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5 gennaio 2012 - 10 Tevet 5772
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alef/tav
elia richetti Elia
Richetti,
presidente dell'Assemblea rabbinica italiana
 
Che cos'hanno di particolare Efràim e Menashè, da meritare di essere a tutt'oggi citati di esempio nella benedizione che il padre impartisce ai figli ("Ti ponga D.o come Efràim e come Menashè")?
Nel corso delle ultime Parashòth abbiamo seguito Yosèf e visto il suo attaccamento continuo al mondo ebraico, nonostante gli allettamenti del mondo egizio. Certamente aveva avuto un'ottima educazione. Ma i suoi figli, nati in Egitto da madre egizia, lontani dalla benefica influenza del nonno paterno e sottoposti a quella del nonno materno, Potiféra', sacerdote di Eliopoli, avevano certamente maggiori difficoltà. Invece i Maestri sottolineano come abbiano mantenuto sempre la loro identità ebraica, a partire dai loro nomi, che portavano con orgoglio e che sono memoria dell'azione divina nelle vicende umane. Per questo motivo Ya'aqòv li cita ad esempio nella benedizione: essi sono la riprova che con l'impegno e la volontà è sempre possibile conservare l'Ebraismo nei propri discendenti. Da essi quindi possono trarre stimolo ed esempio quei genitori che adducono come scusante dell'allontanamento dei propri figli dalle tradizioni ebraiche le difficoltà insite nel mondo circostante.

Sergio
Della Pergola,
Università Ebraica
di Gerusalemme


Sergio Della Pergola
In Israele non è stato istituito il Giorno della Memoria, il 27 gennaio, ma vi sono due date in cui si ricorda la Shoah. Una è, appunto, il Giorno della Shoah, in primavera una settimana prima della festa di Indipendenza (Yom Ha'atzmaut). L'altra è il 10 del mese ebraico di Tevèt, che ricorre oggi. Il 10 Tevèt dicono il Kaddísh (la preghiera per i defunti) le persone i cui parenti sono morti nella Shoah in data ignota. Il 10 Tevèt è anche giorno di digiuno perché è la data in cui nell'anno 588 a.C. il re Nabuccodonosòr iniziò l'assedio a Gerusalemme che si sarebbe concluso un anno e mezzo dopo con la distruzione della città e del Primo Tempio, e con l'esilio in Babilonia degli abitanti del Regno di Giudea. Questa settimana la Shoah ci è stata rammentata nell'immagine di un bambino ebreo con un baschetto, la stella gialla sul petto con la scritta Jude, le mani alzate, e gli occhi imploranti. La fotografia, scattata in Israele, ne imita una più celebre della seconda guerra mondiale. Nell'immagine originale, scattata a Varsavia, dietro al bimbo si vedono dei soldati tedeschi con le arme spianate e decine di uomini e donne che marciano speditamente verso il campo di sterminio. Nel moderno rifacimento, dietro al bimbo impaurito, una decina di giovinastri, alcuni dei quali con dei camicioni a righe a imitazione degli abiti degli internati nei campi. Questi giovinastri, presumibilmente studenti di accademie religiose, ridono. Ridono della brillante idea che hanno avuto di equiparare lo Stato d'Israele e le sue leggi civiche al regime nazista e alla Shoah. Davvero una esilarante e raffinata parodia. Nella retorica politica corrente si usa parlare della contrapposizione fra hiloním e haredím – i "laici" e gli "ultra-religiosi". Nell'immagine di questa settimana la religione non c'entra proprio. Lo spartiacque è fra chi studia la storia degli ebrei e ne apprende le lezioni (fra cui quella dell'assedio e dell'esilio), e chi nel proprio sistema educativo rifiuta di includere le cosiddette materie di base, e in primo luogo la storia ebraica, oltre naturalmente alla matematica e all'inglese. Fra chi impunemente vilipende la Shoah e il popolo ebraico, e chi non lo fa. Fra chi aderisce al concetto di mutua solidarietà di Clal Israel (la comunione di Israele), e chi lo rigetta. Notiamo che i giovinastri ridanciani della foto della settimana, se hanno votato alle ultime elezioni israeliane, lo hanno fatto per partiti politici che oggi fanno parte della coalizione governativa, non dell'opposizione.

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Qui Torino - "Fermare chi insegna odio nelle aule italiane"
Il presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna e il presidente della Comunità ebraica di Torino Beppe Segre hanno dichiarato congiuntamente:

La sfida quotidiana di tramandare il senso più autentico della Memoria, di analizzare i meccanismi dell'odio predisposti da uomini contro uomini affinché essi non abbiano più a ripetersi, passa necessariamente dalle aule delle nostre scuole. La formazione dei giovani, dei cittadini del domani, è un punto essenziale in questo costante lavoro di decodificazione, rielaborazione e costruzione di una società consapevole, inclusiva e immune al morbo sempre strisciante del razzismo. Desta quindi molta preoccupazione il fatto che un docente di un noto liceo classico torinese utilizzi il mondo dei social network, nello specifico Facebook, per pubblicare materiale fotografico di chiaro stampo neonazista e indirizzare inequivocabili minacce verso ebrei, omosessuali, disabili e immigrati. Il professor Renato Pallavidini, già assurto al disonore delle cronache nazionali per alcune affermazioni antisemite che nel 2007 gli valsero una sospensione di due settimane dal proprio incarico, insegna storia e filosofia. Due materie centrali nel percorso di apprendimento degli studenti, un compito delicatissimo che risulta palesemente inadeguato in considerazione dai folli propositi più volti espressi dal docente. Commentando su Facebook una foto in cui Hitler e Mussolini si stringono la mano, Pallavidini scrive: “Se mi togliete questa foto, vado con la mia pistola, alla sinagoga vicinissima a casa mia e stendo un po' di parassiti ebrei che la frequentano. Vi conviene stuzzicare il can che dorme?". Esprimere con forza la condanna e il biasimo degli ebrei torinesi e italiani è quasi pleonastico tanta è l'infamia, l'aggressività e la violenza verbale vomitata nella rete da questo presunto “maestro di vita”. L'auspicio è che d'ora in poi tale individuo, oltre a subire un regolare processo che ne accerti le responsabilità, sia finalmente messo in condizione di non poter più nuocere ai giovani, né all’interno di una qualsiasi aula italiana né sulla rete.

Il silenzio responsabile
Nabucodonosor GerusalemmePer te il silenzio è lode (Sal. 65, 2)
“Così dice il S.. Una voce si ode a Ramà, un lamento, un pianto amaro. È Rachel che piange per i suoi figli. Rifiuta di consolarsi per i suoi figli che non sono più. Trattieni la tua voce dal pianto e i tuoi occhi dalle lacrime, poiché c’è una ricompensa per la tua azione – dice il S. – e torneranno dalla terra del nemico. E c’è una speranza per il tuo avvenire – dice il S. – e i figli torneranno al loro territorio” (Ger. 31, 14-16).
Era il 10 Tevet 588 a.e.v. Nabucodonosor cingeva d’assedio Gerusalemme e si apprestava a deportarne gli abitanti in Babilonia. Il Midrash racconta che in una tumultuosa seduta del Tribunale Celeste i tre Patriarchi e le Matriarche tentarono, uno dopo l’altro, di fermare il decreto Divino per la colpa di idolatria, ma invano. Si levò a quel punto la voce della Matriarca Rachele dalla sua tomba isolata, lungo la via dell’esilio. “È più grande la misericordia di D. o quella dell’uomo? Ricorda la sera in cui fu celebrato il matrimonio del mio promesso sposo Giacobbe con mia sorella Lea. Giacobbe aveva lavorato per me sette anni. Sarei dovuta trovarmi io sotto il baldacchino nuziale, ma preferii tacere. Non solo. Temendo gli inganni di mio padre Labano, con Giacobbe avevo concordato una parola d’ordine che egli mi avrebbe chiesto di pronunciare per accertare la mia identità al momento opportuno e smascherare un eventuale trucco.
Ma all’ultimo momento pensai alla dignità di mia sorella: quale imbarazzo le sarebbe venuto se alla richiesta di Giacobbe non avesse saputo cosa rispondere? Così pochi istanti prima della cerimonia le confidai la parola d’ordine ed essa si tutelò. Ora che io ho ammesso un’altra al mio posto in silenzio, anche Tu taci e tollera in silenzio! (Radaq ad loc.)”.
La risposta Divina non si fece attendere: “Non piangere. Questa tua eccezionale buona azione sarà ricompensata. L’esilio sarà solo un fatto temporaneo: i tuoi figli non sono destinati a scomparire, ma torneranno alla loro terra. Per merito del tuo silenzio e della tua sensibilità il popolo ebraico avrà un futuro”. I nostri Maestri affermano che “Rachele ha fatto del silenzio la sua professione” (Rachel tafessah be-felekh shetiqah: cfr. R. Bachiè a Gen. 29,28; B.R. 71,5; Tanchumà Wayetzè 6; Meghillah 13b) e portano almeno tre episodi analoghi relativi ai suoi discendenti.
Suo figlio Beniamino tacque al padre Giacobbe la vendita del fratello Giuseppe. Benché non fosse presente all’atto, perché suo padre non lo mandava fuori casa assieme agli altri, era certamente al corrente del fatto. Quando molto più tardi in Egitto il “vicere” lo vide ormai cresciuto e padre a sua volta di numerosi figli, domandò a Beniamino come si chiamassero. Beniamino spiegò che aveva dato a ciascuno di loro un nome che gli ricordasse il fratello venduto (Rashì a Gen. 43,30). Fu allora che, preso dalla commozione, Giuseppe decise che si sarebbe rivelato ai suoi fratelli. Ma Giacobbe non venne mai a sapere dell’accaduto. Se ciò si fosse verificato, la condanna che avrebbe espresso nei confronti dei figli sarebbe stata tale da impedire qualsiasi avvenire alla sua discendenza (R. Bachiè a Gen. 37,33). Anche il silenzio di Beniamino fu decisivo nel “rimediare” un rapporto contrastato fra fratelli e salvò il popolo ebraico. Saul, della tribù di Beniamino, tacque della sua nomina a re, finché non fu Samuele a renderla nota pubblicamente (1Sam. 10,16). Ester, infine, che di Saul era discendente, tenne a sua volta nascosta la propria identità (2,20) e in questo modo salvò il popolo ebraico dall’ennesima minaccia di sparizione all’epoca di Haman e Assuero.
In un mondo sempre più assordante e roboante, il silenzio di Rachele suona sempre più solitario. Allorché pare dominarci il frastuono delle parole, che sembrano essere decisive di tutto e su tutto, ci viene da domandarci se non sia invece assai più raccomandabile tenere un “profilo basso”. Del resto, è questa una caratteristica del Santo Benedetto. È quanto Egli stesso rivelò al Profeta Elia braccato da Izevel e per questo rifugiatosi nella grotta: “Esci, fermati sul monte davanti al S.;... dopo il chiasso un fuoco, ma non nel fuoco è il S. E dopo il fuoco una voce sottile, quasi silenzio” (1Re 19, 11-12). La parola talvolta divide; il silenzio responsabile (da non confondersi con l’ignavia, o con l’omertà) potrebbe essere un prezioso strumento di fratellanza: presupposto indispensabile a sua volta perché possiamo avere un futuro. 

Rav Alberto Moshe Somekh, Pagine Ebraiche gennaio 2012

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"E durante la carestia furono costituiti dei tecnici per prelevare il 98 per cento delle raccolte del Paese, in modo che ne traessero giovamento solo le Banche, il Paese piombasse nella prostrazione e le carte di credito fossero usate come filo interdentale".

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Un documento che indica alcune linee guida per il governo di fronte ad eventuali rapimenti di soldati o civili israeliani è stato consegnato oggi dal suo estensore, il giudice a riposo Meir Shamgar, al ministro della difesa Ehud Barak. Stando a quanto si apprende della radio israeliana, nel testo si consiglierebbe una linea negoziale più dura di quella tenuta in passato.

 
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