assunti dai precedenti governi" e "accettare la
Road Map": l'itinerario per la pace tracciato dai mediatori
internazionali che implica in fondo al percorso la soluzione dei due
Stati. |
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L'Unione
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