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L'Unione informa
 
    22 maggio 2009 - 28 Yiar 5769  
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Moked - il portale dell´ebraismo italiano
alef/tav    
  Roberto Colombo Roberto
Colombo,

rabbino 
Parlando del momento in cui gli ebrei si accingevano a ricevere la Torà si legge nel Testo: “Stettero sotto il monte” (esodo 19,17). Rashì riporta il noto commento talmudico secondo il quale Dio pose il monte Sinai sopra il popolo e disse: “O accetterete la Torà o qui sarà la vostra tomba”. Il rebbe di Sadegora commentava: “Dio non costrinse Israele a ricevere la Torà; si limitò a una semplice constatazione. Chi ha un monte sopra di sé anche quando alza gli occhi al cielo vede solo terra. Un ebreo che non riesce più a vedere il cielo per mezzo della Torà, è destinato a scomparire”. 
L'appello lanciato da Elie Wiesel, da Claude Lanzmanm e da Bernard-Henry Lévy contro la candidatura a direttore generale dell'Unesco. dell'egiziano Farouk Hosny merita di essere ripreso e amplificato ovunque. L'Unesco è, come è noto, il ramo dell'ONU che si occupa dell'educazione, la scienza e la cultura. Dell'Unesco fanno parte i 192 paesi che fanno parte dell'ONU.  Nulla da stupirsi, quindi, che l'Unesco abbia preso in passato e continui tuttora a prendere posizioni molto discutibili nei confronti di Israele. Ma questo è ancora più grave. Farouk Hosny, ministro della Cultura egiziano, è personalmente un attivo antisemita, un personaggio che sostiene pubblicamente la sua volontà di bruciare i libri israeliani presenti nelle biblioteche egiziane (e subito dopo, si immagina, quelli ebraici). "Un incendiario, per riprendere le parole dell'appello, dei cuori e degli spiriti". Affidargli una carica così importante e prestigiosa equivarrebbe ad affidare a un piromane l'organizzazione della tutela delle foreste, ad un pedofilo la direzione di un asilo d'infanzia. Una simile candidatura, ci dice l'appello, sarebbe per l'Unesco una catastrofe, "una provocazione così manifestamente contraria ai propri ideali" che l'Organizzazione non riuscirebbe più a risollevarsi. Anna Foa,
storica
Anna Foa, storica  
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  logo fiera Torino e i libri - "pagine ebraiche",
la grande sfida di parlare alla gente


“Buongiorno signora! Prego prenda pure la sua copia!”.
“Che cos’è?”. “Si tratta di pagine ebraiche la nuova pubblicazione nazionale dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Fresco di stampa.”. “Ah ehm.. no mi scusi ma ho lasciato il gatto in forno e il pollo fuori di casa.. cioè volevo dire il pollo in forno e il gatto fuori di.. Insomma devo scappare”!
Succede davvero un po’ di tutto in questo grande esperimento antropologico che è la distribuzione a decine di migliaia di persone di un nuovo giornale. La sfida è sicuramente nobile: dare voce ad una minoranza che ha una certa visibilità mediatica, ma di cui si conosce senza dubbio troppo poco. Eppure è solo attraverso la conoscenza che si possono prevenire o combattere i germi dell’intolleranza. Le reazioni all’iniziativa, però, sono le più svariate. C’è il vecchietto che, entrato al Salone del Libro per assistere a qualche incontro letterario, s’imbatte in questo nuovo foglio, chiede, s’interessa, prende la sua copia e non se ne stacca più, dimenticandosi di andare a sentire quella conferenza in Sala Azzurra.
C’è l’espositore ben vestito che allunga il passo facendo elegantemente finta di non vedere quella lieve montagna di decine di migliaia di giornali, ma anche quello che sin dal primo giorno della Fiera non gira senza le sue pagine ebraiche sottobraccio insieme con i grandi quotidiani nazionali.
La distribuzione, a conti fatti, è certamente un successo: il punto dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane allestito all’ingresso del Lingotto è un passaggio obbligato per tutti e permette di regalare il giornale praticamente ad ogni singolo visitatore della Fiera, che giorno dopo giorno chiude i battenti a tarda ora invasa di Pagine.
Molti son ben disposti ad accettare il giornale, non fosse altro che perché è gratuito (ma che fatica spiegare che non si tratta né di Leggo né di Metro!). Ma non mancano neanche i diffidenti, quelli che proprio non ne vogliono sapere, e qui ogni scusa è valida. C’è chi in ottima fede si lamenta della quantità eccessiva di materiale con cui si esce regolarmente dalla Fiera, chi declina cortesemente e chi si dilegua temendo di avere a che fare con il solito scocciatore, chi infine si scusa dicendo di avere le mani troppo piene, salvo che abbassando lo sguardo le si vedono comodamente posate nelle tasche.
L’esempio più bello, invece, è forse quello di una professoressa di una delle migliaia di scolaresche in visita che, visto il giornale, chiede ad ognuno dei suoi alunni di prenderne una copia e li invita a portarla a scuola il giorno successivo per leggerlo e analizzarlo insieme. L’augurio migliore, per pagine ebraiche, arriva da quella classe.

Simone Disegni




copertinaMario Giacometti, marinaio italiano del dopoguerra
e l'immigrazione clandestina
in Eretz Israel 

“Nel dopoguerra, nel 1947, mi capitò di imbarcarmi su un vecchio bastimento che era stato acquistato dall’Haganà per portare i profughi dei campi di concentramento tedeschi nella terra di Sion. Si presentarono a bordo tre persone, ci spiegarono lo scopo del viaggio e ci raccomandarono di tenere il segreto su tutto: chi non voleva partire poteva rimanere a terra e avrebbe avuto una ricompensa. Io e il mio amico Carlino accettammo, perché allora era difficile trovare un imbarco.”
Inizia così il racconto di Mario Giacometti a Sorgente di Vita: una storia scritta con l’aiuto della figlia Daniela in un libro, “Rotta per la Palestina” edito da Mursia.
E’ la storia di due  viaggi dell’ “alyà beth”, l’immigrazione clandestina, da un punto di vista insolito: non quello degli ebrei sopravvissuti ai campi che cercavano di raggiungere Eretz Israel, nè quello degli organizzatori, come Ada Sereni, che raccontò quella vicenda in prima persona. E’ il punto di vista di un, allora giovane, marinaio italiano.

GiacomettiLo incontriamo al porto di Viareggio, spostandoci da un molo all’altro, tra yacht, motoscafi e pescherecci: il suo mondo di sempre, perché marinaio, e poi comandante, Giacometti (nell'immagine a fianco) lo è stato per tutta la vita. Oggi è uno scattante pensionato di ottantuno anni che snocciola i suoi ricordi con una colorita parlata viareggina, infarcita di termini marinari. “Mio padre era cuoco su navi mercantili: dopo le scuole elementari feci anche io il libretto di navigazione e mi imbarcai come mozzo, in piena guerra”. Spirito di avventura, incoscienza giovanile e bisogno di guadagnare negli anni difficili del dopoguerra lo trascinarono poi  nella missione della “alyà beth”. Naturalmente Giacometti ignorava che dalle coste italiane tra l’estate del ’45, fino alla proclamazione dello Stato d’Israele, il 14 maggio 1948, partirono tante navi cariche di ebrei scampati ai lager; non sapeva che la sua scelta l’avrebbe portato nel meccanismo di una efficiente organizzazione che riuscì a far partire circa 23.000 persone. Fu così che nel settembre del ’47 si imbarcò sul  “Giovanni Maria”.
“Era un viaggio diverso dal solito. Questa volta non si trasportava mercanzia varia ma persone. Io non  sapevo nulla dei campi di concentramento: solo tra i più anziani era trapelata qualche notizia”. Nel porto di La Spezia la nave fu trasformata: “costruimmo una cabina grandissima sopracoperta, per accogliere le donne, i bambini e creare una specie di infermeria. Nella stiva, a partire dal fondo, montammo dei tubi innocenti e reti metalliche. Così potevamo caricare circa 1200/1300 persone”. Sembra di vedere le scene del film “Exodus” e i particolari sono fedeli ai rari filmati dell’epoca. Partirono di notte dal porto di La Spezia: la prima tappa fu a  Bocca di Magra, per caricare i viveri. “Salirono a bordo 7 persone dell’Haganà, tra questi  il comandante, Amnon, e c’erano anche dei telegrafisti. Avevamo infatti una sala radio che faceva invidia a un transatlantico, si parlava fino in America”. “Amnon – ricorda Giacometti -  aveva circa 30 anni,  era un vero comandante di marina, un giovanotto alto con i capelli rasati, sul biondiccio, aveva un accento americano, ma parlava bene italiano. Una volta ci disse: qui siamo tutti pirati”.
Il “Giovanni Maria” navigò fino alla costa francese: a La Ciotat, di notte, per non essere scoperti,  salirono a bordo 1300 passeggeri. “Erano persone, oserei dire  miserabili, pieni di sacchi, borse, tante donne, vecchi, bambini. Il viaggio andò tranquillo, aiutato dal tempo e dalla nebbia. Parlare si parlava con le persone che venivano sopracoperta la sera, ma non ci dicevano molto, erano restie a raccontare”.
“Di notte arrivammo davanti a una piccola spiaggia con le dune, vicino a Tel Aviv, si vedevano solo le luci. Ci arenammo con la prua e sbarcammo le  persone: chi si buttava a mare, chi si trascinava con le corde lanciate da terra, donne e bambini venivano portati con i battelli. Mi ricordo i pianti, ricordo che piangevano tanto; erano arrivati a casa loro, dopo tutto quello che era successo”.
Il viaggio era finito: il “Giovanni Maria” ripartì subito verso l’Italia. Dopo molte disavventure ci fu un secondo viaggio: questa volta l’imbarco dei passeggeri fu sulla spiaggia corsa della Girolata. A poche miglia dalla Palestina furono intercettati da un cacciatorpediniere, curiosamente  avvolto da reti metalliche. “Gli ebrei cominciarono a tirare ogni ben di Dio, scatolame e tutto quello che capitava a tiro; tutto rimbalzava sulle reti e cadeva in mare. Ricordo che gli inglesi ridevano di questo, e sghignazzavano”. “Poi gli ebrei  spalmarono il ponte con olio e grasso” racconta compiaciuto Giacometti, “e col rollio gli inglesi che salivano a bordo prendevano bastonate dagli ebrei e venivano ributtati a mare dall’altra parte” . Sugli alberi della nave sventolavano tre bandiere bianche e azzurre con la stella di David: “fummo io e Carlino a metterle lassù: per ordine di Amnon facemmo in modo che non si riuscisse a levarle, tagliando tutte le corde e le scalette”. Ormai era finita: passeggeri e marinai furono presi in consegna dagli inglesi. Sbarcati nel porto di Haifa, radunati in capannoni, toccò loro una doccia e una visita medica. I sette marinai italiani, senza documenti, complici di un’attività illegale, correvano seri rischi.  “La paura era tanta: se scoprivano che eravamo cristiani, italiani, erano cinque anni di prigione in Inghilterra”. Finirono invece nei campi profughi sull’isola di Cipro. “Lì abbiamo vissuto due mesi: noi sette avevamo una tenda per conto nostro, ma poi  si viveva tutti insieme, si giocava a pallone, facevamo un po’ di ricreazione, ma il cibo non era buono, la solita brodaglia inglese. Noi eravamo dei privilegiati, gli ebrei stessi ci davano di più, si toglievano il pane di bocca, perché sapevano chi eravamo. Non avevamo possibilità di fuga, c’era una doppia rete di recinzione, garitte in ogni angolo, la notte era illuminata dai proiettori. Naturalmente gli ebrei erano riconoscenti, anche se secondo me non ce lo meritavamo, avevamo fatto quello che ci eravamo sentiti di fare. Ci hanno aiutato a passare da un campo all’altro, facendoci raggiungere prima la libertà”. Entrati in Palestina i sette italiani trascorsero  due mesi  in kibbutz, quasi una vacanza. Poi un bel giorno, continua Giacometti “arriva Amnon, e ci dice che è arrivato il momento di tornare a casa”. “Arrivato a casa mia madre mi rifilò uno schiaffo. Io non capii, e lei mi disse: sei un bel mascalzone, dove sei andato a finire tutti questi mesi!” ricorda oggi divertito l’ingloriosa fine dell’avventura. E poi con semplice schiettezza azzarda un bilancio: “naturalmente, stando a contatto con quelle persone ci siamo resi conto che era una cosa grande: non che davamo tanta importanza, ma era qualcosa di bello. A distanza di tutti questi anni, con tutto quello che sta ancora succedendo, penso che  rifarei senz’altro una cosa del genere, non mi tirerei indietro: però – conclude  Giacometti con il suo colore dialettale - penso anche che abbiamo contribuito a tutto questo ravoglio  che c’è nel mondo”.

Piera Di Segni


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  Rotschild Boulevard - "Wir sind allein",
dalla hit parade
alla polemica sull'uso della lingua tedesca


PolarkreisSaranno anche “solo canzonette”, ma la ultima hit europea Allein Allein rischia di trasformarsi in un caso politico in Israele. Il motivo della controversia? Il testo della canzone, del gruppo Polarkreis 18 (nell'immagine), contiene un verso in tedesco: “Wir sind allein, allein allein”, siamo soli, è il ritornello del pezzo, che per il resto è cantato in inglese e che viene trasmesso dalle radio israeliane.

I Polarkreis 18, basati a Dresda, sono una band di “pop sintetico”: il loro ultimo album The Colour of Snow, da cui è tratto il singolo Allein Allein, ha scalato le hit parade di alcune nazioni europee, incluse Svizzera, Danimarca, Belgio e Paesi Bassi, oltre alla stessa Germania. In Israele ha ora raggiunto l'ottava posizione della classifica nazionale. Il singolo di successo è stato trasmesso, tra le altre radio, anche da Galgalatz, l'emittente giovane dell'esercito, un punto di riferimento per il pubblico sotto i 30.

La faccenda non è piaciuta però al parlamentare conservatore Arieh Eldad, che ha chiesto a Galgalatz di togliere la hit dalla programmazione perché rischierebbe di offendere la memoria della Shoà: “Non esistono norme che proibiscono di trasmettere canzoni in tedesco, ma c'è un limite a ogni cosa”, ha detto Eldad, che fa capo al partito Unione Nazionale. Il quale però ha poi riconosciuto che si tratta tutto sommato di una bella canzone, il cui significato ben si adatta allo spirito israeliano: “Dovremmo tradurla in ebraico”.

Anna Momigliano


Wir sind allein
he's living in a universe
a heart away
inside of him there's no one else
just a heart away
the time will come to be blessed
a heart away
to celebrate his loneliness
wir sind allein
allein allein
allein allein
allein allein
allein allein
we look into faces
wait for a sign
wir sind allein
allein allein
allein allein
a prisoner behind the walls
a heart away
wants to lead his universe
just a heart away
the time has come for us to love
a heart away
to celebrate our loneliness
wir sind allein
allein allein
allein allein
We look into faces
wait for a sign
wir sind allein...
 
 
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Periodo di consultazioni e verifiche, quello che sta contrassegnando queste ultime settimane, precedenti il discorso che Obama terrà in Egitto, nei primi giorni di giugno, quando dovrà rivelare qualche carta, lanciandola sul tavolo da gioco, nel merito della sua futura politica per il Medio Oriente. Alcune indiscrezioni già si sono colte, per la verità, ma è difficile dire se corrispondano per davvero alle intenzioni che l’amministrazione statunitense esprimerà a chiara voce. A tale riguardo, la lettura che ne viene data da parte palestinese ci è offerta dall’intervento di Ali Rashid su il Manifesto di oggi. Al di là di congetture e ipotesi quel che pare invece di poter registrare da subito è una notevole sfasatura tra le iniziali aperture statunitensi nei confronti di tutti gli attori presenti sulla scena e gli effettivi spazi di mediazione. La diplomazia della mano aperta, insomma, sembrerebbe trovare all’atto concreto non troppi entusiasti sostenitori. È senz’altro presto per potere dire che cosa l’Amministrazione americana potrà concretamente fare. Al momento si registrano più che altro le prese di posizione dei singoli soggetti, si tratti degli Stati dell’area così come dei movimenti politici che sono parte del gioco medesimo. Così va quindi intesa l’affermazione di Netanyahu su «Gerusalemme unita e capitale d’Israele», richiamata da l’Unità e affrontata da Nadav Shragai, Ora Cohen e Mazal Mualem su Haaretz. Quel che prevale, ma è un fatto in sé prevedibile, è più che altro un atteggiamento che potremmo definire come “identitario”, laddove ognuno disegna i perimetri dei propri interessi, ribadendo quel che considera come inderogabile. Altro discorso sarà, poi, nell’eventualità di una trattativa, la concreta disponibilità nel fare qualche concessione. Al momento Obama si deve quindi confrontare con le dichiarazioni di principio. Sta di fatto che in questa vicenda l’ombra che sembra pesare più di altre è quella del nucleare iraniano (senz’altro per Israele, come ci ricorda Ofri Iani su Haaretz di oggi), sul quale Pierre Chiartiano descrive per Liberal, sia pure su un piano puramente teorico, ovvero ricorrendo ad un modello di simulazione d’attacco da parte israeliana, una ipotesi di scenario di guerra in divenire. Sempre su Liberal un’intervista di Etienne Pramotton all’ex generale Fabio Mini corrobora sul piano tecnico la natura e i modi dell’eventuale ricorso all’opzione militare contro l’Iran. Fantasie e ipotesi a parte, di mezzo ci sono le elezioni presidenziali a Teheran e la candidatura, per un secondo mandato, di Mahomud Ahmadinejad. Il 12 giugno il responso delle urne ci dirà chi avrà avuto il consenso dagli elettori. È però già da adesso certo che il leader conservatore (più opportuno sarebbe definirlo come esponente dell’area radicale dello spettro politico iraniano, essendo espressione di un blocco sociale ipernazionalista che coltiva le sue fortune caldeggiando posizioni di enfatica esaltazione della centralità iraniana nel quadro degli equilibri regionali mediorientali) con il recente lancio di un nuovo modello di missile, il Sejil 2, in grado di raggiungere Israele, parrebbe oramai essere in grado di riuscire a mettere una seria ipoteca sia sull’esito della tornata elettorale che, in prospettiva, sui rapporti internazionali. Nei giorni scorsi il ministro degli Esteri Frattini, come ci ricorda ancora l’Avvenire di oggi, non si era recato in visita nella Repubblica iraniana proprio per evitare insostenibili commistioni e manipolazioni da parte del regime islamista. Peraltro la logica dell’escalation è consustanziale al premier iraniano, che gioca la credibilità dinanzi al suo elettorato cercando di alzare la posta. Plausibile che una delle ragioni delle diverse sensibilità, che separano Netanyahu da Obama, sia la valutazione nel merito dell’effettiva pericolosità da attribuire ai bellicosi atteggiamenti di Ahmadinejad. Se ci sofferma sull’aspetto, che pure ha un suo fondamento, della ricerca di consenso interno - così come di una smarcatura dalla oligopolistica lobby energetica degli ayatollah -, lì si intenderà essenzialmente come un puntello rispetto alla sua altrimenti fragile candidatura, che pure può contare sulla debolezza di quel che resta dei riformisti, divisi al loro interno da insanabili contrasti. Se invece si vuole attribuire ad essi la natura di un vero e proprio disegno politico, volto a utilizzare le difficoltà del dopo-Bush per lanciare il progetto di un “nuovo Medio Oriente“ in salsa iraniana, allora il significato del quadro generale muta di indirizzo. A quest’ordine di riflessioni affianchiamo le considerazioni di Paul Salem su l’Espresso nel merito delle prossime elezioni legislative libanesi, previste per il 7 giugno. La possibilità di una secca vittoria di Hezbollah (corposamente presente in un cartello elettorale denominato «Alleanza dell’8 marzo») che, rammentiamo, insieme al Foglio, è prima di tutto un partito politico con un buon numero di consensi e, quindi, di voti, avrebbe conseguenze problematiche per i già precari equilibri interni al Paese dei cedri. Se oggi il «Partito di Dio» siede all’esecutivo con ben 11 titolari di dicasteri, rappresentando tutta la parte meridionale del Libano non meno che i quartieri musulmani di Beirut, il rischio, in prospettiva, è che la sua presenza diventi determinante in tutti gli assetti amministrativi di qui in avanti. Nel qual caso sarebbero gli stessi paesi arabi a isolare il Libano, condannandolo così ad un destino di precarietà politica e consegnandolo definitivamente all’asse siro-iraniano che, malgrado gli sforzi della diplomazia, è ben lungi dall’esserci sfilacciato, potendo contare sulla longa manus cinese e russa. Sul piano della cronaca, in questi giorni per la verità un po’ fiacca, i resoconti dei giornali registrano l’episodio della comparsa in giudizio, dinanzi ad un tribunale americano, di quattro imputati di terrorismo. L’accusa è quella di avere voluto far esplodere un centro ebraico, una sinagoga oltre ad avere in animo ulteriori eclatanti azioni. Ne parlano molti quotidiani tra i quali citiamo il Messaggero, l’Avvenire, Arturo Zampaglioni per la Repubblica, Nicola Scevola per il Riformista e Marco Valsania per il Sole 24 Ore.  L’evento di per sé non avrebbe nulla di clamoroso se non fosse per il fatto che i quattro apprendisti terroristi (per fortuna solo tali poiché, all’atto concreto, hanno fallito nei loro intenti) sono stati letteralmente beffati dal Federal Bureau of Investigations che, intuite le loro intenzioni omicide attraverso un informatore, aveva provveduto a fornirli sì di bombe ma “inerti”, ovvero del tutto prive di esplosivo. I quattro cavalieri dell’apocalisse, tutti provvisti di cittadinanza americana, convertitisi in carcere alla religione musulmana e animati da un radicale antisemitismo, appartengono con tutta probabilità a quell’inquietante milieu, composto da una ampia platea di rancorosi giustizieri, che potrebbe ben presto dare vita a una sorta di terrorismo autoctono, «made in Usa». Un nuovo fronte, insomma, distante anni luce da quello di Al Qaeda, organizzazione della quale, tuttavia, condivide finalità politiche, approccio ideologico e modalità operative. Cani sciolti, per usare il gergo della vecchia politica, ma in grado oltre che di abbaiare anche di mordere. Da ultimo, segnaliamo per la penna di Marino Freschi l’ampio ritratto che fa dello scrittore Joseph Roth su il Mattino, cantore quest’ultimo del declino del sogno mitteleuropeo. Sempre nell’ambito della cultura, ma con un segno in questo caso opposto, da leggere l’articolo di Matteo Persivale su il Corriere della Sera nel merito di che è già stato definito il «caso Littell», dal nome dell’autore di un fortunato ancorché discusso romanzo sulla Shoah, osservata e vissuta con gli occhi di uno dei carnefici. «Le benevole», questo è il titolo della voluminosa opera di fantasia che ha dato avvio ad una saga familiare di cui ci è reso conto, sempre di più parrebbe assumere la natura di operazione editoriale tanto spregiudicata quanto priva di un costrutto culturale di ampio respiro. Laddove il narcisismo degli autori – in questo caso padre e figlio – si camufferebbe dietro l’eclatanza dell’estro artistico. Non ci pronunciamo nel merito, anche se ci è chiaro quanto il tema del passato nazista sia per non pochi il territorio per esercitare disinvolte scorribande, sospese tra libero esercizio intellettuale e imbarazzante vocazione all’affermazione del proprio ego.
 
Claudio Vercelli  

 
 
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Milano, il centenario della fondazione di Tel Aviv                          
e la preoccupazione di
Bernard-Henry Lèvy per Israele
Milano 22 mag -
Si è svolto ieri sera a Milano un incontro per il centenario della fondazione di Tel Aviv. Fra le personalità intervenute il filosofo francese Bernard-Henry Lèvy, che ha ricevuto in questa occasione il premio “Uomo dell'anno 2009” del Museo d'Arte della città israeliana. “Per uscire dalla sua condizione di crescente solitudine e far fronte a un nuovo antisemitismo – ha affermato il filosofo nel corso del suo intervento -  Israele dovrebbe stringere delle alleanze: in primis rinnovando il suo legame con il mondo cattolico europeo e poi con i segmenti più illuminati dell'Islam e della società palestinese” e ha aggiunto di non essere stato mai così preoccupato per le sorti di Israele come in questo momento, ha spiegato che oggi Israele “affronta minacce senza precedenti nella sua storia, nemici come Hamas, Hezbollah e Iran mossi da un odio irragionevole, e quest'ultimo con la concreta eventualità dell'arma nucleare". "Mai la malafede e la disinformazione verso Israele - ha proseguito - hanno assunto proporzioni tali come in questo momento: una macchina di delegittimazione e di satanizzazione che sta sfociando in un nuovo antisemitismo".
 
 
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