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8 Gennaio 2012 - 13 Tevet 5772
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l'Unione informa
ucei 
moked è il portale dell'ebraismo italiano
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Benedetto Carucci ViterbiBenedetto
Carucci
Viterbi,
rabbino

Con la morte di Giacobbe assistiamo ad un fondamentale punto di svolta nella storia di Israele: termina l'età dei patriarchi. Ciò che prima era eredità spirituale di una persona sola - Abramo, Isacco e Giacobbe - ora è spartita e divisa tra dodici tribù, ciascuna con le sue caratteristiche specifiche e distintive, come ben dimostrano le benedizioni che l'ultimo patriarca dà ai suoi dodici figli. Da questo momento tutti i discendenti sono "dentro" il sistema, non c'è più possibilità di una separazione come quella di Lot da Abramo, di Ismaele da Isacco, di Esaù da Giacobbe: un ebreo resta comunque ebreo. Con buona pace di chi pensa, da ogni posizione, di esserlo più di un altro.


David
Bidussa,
storico sociale delle idee


David Bidussa
Settimana intensa quella che ci ha preceduto. Risalgo dall’ultima notizia alla prima. Venerdì Mauro Aicardi, consigliere comunale con delega alla Protezione civile, nel Comune di Albenga ed eletto nelle liste Lega Nord, in un gruppo Facebook ha auspicato l’uso dei forni nei confronti degli emigrati marocchini presenti nel suo comune (poi il giorno dopo ritrae). La notizia viene dopo l’apertura della vicenda del Prof. Renato Pallavidini, dopo il caso del console Mario Vattani, console italiano in Giappone, e l’uccisione (ma forse sarebbe più corretto dire l’esecuzione) di due cinesi a Roma. Insomma, verrebbe da dire che non ci siamo fatti mancare niente. Pierluigi Battista, sempre ieri, sul “Corriere della sera” scrive (l’articolo si trova a pag. 23 e si intitola  “Se un prof. insegna a 'stendere i servi di Sion'”) che  “la linea  di confine con la follia violenta e pericolosa è stata già abbondantemente superata”. Dopo l’indignazione o la preoccupazione, si fa qualcosa o ci limitiamo a constatare? Io sarei per abbandonare l’indignazione e provare a fare qualcosa che abbia come fine il consolidamento della convivenza civile, che mi sembra a rischio. Si può fare qualcosa o il mio è’ un auspicio “non liberale” perché lesivo della libertà di parola?

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Qui Mantova - Fabio Norsa (1946-2012)
Fabio NorsaCordoglio ed emozione, attraverso l'Italia ebraica, per la scomparsa del presidente della Comunità ebraica di Mantova Fabio Norsa. Instancabile attivista e benefattore, Norsa ha profondamente amato la sua gloriosa comunità (che conduceva da quindici anni) e la sua città, ricambiato da altrettanto affetto da parte dei suoi collaboratori e di tutti i cittadini. I quotidiani mantovani in edicola questa mattina dedicano la prima pagina per esprimere i sentimenti di dolore della città e dei mantovani nel mondo e rendere omaggio alla saldatura indelebile fra la realtà lombarda e la sua comunità ebraica che Norsa ha incarnato in tutta la sua azione.
Presidente della fondazione benefica Istituto Giuseppe Franchetti, fondatore e presidente di Articolo 3 Osservatorio sulle discriminazioni realizzato con il contributo di molti enti locali e realtà minoritarie in collaborazione con l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, alla guida dell'associazione culturale Mantova ebraica e Consigliere della fondazione Università di Mantova, Norsa lascia la moglie Licia, i figli Aldo e Manuela e i nipoti Rebecca Alessandro e Davide. I funerali si svolgeranno domani, lunedì 9 gennaio, alle 10.30 al cimitero ebraico di Mantova.
Esprimendo i sentimenti degli ebrei italiani, il Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche, Renzo Gattegna, ha dichiarato: “Tutte le comunità ebraiche italiane si stringono commosse intorno alla famiglia Norsa e alla moglie Licia. La scomparsa di Fabio, ex consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, presidente della Comunità ebraica di Mantova, presidente dell’Osservatorio contro le discriminazioni e promotore di innumerevoli iniziative di carattere umanitario, tutte finalizzate alla lotta contro il razzismo e l’antisemitismo, lascia in tutti noi un vuoto incolmabile. Tutti coloro che hanno avuto la fortuna di conoscerlo e di essergli vicini hanno apprezzato le sue doti di dirigente ma soprattutto le sue qualità umane, la generosità, la sincerità, la capacità di dialogare apertamente con ciascuno, e ancora il suo saper essere un vero amico sempre leale e disponibile. In questo momento di tristezza mi piace ricordare di lui anche i molti successi ottenuti nel karate, disciplina di cui è stato un grande maestro. Fabio non ha mai smesso i panni del lottatore, sia in pubblico che in privato. Neanche in questi ultimi durissimi mesi quando, pur preoccupati per le sue condizioni di salute, abbiamo ammirato la forza e la determinazione con le quali ha combattuto contro la malattia che lo aveva colpito”.
In un lettera indirizzata ai redattori e ai collaboratori del Portale dell'ebraismo italiano, il coordinatore dei dipartimenti Informazione e Cultura UCEI Guido Vitale ha fra l'altro ricordato come Norsa sia stato per la redazione “un fraterno amico e un prezioso punto di riferimento. Al suo impegno si deve, fra l'altro, la costituzione dell'Osservatorio Articolo 3, che in pochi anni di lavoro si è affermato come un modello di collaborazione attiva fra diversi gruppi minoritari non solo in campo nazionale, ma anche in tutta Europa. Alla sua amicizia l'aggancio del giornale dell'ebraismo italiano Pagine Ebraiche al prestigioso Festival Mantova Letteratura e molto, molto altro ancora”. Il messaggio si conclude rinnovando "l'impegno di camminare, giorno dopo giorno, verso quei traguardi per cui Fabio si è sempre battuto con umiltà e tenacia".
Innumerevoli le testimonianze di affetto che continuano a giungere in queste ore alla famiglia e alla Comunità da amici e colleghi, da esponenti delle istituzioni, del mondo accademico e delle comunità religiose e da semplici cittadini. “La Chiesa di Mantova, oltre alla città – dice il vescovo Roberto Busti, tra i primi ad accorrere per incontrare i famigliari – perde un amico e una persona di valore. Lo accompagna il mio affettuoso ricordo e una grande stima”. Commosso per la perdita anche lo storico Frediano Sessi, che afferma: “Fabio è stato un amico fraterno, un compagno di battaglie per diffondere la memoria”. L’architetto David Palterer ricorda le avventure vissute assieme in questi anni sottolineando come “il coraggio e la dignità con cui ha affrontato la malattia saranno per noi tutti un indelebile esempio”. Pierluigi Pajello, maestro di karate con il quale Norsa ha contribuito a far nascere numerose palestre nel mantovano, trasmette il cordoglio sentito della grande famiglia del karate ad uno sportivo "di elevato spessore tecnico ed umano". Per Emanuele Nitri, referente dell’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar), “Norsa è stato un punto di riferimento fondamentale, insostituibile e franco”. La sua presenza, dice anche a nome del direttore generale Massimiliano Monnanni, "si perpetuerà nelle opere che lo hanno visto protagonista di una vita. La sua città, che del cognome Norsa già tante e non irrilevanti tracce conserva, saprà onorarne ora la memoria e mantenerne viva l'immensa eredità ideale e materiale”.


pilpul
Davar acher - Israele e gli Haredim
Ugo VolliPenso che sia importante raccogliere l'invito di Guido Vitale a discutere del problema del rapporto fra Israele e gli haredim che si è imposto all'attenzione pubblica in questi ultime settimane. Anche se sperabilmente non dovremo assistere subito a nuovi episodi intollerabili come l'aggressione a una bambina "vestita troppo immodestamente" e la sfilata di persone travestite da prigionieri dei Lager nazisti per protestare contro lo Stato ebraico, il problema dell'insofferenza di settori "ultraortodossi" alle regole della società israeliana è destinato a durare e a rinnovarsi. Non credo però che il problema sia solo la "modestia" come valore ebraico: nessuno in Israele, credo, ha tentato di proibire pratiche di modestia sia pur molto lontane dalle abitudine occidentali come la parrucca per le donne sposate o gli indumenti caratteristici degli haredim. Sono loro - o meglio alcuni di loro - a voler imporre a tutti gli altri certe loro abitudini: come gli autobus e i marciapiedi separati per genere o la proibizione della voce femminile nelle cerimonie militari.
Vi sono stati negli ultimi tempi anche altri episodi che non riguardano questo tema, come i disordini per impedire l'apertura di un parcheggio a Gerusalemme funzionante anche a Shabbat con personale non ebraico, l'esistenza di squadre che si autoattribuiscono la "difesa della virtù" in certi quartieri, le aggressioni al libraio di Meah Shearim che rifiutava la supervisione "morale" di uno di questi gruppi, i vandalismi a difesa di una donna messa sotto inchiesta per maltrattamenti ai suoi figli, le aggressioni a chi festeggiava il giorno dell'indipendenza, l'appoggio espresso da alcuni ad Ahmadinedjad o Hamas. Credo che il discorso vada sviluppato sul tema più generale del rapporto fra Stato di Israele e minoranza haredì.
Due punti vanno sottolineati. Il primo è che accade spesso che per diffamare l'intero popolo ebraico si prenda come obiettivo una sua parte. E' accaduto in Germania prima della Shoah a proposito degli ebrei orientali (l'opera di Joseph Roth e di Martin Buber non valse a far cessare l'incitamento all'odio), spesso è accaduto a proposito dei lavori finanziari svolti da una parte della popolazione ebraica. Accade oggi largamente anche a proposito di "coloni" e di "ultraortodossi", che da buona parte della stampa sono stati confusi fra loro e diventati mostri, "minacce alla democrazia israeliana", ragioni per mettere Israele sullo stesso piano dell'Iran. Mi sembra che nessuno nel mondo ebraico dovrebbe prestarsi a simili demonizzazioni.
Il secondo è che il sionismo è nato laico, in polemica con il "vecchio ebreo" dello shtetl. Ma tutto il sionismo storico, da Theodor Herzl a David Ben Gurion ha cercato come politica costante di ottenere l'appoggio di settori religiosi, anche a costo di sacrificare aspetti importanti della laicità. A questo appello ha risposto una parte importante del mondo religioso, a partire da Rav Kook fino all'ebraismo della diaspora, che si è impegnata nell'impresa della ricostruzione dello Stato ebraico - mentre altri settori consistenti soprattutto provenienti dal chassidismo più tradizionale si sono opposti violentemente all'impresa. Israele ha comunque fatto notevoli sacrifici per consentire a chi volesse vivere un'esistenza di puro studio della Torah la possibilità di farlo: ha concesso loro esenzioni dal servizio militare, sostegno economico, abitazioni e altre strutture. Lo spazio riservato alla vita religiosa dalla fondazione dello Stato di Israele non è stato solo il frutto di un calcolo elettorale o politico, ma il tentativo di ricomporre nella terra dei padri la pluralità dell'ebraismo, senza escludere chi voleva interpretare la continuità e la memoria della tradizione. La scommessa di cui oggi non possiamo dire di conoscere il risultato, era di arrivare prima o poi a un'integrazione. Negli ultimi decenni la parte non haredì di Israele si è molto evoluta, dal semisocialismo agricolo dei primi decenni dello Stato a una società all'avanguardia della tecnica e dell'economia dell'informazione, con tutti i problemi che ne seguono: la distanza è dunque aumentata per certi aspetti, anche se in modi meno evidenti si è creato un intreccio sociale positivo: nel lavoro (non tutti gli haredim non lavorano), nel servizio militare (non tutti lo evitano), nella disseminazione della vita quotidiana. Politiche opportune, per esempio su un curriculum scolastico minimo obbligatorio per tutti, possono favorire un'ulteriore integrazione.
Anche se ne deploro certi aspetti, come l'inesistenza di matrimoni civili e la discriminazione ai danni di certe tendenze religiose ebraiche, a me pare che questo tentativo di integrazione debba essere continuato, che l'affermazione di Israele come Stato della nazione ebraica comporti necessariamente un impegno nei confronti della nostra religione. Al fondo di questo problema vi è il nesso certamente complesso fra popolo ebraico e religione ebraica. Per millenni, dispersi per il mondo, la Torah è stata la nostra "patria portatile", come si espresse Heine: la Torah intesa come pratica di vita, non semplicemente come etica e fede monoteista. E' un certo modo di vivere che ci ha unificato e preservato come popolo. Difficile negare che il mondo haredì sia il più attaccato oggi alla conservazione di quello stile di vita, anche al di là delle regole esplicite dell'Halakhah, e anche fissandolo stranamente (per esempio negli abiti sette e ottocenteschi) a un momento storico preciso e non particolarmente preciso dell'esilio.
Credo perciò che sia sbagliato demonizzare l'intero mondo haredì, che fra l'altro è particolarmente frastagliato e suddiviso. E' urgente una capacità politica, ma ancor prima intellettuale, di distinguere fra coloro che si sono rifugiati in un rifiuto settario assoluto delle scelte del popolo ebraico (qualcuno lo paragona per l'isolamento e la presunzione di detenere da soli la purezza alle posizioni degli antichi esseni) e coloro che vogliono mantenere il legame con i costumi antichi, oltre che naturalmente con un'interpretazione particolarmente rigorosa della Legge. Il riconoscimento della legalità dello Stato e delle sue norme, l'accettazione della libertà di comportamento di coloro che vivono in maniera diversa il loro ebraismo, il rifiuto della violenza di gruppo, la condivisione del destino storico del popolo ebraico e dunque il patriottismo nei confronti dello Stato di Israele mi sembrano i criteri ovvi di tale distinzione.
Vivendo noi in un paesaggio culturale che non sa quasi nulla dell'ebraismo, credo che a noi ebrei della Diaspora tocchi il dovere di chiarire a tutti continuamente che in Israele non esiste solo un modo di seguire la Torah, che oltre agli haredim, vi sono altre correnti altrettanto religiose, anche se si esprimono in maniera diversa. E' degno di nota per esempio che la bambina molestata a Beit Shemesh non fosse "laica" o estranea all'ebraismo, ma appartenesse a una famiglia datì leumì, sionista religiosa (cioè quel gruppo, di dimensioni analoghe agli haredim, che di solito è demonizzato per il suo impegno religioso verso la terra di Israele: non propenso a evitare il servizio militare, ma al contrario impegnato nella difesa del paese e degli insediamenti oltre la linea verde). L'episodio non è stato un capitolo del conflitto fra religione e laicismo, ma fra due diversi modi di cercare di calare nel quotidiano un'ispirazione religiosa. Vi sono poi in Israele i Modern Orthodox, i vari movimenti "modernisti" dai Massorti ai Reform, la maggioranza della popolazione che vive molto blandamente o per nulla la dimensione religiosa della vita.
In una democrazia moderna tutte queste posizioni hanno diritto di cittadinanza. Nessuno dovrebbe essere demonizzato per i suoi costumi. Il solo limite alla libera espressione non può che essere la libertà altrui e la sicurezza di tutti, dunque la vita dello Stato. Di fatto questo è l'ideale che Israele pratica come qualunque nazione occidentale. Che siano liberissimi di esprimersi anche gli haredim dei movimenti antisionisti più estremi, nemici dello Stato e intenti a denigrarlo con blasfeme pagliacciate come la sfilata in costumi da deportati, è un'ennesima prova di maturità democratica. Che l'aggressione verbale a una bambina per il suo abbigliamento sia respinta dai vertici dello Stato e dall'opinione pubblica, è un'altro sintomo della stessa maturità. Come lo è il fatto che senza incidenti si siano svolte le manifestazioni per contestare gli autobus separati per generi. Insomma Israele ha gli anticorpi per evitare i rischi alla democrazia che alcuni critici interessati vedono nell'esistenza degli haredim. Di più: ha la possibilità, con una politica equilibrata, ponendo condizioni ai privilegi di cui godono questi settori, di cercare di integrarli e di farne una risorsa collettiva: un lavoro lungo e complesso, ma essenziale.

Ugo Volli
notizieflash rassegna stampa
Un nuovo giornale (in inglese)
per dare voce agli ebrei tedeschi
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Un giornale per dare voce agli ebrei di Germania, un giornale per raccontare vivacità intellettuale, sogni e speranze di una comunità rifiorita dopo gli orrori della Shoah. Si chiama The Jewish Voice from Germany ed è il primo giornale ebraico in inglese mai realizzato a Berlino. La testata, fondata dall’intellettuale Rafael Seligmann, si avvarrà del lavoro di otto giornalisti e di tre corrispondenti da Roma, New York e Tel Aviv.










 
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