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    20 maggio 2009 - 26 Yiar 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  Alfonso Arbib Alfonso
Arbib,

rabbino capo
di Milano
Il Pirké Avòt si conclude con l'affermazione di Ben He He che dice che la ricompensa è in rapporto alla fatica. Questa affermazione è in contro-tendenza rispetto ai messaggi che riceviamo nel mondo in cui viviamo. Ciò che conta non è impegno e fatica ma i risultati raggiunti possibilmente senza fatica. Ben He He invece indica quello che è sempre stata la strada della Torà che è indicata in un altro passo di Avòt, cioè "studiare, insegnare, osservare e fare". Ciò che è importante in questa strada non è tanto il risultato quanto il percorso. Il risultato non è fondamentale perché, per quanti sforzi facciamo, rimaniamo comunque a metà strada. L'efficacia del percorso invece è garantita da alcune migliaia di anni e di esperienza.
Enrico VIII si convinse che per divorziare da Caterina d'Aragona e dalla Chiesa cattolica avesse bisogno della legittimazione della Halachà, commissionò così un imponente Talmud Babilonese a una tipografia di Venezia e inviò le sue spie fra gli ebrei di Roma ottenendo preziose informazioni sulle complesse pratiche dell'yibbum e della halizà. Quel Talmud oggi è il fiore all'occhiello della collezione di libri antichi ebraici Valmadonna mentre i resoconti delle spie su cosa avveniva a Roma vengono discussi nelle derashot delle sinagoghe di Manhattan. Ma sul diritto di Enrico VIII di divorziare dall'ex moglie del fratello deceduto, in base alla halachà, si continua a discutere perché, come dice Rav Meir Solovetchik, "lo scopo del matrimonio è anzitutto la prole e ll mantenimento della tradizione e non l'appagamento sessuale" che spingeva il re a volere Anna Bolena.
Maurizio
Molinari, giornalista
Maurizio Molinari  
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  logo fieraTorino e i libri: Ilan Pappè e Carlo Levi
Storici controversi e figure luminose

Passeggiare fra i padiglioni affollati della Fiera del Libro di Torino, dedicata quest'anno all'Egitto, è stata un'esperienza entusiasmante: migliaia di libri accatastati negli stand, 1400 espositori, la gente che si affolla per
curiosare, sfogliare, comprare volumi ed anche per incontrare da vicino autori e politici intervenuti. L'odore della carta ha un fascino irresistibile.
Fra le centinaia di incontri che si sono svolti, a ritmo serrato, nelle numerose sale appositamente predisposte ne segnaliamo due, uno con lo storico israeliano Ilan Pappè che sostiene la tesi di un processo di vera e propria pulizia etnica dei palestinesi pianificato a tavolino dalla leadership ebraica a partire dagli anni '30 del secolo scorso, e il secondo cui ha partecipato David Bidussa, sulla figura di Carlo Levi.
 
Tre esperti e un interrogativo a cui rispondere: cosa significa dire fare storia sulla Palestina? Nella sala blu della Fiera internazionale del libro la giornalista Paola Caridi  corrispondente dal Cairo dal 2001 al 2003  e attualmente corrispondente da Gerusalemme, Kalhed Fuad Allam professore di sociologia del mondo musulmano e di storia e istituzioni dei paesi islamici all'Università di Trieste e islamistica all'Università di Urbino e Ilan Pappè discusso storico israeliano per le sue tesi estreme sulla Storia dello Stato di Israele, già professore a Haifa, e attualmente professore di storia all'Università di Exter in Inghilterra, hanno cercato di approfondire le ragioni che sono alla base del conflitto mediorientale traendo spunto dall'ultimo libro dello storico Pappè dal titolo piuttosto provocatorio: La pulizia etnica della Palestina.
E' possibile interpretare la storia secondo parametri che si usano per altri contesti sociali ed applicarli al medioriente? Domanda Paola Caridi.
 "Gli israeliani e i palestinesi ritengono di far parte di una realtà unica che non esiste in alcuna altra parte del mondo, risponde Pappè, e proprio uno dei miei obiettivi è convincerli che non esiste una situazione unica, ma che questa realtà è simile a molte altre e quindi risolvibile.
E' più difficile far capite tutto questo agli israeliani piuttosto che ai palestinesi, è difficile far capire loro che non sono stati gli unici ad andare su una terra e a impossessarsene, dicendo che quella terra non era di nessuno, che non sono stati gli unici a dover lasciare il proprio paese d'origine per un paese straniero.
Nel 1948 gli ebrei erano un terzo della popolazione in Palestina e ritenevano che solo uno Stato interamente ebraico avrebbe garantito loro la sicurezza e hanno utilizzato la forza per affermare il loro volere. L'utilizzo della forza, dice Pappè,  si chiama pulizia etnica".
Secondo Kalhed Fuad Allam questa è una tesi molto forte che rimanda a passaggi storici drammatici, fra la fine dell' 800 e  e gli inizi del 900 c'è qualcosa che cambia nella mentalità generale, si disgregano due grandi imperi. In Europa, alla fine della Prima Guerra Mondiale, muore l'impero austroungarico  e muore nel 1924 l'impero ottomano è lì che avviene quella che Allam definisce "un'insostenibile leggerezza della storia" perché i politici non si rendono conto di quello che sta avvenendo.
Si definiscono delle legittimità inesistenti negli Imperi smembrati . Sia nella parte araba che in quella ebraica nessuno ha voglia di diventare minoranza dell'altra e questo crea il conflitto. Da qui si sviluppa un concetto di "ebraicità" della terra e di "arabicità" della terra. Qual'è la dinamica? E' il nazionalismo, tutti e due vogliono la sessa cosa .
E' d'accordo Paola Caridi, che si spinge oltre osservando che "i frutti avvelenati" della vicenda arabo-israeliana consistano nella rimozione di alcuni fatti storici non solo fra israeliani e palestinesi ma anche fra i palestinesi stessi: la vittoria di Hamas alle politiche del 2006 è stata rimossa da Fatah. Questo non è solo un fatto politico ma un fatto storico e, secondo la Caridi, quello che si fa dopo lo si fa senza tenere conto di ciò che è avvenuto.
"L'amnesia fa parte della creazione dell'identità nazionale, ha osservato Ilan Pappè che ha poi precisato, se siamo in grado di individuare bene ciò che è avvenuto nella storia passata allora siamo in grado di cambiare la storia presente".

Che cosa ha a che fare Antonio Ricci, il graffiante produttore televisivo di "Striscia la notizia " con lo scrittore e artista Carlo Levi? Nulla, verrebbe da rispondere a primo impatto se invece  non fosse che qualcosa ce l'hanno e cioè l'acquisto da parte di Ricci a un asta romana di Christie's, svoltasi poco meno di cinque anni fa, di un importante lotto di manoscritti, lettere, volumi e documenti appartenuti a Carlo Levi che ne testimoniano la grandissima gamma di interessi letterari artistici e politici. "Ho letto sui giornali l'allarmata notizia di queste carte di Carlo Levi messe all'asta. Si parlava soprattutto del pericolo di dispersione di questo prezioso materiale -ricorda Antonio Ricci - Ho deciso di non unirmi al coro di quelli che gridano al lupo al lupo e poi non fanno nulla e quindi in maniera del tutto anonima ho incaricato un antiquario di Torino che ha acquistato il fondo Carlo Levi per mio conto".
Il resto è storia conosciuta, Antonio Ricci ha donato il fondo alla città di Alassio con l'intento di arricchire la città di una ulteriore testimonianza di quanto l'artista fosse legato a questa città. L'assessorato alla Cultura della città di Alassio in collaborazione con l'Università di Genova, ha provveduto a riordinare e catalogare il fondo. Quello che ne deriva è il volume Carlo Levi ad Alassio: Inventario delle carte, curato da Luca Beltrami e presentato alla Fiera del Libro di Torino dallo stesso Ricci, da David Bidussa storico sociale delle idee presso la Fondazione Feltrinelli oltre che  autore di numerosi volumi  fra cui Dopo l'ultimo testimone uscito nelle librerie qualche mese fa e  Giovanni Tesio professore alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università “Amedeo Avogadro” di Vercelli e collaboratore di Tuttolibri e de La Stampa, con il coordinamento di  Alberto Beniscegli  professore ordinario presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Genova.
"Gli inventari di carte non sono quasi mai pezzi di storia di una persona, dice Bidussa, gli archivi sono come una macchia di seppia: ci sono dei punti con un segno molto labile e dei punti con un segno molto forte" riconoscendo come invece da questo carteggio appartenuto a Carlo Levi emergano degli aspetti preziosi e sconosciuti dell'artista: "Queste carte permettono di entrare nel laboratorio dell'artista, esiste una storia dei testi, i termini usati, le riflessioni che stanno al lato degli scritti e delle opere che ci consentono di comprendere una parte che è al di fuori delle scritture pubbliche. Per questo è importante che ci sia un archivio." conclude Bidussa sottolineando come nei tempi della multimedialità una parte fondamentale della personalità di ciascun artista andrà perduta  perché non ci saranno più archivi di lettere, appunti, manoscritti, ma solo dei file con la versione definitiva delle opere degli scrittori.
L'importanza di questa "parte privata" di Carlo Levi che emerge soprattutto dalle lettere inviate a Linuccia Saba compagna dell'artista cui era legata da un rapporto difficile ma profondissimo, viene messo in risalto da Giovanni Tesio che esprime il suo senso di orgoglio per aver aver avuto il privilegio di poter visionare le carte prima che venissero inventariate e che attraverso la lettura di alcuni passi di lettere inviate da Carlo a Linuccia esprime il profondo legame di questo "torinese di nascita, fiorentino di stanza" che vide nella città di Alassio il luogo del ritorno per eccellenza.

Lucilla Efrati
 
 
 
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  alfredo mordechai rabelloMoshé Chaim Luzzatto: il suo sentiero dei Giusti
è un percorso di una via migliore

Oggi, il 26 di Yiar, corrispondente al 41 giorno dell'Omer, è l'anniversario della morte di Rabbì Moshé Chaim Luzzatto, conosciuto anche con il suo acronimo Ramchal (Padova 1707- Akko 1747). Il suo capolavoro è considerato la Mesillat Jesharim o sentiero dei giusti, libro fondamentale della morale ebraica. Abbiamo una traduzione italiana curata da Massimo Giuliani e pubblicata dalle Edizioni Paoline (2000) a favore di "chiunque consideri la letteratura ebraica patrimonio dell'umanità".
Ramchal ci insegna che anche la morale deve essere studiata seriamente; ti pare di conoscere tutto a priori ma proprio qui è insito il pericolo: non basta dire "questo lo conosco" ma la morale deve essere studiata continuamente per essere parte integrale di noi stessi e per farci arrivare al proponimento di migliorarci dopo ogni volta che lo studiamo: "non ho preparato questa opera per insegnare agli uomini quello che non sapevano, ma per ricordare loro ciò che è ben conosciuto…onde non si trae giovamento da questo libro con una semplice lettura… ma il giovamento si trae dalla ripetizione e dalla perseveranza… e potrà così prestare attenzioneal suo dovere".
*Il libro è costruito secondo la Baraità di Rabbì Pinchas ben Yair (T.B. Avodà Zharà 20b) e ne è uno splendido commento:"La Torà conduce alla vigilanza, la vigilanza conduce alla sollecitudine, la sollecitudine conduce alla pulizia, la pulizia conduce alla separazione, la separazione conduce alla purezza, la purezza conduce alla pietà, la pietà conduce all'umiltà, l'umiltà conduce al timore del peccato, il timore del peccato conduce alla santità, la santità conduce alla ruach hakodesh (ispirazione divina) la ruach hakodesh conduce alla resurrezione dei morti"; il primo capitolo è volto a chiarire il dovere dell'uomo nel suo mondo, preparandolo a salire i gradini della moralità e dell'amore di D-o. Anche il lettore moderno sarà gratissimo al Luzzatto per questa sua profonda opera, un vero e proprio aiuto giornaliero per il percorso di una via migliore.

Alfredo Mordechai Rabello, giurista, Università Ebraica di Gerusalemme

 
 
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Ancora l’incontro alla Casa Bianca tra Barack Obama e Bibi Netanyahu al centro di tanti resoconti e di molte analisi sulle pagine dei quotidiani. L’immagine nettamente dominante è quella di un fallimento su tutti i fronti, di un disaccordo totale sui temi al centro del lungo colloquio (Repubblica, Il Messaggero, Liberazione, L’Unità, Il Manifesto, Avvenire  - dove Barbara Uglietti parla addirittura di “fattore umano” alla base dell’incomprensione tra due leaders così diversi). Anche dal panorama della stampa israeliana che è la bussola di molti articolisti (da Alberto Stabile su Repubblica a Umberto De Giovannangeli sull’Unità, da Eric Salerno sul Messaggero a Barbara Uglietti su Avvenire) emerge il racconto di posizioni lontane, di strade diverse, di occasioni perdute, e quindi traspare forte la preoccupazione per il futuro, il timore di una marginalizzazione di Israele nella considerazione americana: illuminante la vignetta di Haaretz che ritrae un Netanyahu rimandato al suo albergo in metropolitana. E indubbiamente non si può non cogliere la distanza sui tre temi dominanti del vertice. Sul futuro dei palestinesi Obama dice senza esitazioni e mezzi termini “Stato sovrano”, Netanyahu risponde “autogoverno”. Sugli insediamenti in Cisgiordania Obama dice “da bloccare”, Netanyahu vuole garantire il loro “naturale sviluppo”. Sul nucleare iraniano Obama non vuole vincoli rigidi di tempo per la trattativa, Nethanyahu chiede limiti cronologici di tre mesi. Come procedere se davvero la distanza è questa?
Forse è il caso di farsi domande più radicali. Dove pensa di poter andare il governo israeliano se continua a chiudere con decisione tutte le porte che gli si aprono davanti? Certo occorre guardare bene dove questi varchi conducono prima di oltrepassarli, ma rimanere chiuso in uno sgabuzzino senza uscite, sordo a tutti gli inviti e in dissonanza anche con l’unico vero forte alleato – gli Usa – a cosa può giovare? E, nello specifico, 
l’ “autogoverno” palestinese a cui guarda il premier non esiste già di fatto con l’Anp? Il termine in cui egli si rifugia non sa dunque di espediente diplomatico?
Considerazioni inevitabili. Eppure si può anche guardare all’incontro Obama – Netanyahu da altri punti di vista. E’ quello che fanno alcune interessanti analisi che è bene prendere in esame. Cominciamo col rovesciare l’immagine prevalente. Secondo John R. Bolton su Liberal è Obama a sbagliare completamente strategia. Con visione miope crede che risolvere dall’alto la questione israelo-palestinese costringendo Israele ad accettare lo Stato palestinese scioglierebbe come d’incanto tutti i nodi del Medio Oriente, mentre in realtà tutti gli altri intricatissimi viluppi dell’area rimarrebbero comunque intatti (l’Iran verso l’arma nucleare, l’Iraq destabilizzato, il terrorismo in Afghanistan e in Pakistan). Inviando George Mitchell e Hillary Clinton a fare pressione e a mettere fretta a Israele, il Presidente americano rivela implicitamente la sua reale posizione, ciò che nessuno negli Stati Uniti potrà mai dire e che rispetto alla situazione internazionale appare del tutto irrealistico: il vero problema sulla via della pace nella regione sarebbe proprio lo Stato ebraico. La critica di Bolton alla semplificazione forzata e parziale dell’intricata matassa mediorientale appare certo convincente, anche se è comprensibile che un politico che voglia concludere qualcosa di concreto cominci ad agire là dove ha più palpabili possibilità di avere forti influenze, cioè in questo caso da Israele.
C’è poi chi non si schiera, ma propone ugualmente un’interpretazione costruttiva del vertice di Washington. Monica Maggioni sul Tempo, negando ogni opposizione di fondo tra Obama e il premier israeliano, sottolinea il ruolo decisivo e insospettabile dell’ebreo Rahm Emanuel (capo dello staff del Presidente) quale ponte per future intese, che per ora sono impedite da opposizioni politiche contingenti come la via della trattativa con Teheran per gli Usa rispetto all’opzione militare contro le centrali nucleari iraniane per Israele. Certo Emanuel, durante la prima guerra del Golfo volontario in una base avanzata di Tzahal, non sarà mai avversario di Israele. Ma la linea politica nei confronti dell’Iran, coi rischi totali e col ruolo decisivo legati a quel Paese, può essere definita “contingente”?  Anche Vittorio Dan Segre (a firma R. A. Segre) sul Giornale (“Mezza vittoria per due”) sottolinea il ruolo diplomatico giocato dal colloquio tra i due leaders. Ognuno è rimasto fermo sulle sue posizioni ma ha ottenuto quello che voleva: Barack ha portato Bibi a confermarsi disponibile alla trattativa e a mostrare nonostante tutto fiducia nella strategia globale che il Presidente americano sta mettendo in piedi per il Medio Oriente; Bibi ha strappato a Barack il vago limite di sei mesi per sviluppare trattative serie e concrete contro il rischio della bomba iraniana. Bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto? Certo un modo per continuare a trattare e guardare al futuro, con gli occhi di Barack rivolti al rinnovo parziale del Congresso e quelli di Bibi puntati sulla traballante alleanza politica che per ora lo sostiene. In sintonia con l’analisi di Segre, Fulvio Scaglione su Avvenire vede una “partita diplomatica aperta” e ancora tutta da giocare, ricca di “novità da non sottovalutare”: a Washington, dove finalmente c’è un Presidente che si impegna davvero per raggiungere dei risultati; a Gerusalemme, dove oltre alle buone ragioni israeliane esistono i problemi irrisolti lasciati in eredità da due guerre non decisive (Libano 2006 e Gaza 2009); a Ramallah, dove i vertici Anp capiscono benissimo che non è certo nella divisione attuale tra Hamas e Fatah che può vedere la luce un pur imprescindibile Stato palestinese. Insomma, tutto resta aperto anche dopo questo incontro interlocutorio, in un’area in accelerata trasformazione che assegna all’Iran – anche per questo “corteggiato” dagli Usa – il nuovo ruolo di possibile stabilizzatore politico di Afghanistan e Pakistan. Sul “fattore Iran” insistono anche Giulio Ercolessi sul Secolo XIX e Janiki Cingoli su Europa, capaci di allargare in modo illuminante il quadro dell’analisi internazionale collegato ai colloqui portati avanti dal presidente americano. Sulla situazione israeliana ripiega invece ancora Anna Maria Cossiga su E-Polis. Netanyahu sarà capace di cambiare? – si chiede, convinta della necessità di nuove aperture. Capace di andare oltre l’esigenza politica del momento, riesce a spingersi in profondità, a guardare negli occhi “la paura israeliana di una nuova Shoah”, la palpabile inquietudine legata alla minaccia della bomba iraniana. E rinnova la domanda (e la speranza): potrà Israele superare la paura?
Ancora dal Medio Oriente. Frattini è in partenza per Teheran, dove consegnerà al suo omologo Ministro degli Esteri iraniano l’invito alla conferenza triestina del 25-27 giugno dedicata alle questioni afgana e pakistana (Il Riformista, Il Messaggero, Avvenire). Si aprono problemi di equilibrio internazionale per l’Italia, desiderosa di impegnarsi accanto a Obama nei confronti dell’Iran, ma preoccupata dalle eventuali reazioni del super-amico governo israeliano. Intanto Alemanno, dopo la visita in Israele e Palestina, propone Roma come sede di una fondazione interculturale dedicata alle questioni mediorientali e apre nel contempo una nuova ambasciata palestinese nella capitale (E-Polis, Metro-Roma, Corriere della Sera, Messaggero): propaganda in vista della elezioni, certo; ma anche, forse, concreta volontà di favorire incontri sul piano culturale.
E infine, su un altro argomento, va segnalato un inquietante pezzo di Ida Magli sul Giornale. Per la serie “pericolo Eurabia” (come lo chiama qualcuno) o “islamofobia” (come la chiama qualcun altro), la difesa a tutto campo dell’identità nazionale forte, che ora sarebbe in serio pericolo. Difesa da ogni rischio di influenza estranea: quella del Corano, ma anche quella dell’ “Antico Testamento” e dell’ebraismo portatore di una “mentalità tabuistica”. La ricetta per sventare tutto ciò? Fare molti figli! Non l’aveva già detto qualcuno?

David Sorani

 
 
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notizieflash    
 
 

Israele, secondo il Ministro israeliano Ayalon                                  
il nuovo missile iraniano dovrebbe preoccupare l'Europa

Tel Aviv, 20 mag -
In un'intervista radiofonica il viceministro degli Esteri israeliano, Dany Ayalon, commentando l'annuncio di un nuovo missile, a gittata medio-lunga testato dall'Iran, ha detto che questo non cambia nulla per Israele "sul piano strategico", ma "dovrebbe preoccupare" l'Europa. Ayalon, ha affermato inoltre che - in base alle sue informazioni - gli iraniani starebbero cercando di mettere a punto anche "un missile balistico di gittata pari a 10.000 chilometri", in grado potenzialmente di "colpire la costa est degli Usa". I test iraniani vengono in ogni modo interpretati dai portavoce governativi di Israele come una conferma del grado di pericolosità dei programmi nucleari di Teheran.

Tel Aviv, la stampa israeliana annuncia i primi dettagli 
del piano di pace americano per il Medioriente

Tel Aviv, 20 mag -
La stampa israeliana pubblica oggi i primi dettagli di un piano di pace, elaborato assieme a re Abdallah di Giordania e basato sull'iniziativa di pace saudita del 2002, che il Presidente americano Barak Obama presenterà al Cairo il prossimo 4 giugno. Il piano prevede la costituzione di uno Stato palestinese indipendente, democratico e smilitarizzato, dotato di continuità territoriale fra Cisgiordania e Gaza (grazie anche a modifiche di confine) e con Gerusalemme est per capitale. Nella Città vecchia di Gerusalemme - dove sono concentrati luoghi santi importanti alle tre religioni monoteistiche - sventolerebbe la bandiera delle Nazioni Unite. Da parte sua il mondo arabo procederebbe alla normalizzazione delle relazioni con Israele. Lo Stato ebraico aprirebbe prima 'uffici di interesse' e poi rappresentanze diplomatiche in ogni capitale araba e turisti israeliani avrebbero in quei Paesi piena libertà di movimento. Il piano prevede inoltre negoziati di pace paralleli anche fra Israele da un lato e Libano e Siria dall'altro. Ai profughi palestinesi verrebbe infine offerta la scelta se restare nei Paesi dove risiedono attualmente, ricevendone la cittadinanza, oppure rientrare nel nuovo stato palestinese.

 
 
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