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L'Unione informa |
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25 maggio 2009 - 2 Sivan 5769 |
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alef/tav |
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Riccardo
Di Segni, rabbino capo di Roma |
Si
discute in questi giorni del numero, da taluni considerato
eccessivo, dei membri nel Parlamento italiano. Ma se si riduce
troppo, chi rimarrà escluso? C'è una somiglianza, un pò ironica e
curiosa, con un precedente biblico. La Torà (Bemidbar, 11) racconta che
quando venne nominato il Sinedrio due persone, investite dallo Spirito,
cominciarono a profetizzare in mezzo all'accampamento. Un problema, tra
l'altro, di ordine pubblico. Ma perché era successo? Per una piccola
questione di matematica e parità di diritti. L'ordine divino dato a
Moshè era di raccogliere 70 persone per costituire la suprema autorità
rappresentativa del popolo. Ma, spiega il Talmud (Sanhedrin 17a), le
tribù erano dodici, per cui volendo nominare un numero uguale (sei) di
rappresentanti per ogni tribù due persone sarebbero rimaste escluse
(6x12=72). Mosè si inventò un sistema per non offendere nessuno, due
schede bianche, ma la cosa funzionò solo in parte. Per cui lo Spirito
si posò anche sui due in eccesso rispetto al limite posto. Chissà se
anche da noi, se e quando il numero dei parlamentari verrà ridotto, gli
eletti ed esclusi si metteranno a profetizzare in mezzo
all'accampamento. |
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Ci
siamo stupiti dell'indifferenza di fronte alla deportazione degli
ebrei, ai campi di sterminio? Del fatto che la gente continuasse a fare
la sua vita ignorando il fumo dei crematori di Auschwitz? Eppure,
l'indifferenza è fra noi, come un ospite quotidiano, la cui presenza ci
sembra neutra, senza gravi conseguenze. Semplicemente, non ci pensiamo.
Ma eccola l'indifferenza, in tutto il suo orrore, a Scandiano,
provincia di Reggio Emilia, dove un ragazzino di quindici anni muore in
piscina per un malore fra la gente che, invitata ad uscire, rifiuta di
rinunciare al suo bagno, e continua imperterrita a nuotare. Non è un
reato, forse, ma vorrei tanto che almeno uno di quei giornalisti
sempre pronti ad intervistare la velina di turno avesse preso, di
questi indifferenti bagnanti, nome e cognome, età e professione, per
pubblicarlii tutti su un giornale, per stanarli dall'anonimato. Sbatti
il mostro in prima pagina. |
Anna Foa,
storica |
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Esperanto e identità ebraica Un convegno e più voci a confronto
“Lejser ebreo inquieto, strattonato fra il sogno illuminista di una
assimilazione (che si farà, nel suo caso, tentativo di globalizzazione
ante litteram) e al contempo quasi profeta di quel secolo breve che, di
lì a poco, avrebbe infranto quella speranza di rinnovamento e di futuro
per il popolo ebraico, in primis, e per l’intero mondo civile”. Questa
la descrizione che Davide Astori, professore di linguistica all'Università di Parma, fa di Ludovico Zamenhof nell'introduzione del libro Via Zamenhof, edito da La Giuntina in uscita prossimamente nelle librerie. Astori è uno dei relatori del Convegno “Lazzaro Ludovico Zamenhof, ebreo e cittadino del mondo: interprete dell’emancipazione ebraica e della liberazione dei popoli”
ospitato nella sede del Centro Bibliografico dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane e organizzato oltre che dall'Ucei, dalla Terza
Università di Roma e dalla Federazione Esperantista Italiana. Fra i
relatori oltre ad Astori, David Meghnagi e il rav Roberto Della Rocca. L'apertura del convegno è affidata a Renato Corsetti presidente della Federazione esperantista italiana e a Victor Magiar assessore alla cultura Ucei. "All’inizio
mi sono appassionato allo studio dell'esperanto per un motivo
linguistico, spiega Renato Corsetti, poi per una valenza socio-politica
dell’esperanto. Perché nel mondo la lingua e la cultura del più forte
schiacciano il più debole mentre l’esperanto consente un dialogo su un
piano di parità". Ma chi era veramente Zamenhof l'ebreo, di cui
quest'anno si celebrano i 150 anni dalla nascita? Ludwik Lejzer
Zamenhof medico linguista polacco è universalmente noto per aver
gettato le basi dell’esperanto: la lingua ausiliaria internazionale più
parlata nel mondo. Nasce nel 1859 a Białystok, città polacca
assoggettata all’impero zarista, (la cui comunità ebraica verrà
completamente sterminata dalla furia nazista durante la Seconda Guerra
Mondiale), e abitata da diversi gruppi etnici che si differenziano per
le distinte posizioni politiche, sociali, linguistiche e religiose.
Oltre allo studio tradizionale ebraico del Talmud e della Torà, il
giovane Zamenhof viene presto a contatto con la Haskalà che avrà
un fortissimo influsso sulla sua vicenda morale e umana. Alla scuola
elementare e con sua madre Lejzer parla l’yiddish, con il padre,
Markus, ateo, professore di tedesco, e consigliere dell'impero zarista
per la censura, parla russo, conciliare i due modi opposti di vivere
l'ebraicità dei suoi genitori sarà lo scopo recondito di tutta la vita
di Ludwik Lejzer. Che cos'è l'ebraismo? Perché gli ebrei
soffrono da millenni? Sono queste le domande che si pongono gli
intellettuali askenaziti dopo i pogrom in Ucraina del 1881. A
seguito dei terribili pogrom in Ucrainia, Zamenhof si reca a Varsavia
e, proprio nel 1881 fonda il primo circolo sionista della città, Chibat
Zion (Amanti di Sion). All'interno del circolo Chibat Zion, le
risposte alle domande sull’identità ebraica sono molto diverse. "Akh
ad-Haam, scrittore dell'epoca, vede l'essenza dell'ebraicità nella
'morale nazionale', che esiste anche fuori dalla religione; David
Neumark risponde: 'nel monoteismo'; Shimon Bernfeld sostiene: 'nella
morale nazionale'; Berdichevski e Shaj Ish Hurvich, negano l'esistenza
di una qualsiasi essenza". A questo quesito Zamenhof non risponde che
molto tempo dopo, nel 1905, in una lettera all’amico Javal nella quale
assume la stessa posizione di Neumark sostenendo che la base di tutto
l’ebraismo si posa sul monoteismo e su colui che rappresenta l’essenza
più vera del monoteismo, Hillel. Fondamentale è, in Zamenhof e nei
pensatori dell’epoca, la questione della lingua. Quale deve essere la
lingua parlata dagli ebrei? Secondo gli intellettuali seguaci
della Haskalà, di cui la figura centrale è Moses Mendelssohn amico
di Immanuel Kant e di Gotthold Ephraim Lessing, con i quali condivide
gli ideali di tolleranza illuministico-massonici, non ci sono dubbi, la
lingua degli ebrei deve essere l’ebraico. Ma Zamenhof la pensa
diversamente e nel 1887 pubblica a Varsavia il primo libro della lingua
internazionale che prenderà il nome di esperanto da uno degli
pseudonomi utilizzati da Zamenhof, Doktoro Esperanto. Nel
1905 si svolge il primo congresso esperantista a Boulogne sur Mer in
Francia dove prendono parte, fra gli altri, anche il Ministro della
Pubblica istruzione francese il Sindaco di Parigi e alcuni scienziati
dell’epoca. Gli anni seguenti vedono un ulteriore evoluzione del
pensiero di Zamenhof che sente troppo strette le mura dell’ebraismo, e
si allontana dal pensiero di Hillel valido solo per il popolo ebraico,
per abbracciare l’Homaranismo termine in lingua esperanto che definisce
una filosofia di vita valida per tutti i popoli e per tutte le
religioni esattamente come, sempre secondo il pensiero di Zamenhof,
l’esperanto era stato concepito come lingua per riunire tutti gli ebrei
del mondo ed era poi stato donato all’umanità intera. Nonostante le
alterne vicende del suo pensiero resta il fatto che Zamenhof si
sentì sempre profondamente ebreo anche se alcune volte svincolato dal
destino della sua gente. "L’essere ebreo e l’aver inventato
l’esperanto sono due cose collegate, osserva Renato Corsetti, Zamenhof
ha iniziato a riflettere sul perché questo popolo fosse perseguitato da
secoli e poi sulle persecuzioni in generale e da questo è partito
tutto". "La figura di Zamenhof è considerata "patrimonio
dell'umanità dall'Unesco che nel dicembre scorso ha inaugurato le
celebrazioni per i 150 anni dalla nascita con una cerimonia ufficiale
che si è svolta a Parigi" spiega Corsetti "parlare di esperanto in una
società che non è pronta a concepire le utopie non è facile, ma gli
esperantisti sono tanti in tutto il mondo. In Italia la cosa
particolare che si fa è che il convegno è organizzato in collaborazione
l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, perché Zamenhof era ebreo e
il suo retroterra ebraico influì molto sulla sua ideologia e sul suo
modo di vedere la vita". Quanto è percorribile l'ipotesi di una lingua universale? - Chiediamo al professor Davide Astori. "La
necessità di una lingua universale è sotto gli occhi di tutti quanti
intendano guardare senza pregiudizio. Se e quanto sia percorribile la
via dell'Esperanto piuttosto che quella dell'inglese (o di qualunque
altra lingua che abbia potere in un tempo ed un luogo), è altra
questione che sono contento Lei non mi abbia posto". Allora glielo chiedo "Così ha affermato il grande Weinreich: A shprakh iz a dialekt mit an armey un a flot.
Le scelte linguistiche, come tanti tratti di una società, prima
che ideali sono politico-economici. Troppi interessi in gioco non
aiutano a focalizzare il valore, appunto, di una lingua
pianificata nel processo di sviluppo dell'umanità". Perché,
secondo lei, Zamenhof ipotizza la creazione di una lingua universale
come l'esperanto e non l'ebraico, la lingua della Bibbia? "Zamenhof
era alla ricerca di una seconda lingua per tutti che non fosse la prima
lingua di nessuno. Interessarsi di ebraico, e prima ancora di yiddish
(come fece, proponendo fra i primi una trascrizione normalizzata
scientificamente dell'alfabeto), voleva dire contribuire alla
“soluzione della questione ebraica” - per riprendere il sottotitolo di
un suo famoso saggio, Hilelism, che dedicò appunto alla problematica
storia del suo popolo; dare vita alla lingvo internacia fu donare “una
voce per il mondo”, a riprendere il titolo del bellissimo volume d
Lamberti sull'epopea del grande sogno del piccolo uomo della periferia
dell'Europa". Professore, "Se non fossi ebreo...." Quale è il significato della frase che dà il titolo al suo intervento? "E'
la frase di una celebre lettera in cui Zamenhof racconta dell'origine
del suo interesse alla creazione di una lingua universale. E'
proprio dalla sua esperienza di ebreo che emerge la sensibilità per il
dialogo e l'inter-comprensione fra i popoli. Così recita l'intero passo: Se
non fossi un ebreo del ghetto, l’idea di unire oppure no l’umanità non
mi avrebbe sfiorato, o almeno non mi avrebbe così costantemente
ossessionato durante tutta la mia vita. Nessuno può risentire quanto un
ebreo del ghetto della maledizione delle divisione fra gli uomini.
Nessuno può sentire la necessità di una lingua umanamente neutrale e
non-nazionale quanto un ebreo, che è obbligato a pregare Dio in una
lingua morta da molto tempo, che riceve la sua educazione e la sua
istruzione da un popolo che lo rifiuta, e che ha compagni di sofferenza
su tutta la terra, con i quali non si può capire [...]".
Lucilla Efrati |
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L'ebraismo e la condizione femminile
La
condizione della donna nell’ebraismo è un tema che merita profonda e
attenta riflessione. Perché c’è il rischio che possano prevalere
pregiudizi, stereotipi e luoghi comuni. L’emancipazione non può essere
più confusa con la liberazione. È vero che le donne sono riuscite a
modificare la propria esistenza, protetta e relegata, che sono giunte a
una impensabile libertà. Ma spesso si fraintende questa libertà: come
se si trattasse di ricalcare semplicemente i modelli maschili. Così nel
segno dell’emancipazione si rivendica l’esigenza di parlare e di
parlare sempre più ad alta voce. E se invece la liberazione fosse
proprio l’opposto? Fosse ad esempio la necessità di far capire anche
agli uomini quanto sia importante - e assolutamente attuale - la
qualità prettamente femminile dell’ascolto? Non occorre essere
uguali, dove l’uguaglianza viene svuotandosi di contenuti. Piuttosto è
indispensabile porre l’accento sulla differenza, sottolineare
ricettività, accoglienza, abbandono, tutti quei tratti “femminili” che
sono stati dimenticati, esclusi, spinti nell’oscurità. Da questa
oscurità, che loro stessi hanno contribuito a determinare, gli uomini
si sono sentiti e si sentono minacciati. La donna è nel loro
immaginario quella pericolosa fragilità che mina la loro pace
spirituale. Anche nell’ebraismo ha prevalso una interpretazione
maschile, razionale. Il che non vuol dire che il femminile non abbia
uno spazio ancora in gran parte da riscoprire, una valenza simbolica a
cui è indispensabile attingere. Non solo nelle figure classiche.
L’ebraismo dello scorso secolo è stato - da Etty Hillesum a Hannah
Arendt - un ebraismo al femminile, fedele alla duplice differenza che
lo contraddistingue, attento a restituire dignità alle donne.
Donatella Di Cesare, filosofa
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rassegna stampa |
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Nella magra rassegna di oggi si segnalano solo un paio di articoli rilevanti. Il Messaggero
sostiene, in una notizia non firmata, che il ministro della difesa
Israeliano Barak sarebbe oggetto di feroci polemiche per voler
rimuovere una ventina di avamposti non autorizzati nel West Bank; L'Unità,
in un'altra notizia senza firma, sostiene che il premier Netanyahu
vorrebbe "ampliare le colonie esistenti". In realtà la politica
israeliana è una ed è quella che seguivano anche gli ultimi governi:
non permettere la fondazione di nuovi insediamenti, ma consentire la
"crescita naturale" di quelli che ci sono, vale a dire l'edificazione
di nuove case o il completamento di quelle che ci sono per venire
incontro ai bisogni delle nuove coppie, della crescita dei figli ecc.,
cercare di eliminare gli insediamenti illegali senza provocare un altro
focolaio di violenza. Vale la pena invece di leggere e con molta attenzione l'editoriale dello Herald Tribune,
anche perché di solito esso rispecchia l'opinione del "New York Times"
e dell'intelligentia liberal e spesso ebraica dell'East Coast. Esso
infatti assume esemplarmente una teoria "pedagogico-autoritaria" dei
rapporti fra Usa e Israele, che era stata formulata (al solito) da
alcuni giornalisti di "Haartetz": Obama deve andare avanti con durezza
nella sua linea, "per il bene di entrambi gli stati" e quindi anche per
il bene di Israele, contro l'opinione di Israele. Non deve farsi
fermare dalle resistenze di Netanyahu ma costringere Israele a
"abbracciare la soluzione dei due stati, sola base razionale per la
pace", cioè a continuare esattamente la politica fallimentare degli
ultimi dieci anni dopo il fallimento delle trattative fra Barak e
Arafat, che ha portato all'insediamento di Hezbullah in Libano, di
Hamas a Gaza, alla sanguinosa ondata degli attentatori suicidi e a due
guerre. Che Arafat dieci anni fa e di nuovo Abbas l'anno scorso abbiano
rifiutato tutte le proposte di pace israeliane che non fossero un puro
e semplice suicidio (incluso il 96% dei territori, con scambi per il
resto, perfino Gerusalemme Est ecc.), non conta. E così che i partiti
palestinesi (non il governo ma tutti i movimenti, incluso Al Fatah)
continuino a dichiarare di volere "liberare" "tutta la Palestina", che
ogni ritiro da territori occupati li abbia trasformati non in luoghi
fiorenti per la legittima crescita del livello di vita dei palestinesi,
ma in luoghi di guerra e di aggressione, che oggi non ci sia un governo
palestinese unico capace di prendere impegni, che insomma la
sperimentazione dei due stati sia stato un insuccesso totale – tutto
ciò non importa nulla allo sguardo dominato dall'ideologia di "Haaretz"
e del "New York Times". Bisogna fare i due stati come vogliono i
palestinesi, a costo di distruggere Israele, perché questa è "the only
rational basis for a peace deal". "Rational" per chi? Sulla base di
quali prove empiriche? Lo stesso discorso vale per l'Iran e il suo
armamento atomico. Qui il mantra è "negoziare, negoziare senza limiti"
e gli israeliani sono cattivi e devono essere puniti,
beninteso "per il loro bene", perché chiedono che la trattativa
non possa andare avanti all'infinito. Anche in questo caso,
l'esperienza degli ultimi sei o sette anni mostra un'alternarsi di
trattative solo verbali, promesse di cambiamenti negoziali da parte
iraniana, poi smentite dai fatti, sanzioni inefficienti, realizzazioni
militari iraniane in termini di missili, accumulo di materiale fissile
ecc. Le trattative lunghissime e inconcludenti, ci sono già state.
Condurle ancora, e condurle senza limite significa semplicemente
accettare l'armamento atomico iraniano. E' questo che il "New York
Times" vuole che Obama voglia? Ma davvero credono al loro whishful
thinking? Sorridere all'Iran e proseguire negoziati da una parte e
dall'altra produrrà il miracolo che non si è realizzato negli ultimi
trent'anni, da Oslo in poi? E questo risolverà i problemi in Iraq,
Afganistan e Pakistan e tutti vivremo felici e contenti, grazie alla
buona volontà di Obama?
Ugo Volli |
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notizieflash |
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Israele,
secondo Barak inutili i tentativi americani
di dialogo con l'Iran Gerusalemme, 25 mag - Sono
molto basse, secondo il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak, le
probabilità di successo del dialogo che gli Stati Uniti vogliono con
l'Iran nel tentativo di convincere questo Paese ad arrestare il suo
programma nucleare. "Credo che anche gli americani se ne rendano conto
- ha spiegato Barak - essi pensano che vi sia una logica in questo
(dialogo) ... per poter far fronte a ciò che è necessario o che è
probabile che si verifichi in futuro". Secondo Barak l'Iran, il cui
regime nega a Israele il diritto stesso all'esistenza, "é la più grave
minaccia potenziale". Ieri l' ammiraglio americano Mile Mullen,
presidente dei capi di stato maggiore interarmi, ha detto che l'Iran
potrebbe disporre di un'arma nucleare in un periodo compreso tra uno e
tre anni. |
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L'Unione
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Ebraiche Italiane in collaborazione con la Comunità Ebraica di Trieste,
in redazione Daniela Gross. Avete
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