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5 marzo
2012 - 11 Adar 5772 |
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Adolfo
Locci
rabbino capo
di Padova
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L'olio
che serviva per l'accensione della Menoràh doveva essere il risultato
della prima spremitura delle olive e fatta a mano. Poi, le olive,
venivano portate al frantoio per estrarre il restante olio che sarebbe
servito per le offerte farinacee. Spiegano i Maestri che l'olio per la
Menoràh, la cui luce simboleggia la Torah, rappresenta lo sforzo
diretto di ognuno di noi nella propria attività di studio. Uno studio
che deve essere continuo, perenne, fonte necessaria per alimentare la
Torah come l'olio lo era per la luce che irradiava dalla Menoràh.
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Anna
Foa,
storica
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Seppellire la memoria di una
lingua, ci dice Marek Halter sulla Repubblica di ieri, è più
difficile che seppellire i corpi. Eppure, Halter credeva che Hitler,
pur perdendo la suia scommessa di annientare gli ebrei, avesse vinto
almeno quella di annientare lo yiddish. Ma si è ricreduto visitando la
Repubblica del Birobidzhan, che credeva quasi scomparsa negli ultimi
anni della vita di Stalin, con la grande repressione degli ebrei russi
e della cultura yiddish. E invece, la Repubblica autonoma degli ebrei,
creata in Siberia nel 1932 per dare una patria agli ebrei russi, esiste
ancora, e Halter l'ha visitata, incontrando rabbini e maestre di
yiddish, due sinagoghe e un teatro in yiddish, in una città, la
capitale, che contiene forse ottomila ebrei, ma in cui quasi tutti gli
abitanti, oltre settantamila, hanno almeno un antenato ebreo, anche i
cinesi e i coreani. Collocato a novemila chilometri da Mosca, il
Birobidzhan guarda geograficamente verso la Corea, ma la sua cultura è
quella dell'Europa orientale, della Russia e della Polonia del
Novecento. Il russo ha in parte soppiantato lo Yiddish, certo, ma non
del tutto, ed esso viene ancora insegnato come una lingua viva, un
utile strumento di vita. È un reportage straordinario su qualcosa di
cui pochi ancora sanno e su cui forse vale la pena di tornare a
riflettere, ricollocandolo nel contesto del mondo ebraico e delle sue
molteplici anime.
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Israele -
Hatikwa e fedeltà alla nazione
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“Un traditore della patria
che dovrebbe dimettersi”, per alcuni. “Una persona onesta che ha
evitato comportamenti ipocriti”, per altri. Stanno facendo molto
discutere, in Israele e nel mondo, le immagini della cerimonia che ha
fatto da sfondo al commiato del presidente della Corte suprema
israeliana Dorit Beinisch, che dopo cinque anni e mezzo di servizio,
giunta in età da pensione, ha da poche ore lasciato il prestigioso
incarico al collega Asher Don Grunis. La Beinisch ha appena terminato
un intenso e commovente discorso in cui, tra le lacrime, si è
soffermata sulle tragiche vicende dei nonni uccisi nei campi di
sterminio nazisti. Il momento è solenne; la tensione emotiva, come
comprensibile, fortissima. Al termine dell'intervento partono le note
dell'Hatikwa, l'inno dello Stato di Israele. I quindici giudici della
Corte sono impettiti cantano con partecipazione. Tutti, tranne uno:
Salim Joubran, l'unico membro arabo del collegio. L'unico a restare in
composto silenzio.
Ed è subito putiferio. A scatenarlo in particolare gli uomini del
partito governativo Yisrael Beitenu secondo cui l'uomo, con il suo
comportamento, avrebbe offeso la coscienza e le istituzioni di Israele.
“Chi trova discutibili le parole del nostro inno può tranquillamente
andarsene in un altro paese con un inno che più lo aggrada” dice il
deputato David Rotem, tra i più accesi. All'interno dello schieramento
ci sono posizioni anche meno aspre, ma il succo resta questo: Joubran
ha sbagliato ed è il caso che faccia un passo indietro rassegnando le
dimissioni. Torna così con insistenza nel dibattito pubblico il tema
della “fedeltà alla nazione”, tema più volte sollevato da Yisrael
Beitenu ma questa volta declinato lungo tonalità diverse. Quelle
dell'Hatikwa, appunto, il canto di speranza del popolo
ebraico ideato nel 1878 da Naphtali Herz Imber. “Finché dentro il cuore
l'anima ebraica anela e verso l'oriente lontano un occhio guarda a Sion
– recitano le due strofe dell'Hatikwa – non è ancora persa la nostra
speranza due volte millenaria, di essere un popolo libero nella nostra
terra, la terra di Sion e Gerusalemme”. Molti, in Israele si sono
domandati cosa abbia bloccato Joubran. Se il suo atteggiamento, da non
ebreo, meriti comprensione e un ragionamento più approfondito. A
intervenire tra gli altri l'autorevole quotidiano Haaretz con un
editoriale che ha alimentato ulteriormente il dibattito e le polemiche.
“È tempo – si legge nel pezzo – che in Israele si lavori a una modifica
delle parole dell'inno nazionale affinché tutti gli israeliani possano
sentirsi coinvolti quando questo viene eseguito. Le parole attuali
dell'Hatikwa furono scritte come espressione esclusiva dei sentimenti
del popolo ebraico. Nessun cittadino arabo che ha rispetto di se stesso
e della propria storia, può quindi cantarle senza commettere un peccato
di ipocrisia e falsità”. Quasi pleonastico aggiungere come questo
intervento sia stato accolto con sarcasmo dagli ambienti più
nazionalistici dell'arena politica.
Esiste però anche una terza via: quella di chi non vede ragione per cui
si debba procedere a una revisione dell'inno e rispetta allo stesso
tempo la decisione di Joubran. È la posizione ad esempio di Elyakim
Rubinstein, giudice della Corte suprema di area conservatrice, che a
proposito del 'casus belli' dice: “Non possiamo pretendere che i
cittadini arabi cantino l'Hatikwa visto che non parla ai loro cuori e
non rispecchia le loro radici. Se qualcuno poi vuole farlo è il
benvenuto, ma questo non deve essere in alcun modo un obbligo”.
Adam
Smulevich - twitter
@asmulevichmoked
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Gariwo
lancia l’appello al Parlamento europeo
“Dedichiamo il 6 marzo alla Memoria dei Giusti”
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Si svolgerà domani al Teatro
Parenti di Milano, dalle 16 alle 20, una manifestazione organizzata
dall'Associazione onlus Gariwo - la foresta dei Giusti, per dire grazie
ai Giusti, ovvero alle donne e agli uomini che si sono opposti e ancor
oggi si oppongono ai genocidi, in difesa dei diritti umani, alla quale
saranno tra gli altri presenti Gabriele Albertini, Ferruccio De Bortoli, Antonio
Ferrari, Stefano Levi Della Torre, Salvatore Natoli, Vittorio Emanuele
Parsi, David Sassoli, Roberto Jarach, Pietro Kuciukian, Francesco M.
Cataluccio, Ruggero Gabbai e tanti altri.
L’iniziativa
è a sostegno dell’appello lanciato da Gariwo per chiedere al Parlamento
europeo l'istituzione della Giornata europea dei Giusti per cui a
gennaio si è dato avvio alla raccolta delle 369 firme necessarie per
l'approvazione. Si tratta di una mozione di alto valore morale, che
l'Italia presenta all'Europa in un passaggio critico della sua storia,
perché venga dato riconoscimento ufficiale a quelle figure di uomini e
donne che hanno vissuto concretamente quei valori di rispetto della
libertà e di tutela della vita e della dignità umana su cui si è
fondata l'unità dell'Europa.
Mai come quest’anno le iniziative organizzate
per il Giorno della Memoria hanno lasciato il segno, con eventi in
tutte le città italiane e interventi particolarmente significativi. Una
delle organizzazioni che è da anni in prima fila nell’impegno per la
Memoria a Milano e non solo, rimane in primavera nel pieno della sua
attività. Si tratta di Gariwo, il Giardino dei Giusti di tutto il Mondo
nato al Monte Stella sull'esempio del Giardino dei Giusti di Yad Vashem
a Gerusalemme, gestito in collaborazione con il Comune e l’Unione delle
Comunità Ebraiche Italiane. Ogni anno, con l’arrivo della bella
stagione, Gariwo pianta nuovi alberi dedicati a coloro che in ogni
angolo del globo, nei momenti bui del Novecento, hanno cercato di
impedire il crimine di genocidio e a chi oggi si batte contro i
ricorrenti tentativi di negare la realtà delle persecuzioni. E nel 2012
c’è una novità importante, la presentazione di una petizione al
Parlamento europeo per istituire una Giornata in memoria dei Giusti che
venga celebrata in tutto il continente. A spiegare come nasce
l’iniziativa è Gabriele Nissim, fondatore e presidente di Gariwo,
autore di numerosi libri, tra cui L'uomo che fermò Hitler, Il tribunale
del bene, La bontà insensata.
Dottor Nissim, perché proporre una Giornata per i Giusti?
L’obiettivo della nostra attività è sempre
stato quello di rendere universale l’idea nata a Yad Vashem, e cioè
evidenziare la responsabilità personale di ogni individuo nei momenti
difficili dell’umanità, la possibilità, che ciascuno ha, sempre, di
affermare ‘dove ci sono io, il male non passa’, che era poi il
principio fondamentale che ispirava il lavoro di Moshe Bejski (giudice
della Corte Suprema israeliana che presiedette per cinque anni, dal
1970 al 1975, la commissione per il riconoscimento dei Giusti tra le
Nazioni del Museo di Yad Vashem ndr). In questi anni abbiamo portato
avanti iniziative per ricordare coloro che salvarono vite umane non
solo durante la Shoah, ma in tanti altri capitoli tristi della storia
recente, il genocidio armeno, la guerra in Bosnia… Da qui nasce l’idea
di rivolgere al Parlamento europeo un appello per istituire una
Giornata in Memoria dei Giusti. Abbiamo trovato l’appoggio entusiasta
di cinque eurodeputati (tra cui tre italiani): Gabriele Albertini, Lena
Kolarska–Bobiska, Ioan Mircea Pacu, Niccolò Rinaldi e David-Maria
Sassoli. A questo punto dobbiamo aspettare di vedere cosa succederà.
Non sarà facile, considerando che affinché la Giornata sia
effettivamente istituita è necessario che la maggioranza dei deputati
vada appositamente ad apporre la propria firma, ma noi stiamo facendo
il possibile per sensibilizzare sia il Parlamento sia il pubblico,
anche attraverso una campagna sui social network, con un’applicazione
Facebook in tutte le lingue europee. La data scelta è quella del 6
marzo proprio in omaggio a Bejski, che scomparve il 6 marzo 2007.
Quest’anno la
scelta di Gariwo è stata quella di celebrare il Giorno della Memoria
invitando due donne ruandesi, Yolande Mukagasana, sopravvissuta al
genocidio dei tutsi del 1994 e candidata al Premio Nobel per la Pace
2011, e la sua salvatrice hutu Jacqueline Mukansoner.
Sì, è un’iniziativa molto importante perché in Ruanda la situazione tra
le due etnie è ancora tesa. Le nostre ospiti hanno accettato con
grandissimo entusiasmo, dandoci la grande possibilità di ascoltare la
viva voce di una vittima del genocidio visto che Yolande Mukagasana ha
perso il marito, i figli, i fratelli, i genitori, e di una Giusta, che
la nascose in un mobile di casa mettendo a rischio tutto per salvarla,
e siamo riusciti a ottenere dal governo ruandese, nonostante il clima
di guerra civile e il negazionismo del genocidio che permane tuttora,
una collina in cui creare un Giardino dei Giusti del Ruanda, dove mi
recherò nei prossimi mesi per l’inaugurazione.
Il Giorno
della Memoria esiste dal 2001. Sono ormai tanti anni che lei va a
parlare nelle scuole. Nota nei ragazzi una reazione diversa, una
maggiore consapevolezza, rispetto ai primi tempi?
Io penso che le Giornate della Memoria funzionino a patto che non siano
ripetitive, a patto che la Memoria non diventi retorica. È necessario
coinvolgere i ragazzi trasmettendo loro il messaggio che fare qualcosa
contro il male è possibile. A quel punto i ragazzi si immedesimano e
cominciano ad applicare questi principi al mondo contemporaneo, al
contrasto di fenomeni come l’antisemitismo e il razzismo. D’altronde,
la grande intuizione di Bejski fu proprio realizzare quanto sia potente
l’effetto della Memoria del Bene. Concentrandosi
sulla Memoria di chi, quando venne il momento di decidere, scelse il
bene, non si rischia però di far scattare un meccanismo
autoassolutorio, dimenticando tutti coloro, la maggioranza della
popolazione, che invece scelse il male o l’indifferenza?
Al contrario, l’idea di ricordare i Giusti corrisponde proprio alla
volontà di mettere in discussione chi Giusto non fu, nascondendosi
dietro l’assunto che le cose andavano in un certo modo e che era
inevitabile. Idea per esempio sostenuta da molti di coloro che
difendono l’operato di Pio XII. In L’uomo che fermò Hitler racconto la
storia del capo della Chiesa ortodossa di Bulgaria, che attaccò il re
in piazza per spingerlo a salvare gli ebrei. Ricordare cosa fecero i
Giusti non è creare un alibi, è dimostrare nel concreto che qualcosa
era possibile fare, in ogni luogo e circostanza. Bastava scegliere di
farlo.
Rossella Tercatin - twitter
@rtercatinmoked
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Qui
Bologna - Uno shabbaton ponte tra Italia e Israele
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Bologna:
una realtà
molteplice che non tutti conoscono, è stata teatro questo weekend di un
incontro importante. Il Dipartimento Educazione e Cultura (Dec)
dell'Ucei ha organizzato insieme alla Comunità ebraica di Bologna e
all'Unione dei Giovani Ebrei d'Italia (Ugei) uno shabaton che ha visto
la partecipazione non solo delle famiglie bolognesi e del rabbino capo
rav Alberto Sermoneta, che ha fatto da guida, ma anche dei
giovani locali e studenti israeliani che le università italiane
ospitano notoriamente da anni: questi giovani studenti sono quelli che
spesso dopo la laurea si trovano a non tornare in Israele e a
stabilirsi in in Italia, in particolare nelle città dell'Emilia Romagna.
Sorge spontanea la riflessione, condivisa da tempo dal presidente Guido
Ottolenghi e dal Consiglio della Comunità, per cui l'incontro o magari
l'integrazione tra queste due realtà parallele - l'Italia ebraica delle
comunità e quella dei non iscritti o ebrei che si ritrovano per diversi
motivi ad "errare" nel Bel Paese - sia necessaria. Se questo
avvenisse si prefigurerebbe una realtà interessante, viva e stimolante,
che di nuovo vedrebbe nell'Italia quel crocevia e luogo di incontro
socio-culturale del Mediterraneo che è stato per secoli. Bologna
rappresenta in questo senso una risorsa per l'ebraismo italiano.
Venerdì sera la mensa della comunità ha messo in scena questa visione:
studenti israeliani si sono trovati a condividere un pasto dello
shabbat tra le voci tonanti dei ragazzi dell'Ugei e dell'Ufficio
Giovani Nazionale dell'Ucei, che hanno cantato secondo il rito
italiano. Da qui è poi partita la curiosità e la voglia di stare
insieme, uscire, confrontarsi su molte questioni che ci appartengono e
promettersi di riorganizzare ancora qualcosa. Ci auguriamo molto presto.
Ilana
Bahbout, coordinatrice Dec Ucei
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Qui Roma
- La rotta dei leader del domani
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Chi s’imbarca sulla nave
Hans Jonas pensa di sapere cosa lo attende: un viaggio sicuro al
termine del quale, grazie alle nozioni che avrà appreso, sarà
trasformato nel perfetto leader del futuro. Però si sa, il mare riserva
sempre delle sorprese. Infatti partecipare al master è come trovarsi in
preda a una tempesta, sballottati da una parte all’altra del mondo
della cultura e della tecnica, facendo incontri sempre diversi.
E così la penultima sessione del master, tenutasi ieri a Roma, ha
portato i partecipanti a compiere un viaggio nel tempo attraverso
l’originale interpretazione della storia ebraica data dallo storico
David Bidussa per tornare poi al presente con l’intervento del
vicepresidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Anselmo
Calò. Come aveva già fatto quest’estate per noi di Redazione Aperta,
l’assessore ha illustrato quali siano le risorse delle comunità
ebraiche e come queste vengano sfruttate.
Ma non si tratta solo di muoversi, all’interno delle singole sessioni,
fra discipline diverse, dalle appassionanti vicende della storia ai
concreti dati dell’economia. Il master, se guardato nel suo complesso,
è un viaggio anche fra i vari poli interpretativi dei saperi stessi. E
così, ecco che dopo il confronto su giustizia e amore del mese scorso
fra il rav Roberto della Rocca e la storica Anna Foa,
un’interpretazione diametralmente opposta del diritto e dell’ebraismo è
stata fornita ieri pomeriggio nel dibattito su diritti e doveri che ha
visto protagonisti il rav Roberto Colombo e il professor Pietro
Gargiulo.
Così, se si dovesse leggere il diario di bordo di un masterando, questo
presenterebbe continue contraddizioni, violenti cambiamenti di rotta,
costellazioni di punti interrogativi. Ma è sono proprio questi, in
realtà, gli elementi che più di tutti possono concorrere a formare un
vero leader: non solo il sapersi destreggiare fra opinioni diverse e
adattare alle situazioni, ma anche la consapevolezza di doversi sempre
mettere in discussione, di avere pochissime certezze e della necessità
di abbandonarle e ribaltarle di fronte a nuove sfide ideologiche. Una
lezione importante, che a pensarci bene l’uomo conosce da sempre:
Ulisse sarebbe stato lo stesso uomo e lo stesso re a Itaca se prima non
avesse vissuto tutte le ben note avventure e non si fosse confrontato
con tutti i personaggi dell’Odissea?
Francesca
Matalon
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In cornice - Lo sguardo
della borghesia antisemita
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Camminando la scorsa
settimana per Firenze, sono entrato in Santa Felicita, uno dei tanti
tesori sconosciuti della città. E' un interessante guazzabuglio di
diverse epoche, con un affresco fondamentale di Pontormo, resti di età
romana, paleocristiana, gotica e poi un curioso dipinto dal titolo
“Santa Felicita e il martirio dei Maccabei” datato 1863. L'opera è di
per sé abbastanza interessante, frutto dell'influenza di Jean-Auguste
Ingres (1780-1867), con la luce intensa che emana dal centro della
tela, e del tardo rinascimento italiano, con forme monumentali e
precise quasi michelangiolesche; del resto l'autore è Antonio Ciseri,
vissuto a metà fra Firenze e la Svizzera e molto noto ai suoi tempi. Ma
quel che più interessa è il soggetto del quadro. La chiesa cattolica,
già nei suoi primi secoli in Europa, aveva fatto propria la storia dei
Maccabei, che aveva nominato santi (con ricorrenza l'1 Agosto) come
simboli della lotta contro l'idolatria. Ma, già nel IV secolo e.v., si
diffuse anche il culto di Felicita, nobildonna romana uccisa
dall'imperatore Antonino Pio (II secolo e.v.) insieme ai suoi sette
figli, per essersi dichiarata cristiana. Molto presto le due storie
incredibilmente si mischiano. I figli di Felicita, prima assorbono i
caratteri dei Maccabei, come simbolo della lotta anti-pagana, poi
addirittura li sostituiscono (come se i Maccabei fossero stati uccisi
da Antonino Pio – e così sembra nel quadro), e finiscono in secondo
piano rispetto a Felicita, che è cristiana. Siamo difronte a un
racconto tipico di vetero-cattolicesimo, che rilegge l'ebraismo, si
appropria di quel che gli pare meglio, e lo mette comunque ai margini.
Ma il dipinto di Firenze è de 1863, dopo l'apertura dei ghetti, ed è
stato realizzato dopo una gestazione di quasi 10 anni; il Ciseri, poi,
era un signore che frequentava i salotti della nobità e buona borghesia
del tempo, non uno zotico qualsiasi. Possibile che non si sia reso
conto del falso storico? Che i suoi amici di salotto non l'avessero
avvertito? Mi pare, invece, che quel dipinto dimostri il persistente
antisemitismo di parte della buona borghesia italiana dell'Ottocento,
poco soddisfatta dell'apertura dei ghetti. Ciseri stesso, era
retrogrado anche come artista perché si oppose alle nuove correnti
artistiche, come l'impressionismo, tanto da smettere di dipingere.
L'arte è una chiave fondamentale per capire lo sviluppo dei movimenti e
delle idee, anche quelle che ci piacciono meno.
Daniele
Liberanome, critico d'arte
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Tea for Two - Purim
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Si avvicina Purim, dopo i
coriandoli e i bambini imbellettati a Carnevale tocca a noi. Ma come si
può riassumere questa meravigliosa festività che è in procinto di fare
la sua maestosa entrata?
Partecipare
a feste mascherate. Il che significa per molte ragazze indossare un
vestito da urlo e delle orecchie da animaletto e credere di aver
risolto l'annoso problema del travestimento. Mentre per gli aspiranti
artisti è il momento di poter far fruttare finalmente le ore passate a
guardare alla televisione Art Attack.
Un
momento di riflessione. Ebbene si, tra divertimento ed euforia possiamo
ritagliarci un attimo per riflessioni sui massimi sistemi. Le cose
dovevano andare in un modo, sono andate in un altro. Allora giochiamo
ad essere ciò che non siamo. Ma sappiamo quel che siamo? "Codesto solo
oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo". Tanto
per inserire in maniera fantasiosa Montale.
Raccontare
la storia di Purim agli amici non ebrei che ancora non la conoscono.
Quel pizzico di intrigo, di situazione in mano a una donna, quel re
tondo e giocondo e un po' tontolone... Sarà un divertimento assicurato.
In
vino veritas. "Alziamo il bicchier, brindiamo a un futuro felice
davver" (ho appena citato un cartone Disney, chiedo umilmente perdono).
Festeggiare bevendo è d'obbligo, ma se nell'allegria ebbra rivelassimo
i piccoli segreti inconfessabili della nostra vita? Tanto vale che ve
li dica fin da ora: fino a qualche anno fa credevo che il film delle
Spice Girls fosse un capolavoro cinematografico, so i nomi e i cognomi
dei partecipanti della prima stagione del Grande fratello in ordine di
uscita dalla casa. Con i capelli lisci cambio personalità. Ho passato
buona parte dei miei dodici anni ad ascoltare Laura Pausini. Meglio
smettere, i brandelli di dignità chiedono la grazia.
Mangiare.
Ancora qui a leggere? Sono onorata, ma probabilmente è tempo di
accaparrarsi dolciumi e orecchie di Aman (che io ho sempre immaginato
come Jafar, il cattivo di Aladdin). Presi dal fuoco sacro della cucina
potreste anche cimentarvi nel prepararle. Tanto rassegnatevi, i chili
di troppo pendono come una spada di Damocle.
Chag Sameach!
Rachel
Silvera, studentessa
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notizie
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rassegna
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Visita di
Netanyahu a Washington
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Leggi la rassegna |
Viaggio ufficiale del premier israeliano Benjamin Netanyahu a
Washington dove, in occasione del congresso dell'AIPAC, sarà
ricevuto dal presidente degli Stati Uniti
Barack Obama. Al centro dei colloqui il dossier del
nucleare iraniano. Ieri Netanyahu ha accolto con favore le
dichiarazioni fatte dall'inquilino della Casa Bianca
sull'argomento. "Ho molto apprezzato il fatto che il presidente
Obama abbia ribadito la sua posizione sul fatto che all'Iran
non deve essere permesso di sviluppare l'arma nucleare e che tutte le
opzioni sono sul tavolo", ha detto Netanyahu dal Canada.
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
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