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  6 gennaio 2012 - 11 Tevet  5772
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bahbout Scialom
Bahbout,
rabbino capo
di Napoli


Quali sono le differenze tra il calendario “civile” e il calendalunario ebraico? Le diversità sono solo formali, o sono l’espressione di contenuti diversi. Anche se le stagioni sono diverse l’una dall’altra, non c’è una sostanziale differenza tra un mese e l’altro e tra un giorno e l’altro: il calendario civile si basa sul Sole, un astro che si mostra sempre identico a se stesso. L’anno ebraico è basato sulla Luna, un astro che cambia in continuazione: è invisibile all’inizio del mese, poi cresce lentamente per divenire Luna piena, per poi tornare a scomparire. I mesi ebraici sono diversi l’uno dall’altro in quanto esprimono vari aspetti della gioia e della libertà (quella fisica, quella spirituale e quella economica). Insomma la Luna è simbolo della vitalità che solo il cambiamento può donare. Israele si deve ispirare proprio alla Luna e ai suoi continui mutamenti: all’inizio dell’anno deve essere capace di riflettere per decidere cosa e come cambiare la propria vita, come far sì che l’anno che sta per iniziare sia veramente diverso da quello che l’ha preceduto. Questa riflessione, anziché dai “botti” di fine anno, viene accompagnata dal suono dello shofàr, il corno di ariete, che ha lo scopo di richiamare la nostra mente a fare un’analisi delle nostre azioni passate per aprirci a un futuro diverso. 

Laura Quercioli Mincer, slavista


laura mincer
Chiedo con la schiena eretta, perché non è più per me che reclamo. / Dà ai bambini una sorte buona, aiuta i loro sforzi, benedicine le fatiche. / Non condurli per la via più semplice, ma per la più bella. / In acconto alla preghiera accetta il mio solo gioiello: la tristezza. / La tristezza e il lavoro.

Janusz Korczak (Varsavia 1878-Treblinka 1942)
“La preghiera dell’educatore"

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Un anno da volontaria con i bimbi
Giulia TeminTredici anni di scuola e la prospettiva, per chi vuole continuare gli studi, di farne come minimo altri tre per avere una laurea in tasca. Non tutti i ragazzi, però, scelgono di iscriversi immediatamente all’università, affascinati dalla prospettiva dell’anno sabbatico. Se poi si inciampa in George Bernard Shaw – l’unico periodo in cui la mia educazione si è interrotta è stato quando andavo a scuola – il desiderio di fare altre esperienze probabilmente non fa che aumentare.
Una pausa di riflessione per fare un’esperienza formativa è stata la scelta di Giulia Temin, studentessa milanese di architettura, con un progetto nel cassetto: studiare all’Accademia d’Arte di Gerusalemme Bezalel. “Nel 2009 ho deciso di fare l’anno di hachsharà (programma formativo annuale proposto da movimenti ebraici, religiosi e laici, per i giovani) in Israele con l’Hashomer Hatzair. Volevo conoscere la realtà israeliana da una prospettiva diversa, non la vacanza Fishman (popolare spiaggia di Tel Aviv) per intenderci”.
Un anno passato tra il Kibbutz di Holit (a sud di Israele vicino alla striscia di Gaza), in un centro educativo di Naharia e infine a lavorare ad un progetto teatrale con i giovani di Bart’a, città di confine a nord la cui zona occidentale fa parte del distretto di Haifa mentre quella orientale è sotto la giurisdizione del governatorato di Jenin. Non proprio posti da villaggio turistico. “Beh, l’idea era quella di fare qualcosa di diverso. Israele mi ha sempre affascinato e volevo guardarla attraverso diverse prospettive”. La prima fermata di una di “pacchetto” predefinito è Naharia. “Là ho lavorato in un centro educativo per ragazzi con alle spalle problemi famigliari. La città è un crogiolo di nazionalità diverse e noi svolgevamo attività con bambini che parlavano ebraico, russo, francese. Il nostro ruolo era quello di cercare di stemperare la loro aggressività, farli sentire un gruppo, perché spesso a casa erano isolati”. Tre mesi vissuti, quelli a Naharia, in una comune. “E’ stato molto divertente, si è creato affiatamento tra noi ragazzi. E’ molto diverso vivere costantemente in contatto con qualcuno, poi in tanti diventa ancor più complicato ma non abbiamo avuto grandi difficoltà. E’ stato bello condividere e confrontarsi con ragazzi provenienti da tutto il mondo; c’erano belgi, svizzeri, messicani, davvero di tutto”.
L’altro momento che Giulia ricorda con particolare piacere e emozione è il progetto di educazione per la pace tenuto durante il soggiorno a Ramat Ha Shofet. “Venivano ragazzi dei paesi arabi vicini e con loro abbiamo lavorato all’allestimento di uno spettacolo. Suonerà un po’ retorico e forse banale, ma è stata veramente un’occasione unica”. Coincidenza, sfortunata, volle che proprio qualche giorno prima della messa in scena dello spettacolo scoppasse il caso della Freedom Flottilla (31 maggio 2010), in cui gli attivisti della nave Mavi Marmara si scontrarono con i soldati israeliani e nove persone persero la vita. Fra questi, si sparse la notizia, che vi fosse un leader palestinese e nella zona vicino a Ramat Hashofet iniziarono manifestazioni e proteste. “Non potevamo uscire in quella situazione di tensione perciò avevamo deciso di posticipare lo spettacolo. Tutti i ragazzi palestinesi iniziarono a chiamarci e chiederci ‘allora quando lo facciamo, quando proviamo ancora’. Questo mentre molto probabilmente i loro genitori o fratelli erano per le strade a protestare. E' un segnale, nel suo piccolo, significativo. Si era creata un’alchimia nonostante tutta la storia del conflitto”.
Un anno intenso quindi quello di Giulia, che poi si sofferma sulla questione università. “Ho incontrato diversi studenti universitari mentre ero là. E la sensazione che si ha quando si è in contatto con loro è di una società vivace, dinamica in cui i giovani hanno effettivamente delle opportunità di affermarsi”. Lei, alla fine, ha scelto architettura ambientale a Milano. “Però sono rimasta affascinata dal Technion. Sono andata a visitare su appuntamento il politecnico di Haifa per avere un’idea di come sia la dimensione universitaria in Israele. E' differente da quella italiana: molti più laboratori, c’è un interesse specifico sugli aspetti ecologici; le persone sono motivate. Sembra tutto più acceso, più vivo”. Il fascino di quel mondo accademico, nonostante il ritorno all’ombra della Madonnina, è rimasto. “Finita la triennale vorrei riuscire a frequentare l’Accademia Bezalel. Aprire a una concezione più artistica il mio studio sul’architettura. E poi a Gerusalemme ci sono in parte cresciuta, è una seconda casa quindi faciliterebbe le cose”.
Riannodando i fili del suo anno israeliano, Giulia poi suggerisce a chi può “di fare un’esperienza all’estero, non per forza come la mia. Ora io ho la sensazione di non andare avanti alla cieca ma di avere un quadro più chiaro di cosa posso e voglio fare. E il contatto con un’altra realtà mi ha aiutato a maturare questa consapevolezza”.

Pagine Ebraiche gennaio 2012

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Quattrocentonovantotto nomi
Anna SegreNell’abisso della Shoah quattrocento deportati torinesi paradossalmente sembrano quasi pochi (alcuni anni fa un allievo mi aveva addirittura chiesto se per caso intendessi dire quattrocentomila). Difficile, per i ragazzi che studiano i grandi numeri della storia, capire cosa significano quattrocento vite interrotte, quattrocento famiglie lacerate, quattrocento storie con un sapore amaro, di fughe finite male, di respingimenti alla frontiera svizzera, di solidarietà mancate, delazioni, tradimenti o altro.
Il 10 di Tevet ci aiuta almeno in parte a comprendere le dimensioni della catastrofe: la lettura di tutti i nomi (a Torino, tra deportati, uccisi, morti nella Resistenza, includendo anche quelli di altre città piemontesi, se ne leggono quattrocentonovantotto) richiede quasi mezz’ora, un tempo che pare lunghissimo se confrontato con la normale durata della preghiera pomeridiana, e reso ancora più lungo dall’uniformità della lettura: non la solita alternanza di parti cantate o recitate sottovoce, in piedi o seduti; solo lunghissimi minuti di nomi, uno per uno in ordine alfabetico, scanditi nel silenzio più assoluto. A leggerli in una scuola si occuperebbe un’intera ora di lezione, e forse aiuterebbe a capire cosa è stata la Shoah (anche in un luogo “privilegiato” come l’Italia) più di molti discorsi.
Mi pare giusto che sia stata prevista la stessa cerimonia con cui solitamente si ricordano le persone di cui ricorre l’anniversario. Uno scarto rispetto alla normalità si nota di più rispetto a una novità completa, e trasmette maggiormente l’impressione di trovarsi di fronte a un’anomalia, a qualcosa che non funziona: leggere quattrocentonovantotto nomi al posto di uno o di pochi, dilatare i tempi di un rito che di solito dura pochi minuti, mostra la gravità irreparabile di ciò che è successo più di quanto lo farebbe una cerimonia inventata ad hoc. D’altra parte se possiamo ricordare chi è scomparso nella Shoah con le stesse modalità con cui ricordiamo tutti gli altri, e se lo possiamo fare proprio il 10 di Tevet, digiuno già previsto nel nostro calendario, significa anche che, nonostante tutto, non sono riusciti a distruggerci.

Anna Segre, insegnante

Silenzi inspiegabili
Sandro Di CastroVorrei ringraziare Anna Foa e quanti su l'Unione informa e altri organi di stampa senza circonlocuzioni e motivazioni insostenibili, hanno richiamato l'attenzione su quello che per la gran parte della società democratica israeliana è divenuto da tempo un fenomeno intollerabile.
Con i ben noti episodi di discriminazione contro le donne e di offensivo accostamento alla Shoah delle ultime settimane, l'estremismo religioso di alcuni settori ortodossi (definiti benevolmente "minoranze") ha raggiunto prima e superato poi livelli insopportabili di intolleranza e di fanatismo paragonabili – senza alcun motivo di ripensamento – a quanto caratterizza le società più retrograde della nostra epoca, particolarmente quelle asiatiche in lotta contro Israele.
Di fronte agli avvenimenti di ripetuta discriminazione ortodossa nei confronti di donne e bambine, in Israele ci si attendeva una presa di posizione energica, decisa, indiscutibile e indignata non solo dal settore laico ma anche, e soprattutto, dagli ambienti religiosi non ortodossi; aspettative e sostegni, questi ultimi, che sono venuti nuovamente in gran parte a mancare, tranne la sporadica voce e l'intervento isolato di alcuni rabbini.
L'Italia degli ultimi anni è ben consapevole del fatto che sulle sue coste approdano quasi quotidianamente immigrati, spesso dotati di inaccettabili norme di estremismo religioso e di discriminazione femminile, intollerabili e respinte dalla stragrande maggioranza dei cittadini italiani. Di fronte a questo risulta inspiegabile il silenzio che ha finora caratterizzato la voce degli ambienti religiosi ebraici italiani.

Sandro Di Castro, Haifa


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Israele - Alta Corte di Giustizia, nominati i quattro nuovi componenti
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Noam Solberg, Zvi Zilbartel, Dafna Barak-Erez e Uri Shohem. Sono i quattro nuovi giudici dell’Alta Corte di Giustizia israeliana, nominati oggi dal Comitato di selezione giudiziaria. Dopo mesi di impasse, caratterizzati in particolare dal braccio di ferro tra il ministro della Giustizia Yaakov Ne’eman e il presidente della Corte Suprema Dorit Beinish, si è arrivati ad un’imprevista svolta. In attesa di sapere chi prenderà il posto del presidente della Corte Beinish, i quattro nuovi giudici entreranno in carica nelle prossime settimane. 

 

Che dire? La vicenda del docente torinese che dal web (e non solo), come rileva tra gli altri Federico Mello su Il Fatto, lancia i suoi strali xenofobi, negazionisti e razzisti contro il mondo intero, ma soprattutto gli ebrei, lascia perplessi, prima ancora che disgustati. Il disgusto va da sé, come ovvia reazione dinanzi al lucido e calcolato delirio delle posizione radicali, se non apocalittiche, degli Eichmann fatti di inchiostro e di parole.
 
Claudio Vercelli

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