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4 aprile 2012- 12 Nisan 5772
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alef/tav
david sciunnach David
Sciunnach,
rabbino 

I Maestri ci insegnano che Pesach, è la festa in cui la bocca parla “pe-sach”. Nella Haggadah, sono contenute tutte le formule rituali e i gesti che servono a stimolare i partecipanti così da generare una vera e propria narrazione audiovisiva. Pesach diviene così la celebrazione della centralità dell’educazione e del rapporto tra genitori, figli, maestri e discepoli. Pesach, tempo della nostra liberazione, deve ricordarci non soltanto la liberazione dalla schiavitù egiziana, che in essa è celebrata in maniera così evidente, ma deve anche aiutarci a liberarci da tutti quegli atteggiamenti istintivi negativi a cui siamo abituati. Il Grande Rabbì Izhak Luria nel Sèfer Likutè Torah (Parashà di Shemòt) spiega che nella parola Mizraim – Egitto è contenuta la radice Yètzèr – istinto. Pesach è quindi anche la festa della liberazione dalla tendenza al male (Yetzer ha-rà).

 Davide  Assael,
ricercatore



davide Assael
La vittoria di Aung San Suu Kyi alle recenti elezioni (anche se parziali) birmane, non a caso commentata anche da Elie Wisel, è un buon auspicio per il Pesach che ci apprestiamo a vivere. Ma il suo significato può ulteriormente estendersi, fino a incarnare il potenziale di penetrazione della democrazia in un’area geografica dove, diciamo così, non gode di grande credito. Ed, io credo, ha un significato anche per l’etica ebraica: il principio ghandiano della non violenza, verso cui io ho sempre mantenuto una posizione scettica per il semplice motivo che rischia di favorire la violenza del tiranno, può conseguire successi politici di rilievo, basta saper aspettare. Forse, ha un senso se ci si adatta al metro di misura temporale orientale, per cui la singola vita si dilegua nell’immensità dell’eterno.

davar
Pesach 5772 - Perché una nuova Haggadah
Quando negli scorsi giorni è stato riferito a Barack Obama che lo scrittore Jonathan Safran Foer aveva curato (assieme a Nathan Englander), una nuova Haggadah di Pesach, il Presidente degli Stuti Uniti si è domandato se al Seder della Casa Bianca in futuro non si sarebbe più utilizzata la leggendaria Maxwell Haggadah che accompagna la cena della Pasqua ebraica da decine di anni. Lo stesso scrittore, in un testo pubblicato questa settimana dal New York Times, racconta la sua esperienza di autore americano delle nuove generazioni di fronte al libro che in innumerevoli edizioni per gli ebrei segna la notte della conquista della libertà e la riaffermazione dell'identità.




Ho trascorso gran parte degli ultimi anni lavorando su una nuova Haggadah – il libro guida per le preghiere, i riti e i canti del Seder – e mi è stato chiesto frequentemente perché abbia scelto di togliere del tempo ai miei libri per impegnarmi in un simile progetto.
Per tutta la mia vita, i miei genitori hanno organizzato a casa il Seder della prima sera di Pesach. Quando la nostra famiglia si è allargata, così come si è allargata la nostra definizione di famiglia, abbiamo spostato la cena rituale dalla sala da pranzo al nostro seminterrato, più spazioso e un po’ umido. Da un tavolo siamo passati a un insieme di superfici assimilabili a dei tavoli, messi insieme alla meglio. Sapevo sempre quando si stava avvicinando Pesach, perché mio padre mi chiedeva di togliere la rete dal tavolo da ping pong. L’insieme veniva coperto da tovaglie ormai macchiate, che una volta erano state intonate fra loro.
Ogni volta c’era una Haggadah che i miei genitori avevano messo insieme fotocopiando le loro parti preferite provenienti da diverse Haggadot e poi, quando la famiglia Foer finalmente ebbe un accesso a internet, provenienti da varie fonti online. Perché questa sera è diversa dalle altre sere? Perché questa sera i diritti di copyright contano poco.
In assenza di una patria stabile, gli ebrei hanno trovato casa nei libri, e la Haggadah – il cui centro è la narrazione dell’Esodo dall’Egitto – è stata tradotta in più lingue e rivisitata più di qualsiasi altro libro ebraico. Ovunque gli ebrei siano arrivati, ci sono state Haggadot – a partire dalla Haggadah di Sarajevo del XIV secolo (che si narra sia sopravvissuta alla Seconda guerra mondiale nascosta sotto le assi del pavimento di un moschea, e nella guerra dei Balcani all’assedio di Sarajevo nella cassetta di sicurezza di una banca) fino a quelle realizzate dagli ebrei etiopi portati in Israele con l’Operazione Mosè.
Fra le settemila versioni conosciute, senza contare le innumerevoli versioni fatte in casa, ce n’è una che viene usata più di tutte le altre messe insieme. Fin dal 1932 la Maxwell House Haggadah – Maxwell House come la società del caffè – domina i riti ebraici americani.
Avendo avuto conferma nel 1920 che il chicco di caffè non è assimilabile a un cereale, ma a una bacca e quindi può essere kasher lePesach, la Maxwell House ha affidato all’agenzia pubblicitaria Joseph Jacobs il compito di portare il caffè, invece del tè, a essere la bevanda preferita nelle sere di Pesach. Se questo può suonare stravagante, bisogna allora ricordare che il caffè Maxwell House è sempre stato particolarmente popolare nelle case ebraiche.
Il risultato è un'Haggadah. E probabilmente la più lunga campagna promozionale della storia della pubblicità. Ne sono state messe in circolazione almeno 50 milioni di copie, gratuite, nei supermercati, e sono una fonte di ispirazione esattamente tanto quanto si potrebbe immaginare.
Tuttavia molte persone pensano con tenerezza alla Maxwell House Haggadah, per il piacere leggero che evoca. La versione Maxwell House è, in se stessa, una sorta di barzelletta ebraica – provate a nominarla a un gruppo di ebrei senza che scappi una risata. Per di più è gratis e, come la bevanda senza fronzoli alla caffeina che pubblicizza, soddisfa una necessità di base.
Il più leggendario di tutti i Seder – che, in un twist postmoderno, viene raccontato all’interno della Haggadah stessa – si svolse intorno all’inizio del II secolo a Bnei Barak, tra i più grandi studiosi dell’antichità ebraica. Si interruppe prematuramente quando alcuni studenti entrarono per annunciare che era ora delle preghiere del mattino. Se anche avessero letto tutta la Haggadah dall’inizio alla fine, seguendo al dettaglio tutte le prescrizioni e cantando ogni singolo verso di ogni canzone, hanno sicuramente speso la maggior parte del tempo facendo altro: estrapolando, discettando, discutendo. La storia dell’Esodo non deve essere semplicemente recitata, bisogna confrontarcisi.
Se anche la Haggadah Maxwell House non si è mai innalzata a incontrare le necessità spirituali e intellettuali del Seder, ha soddisfatto in maniera adeguata gli ebrei di una o due generazioni fa, che conoscevano bene i rituali. Ma gli attori non conoscono più bene la parte. In una sorta di ulteriore Esodo, gli ebrei americani si sono spostati: dalla povertà al benessere, dalla tradizione alla modernità, dalla conoscenza di una storia condivisa alla perdita della memoria collettiva.
I nostri nonni erano immigrati in America, ma erano nativi nell’ebraismo. Noi siamo il contrario: competenti sui divi americani, ma troppo ignoranti sugli eroi ebrei. Così ci comportiamo come immigrati nei confronti dell’ebraismo: siamo attenti, neghiamo, ci sentiamo a disagio e rischiamo di scivolare nell'indifferenza. Nella terra straniera della nostra fede abbiamo urgente bisogno di un libro guida.
Nonostante significhi “narrazione”, la Haggadah non si limita a raccontare una storia: è il nostro libro della memoria vivente. Non è sufficiente raccontare nuovamente la storia: dobbiamo tuffarci in essa con empatia totale. La Haggadah ci dice che “in ogni generazione ognuno deve vedere se stesso come se fosse colui che è uscito dall’Egitto”. Si tratta di un tuffo che è una sfida che spaventa. E per la mia generazione mette ansia in una maniera anche peggiore di quanto non lo facesse a coloro che nelle generazioni precedenti cercavano disperatamente di assimilarsi. Perché ora, oltre alla mancanza di educazione e conoscenze in cose ebraiche, ora c’è anche l’ombra del compiacimento collettivo.
L’integrazione degli ebrei e dei temi ebraici nella nostra cultura popolare è così forte che siamo intossicati dall’immagine artificiale di noi stessi. Anche io adoro i telefilm della serie Seinfeld, ma non è forse un problema quando vengono citati come riferimento per l’identità ebraica di qualcuno? Per molti di noi essere ebrei è diventato, soprattutto, una cosa umoristica. Tutto quello che ci rimane dopo il vuoto di sicurezza identitaria e di profondità è la risata.
Più o meno cinque anni fa ho notato in me un senso di mancanza. Forse mi era stato ispirato dalla paternità, o semplicemente dall’invecchiare. Nonostante io sia stato educato in una in una casa ebraica intellettuale e consapevole, non sapevo praticamente nulla di quello che sarebbe dovuto essere il mio sistema di valori.
Ancora peggio, ero soddisfatto di quel poco che sapevo. Qualche volta avevo pensato alla mia posizione come a un rifiuto, ma non si può rifiutare qualcosa che non si capisce e che non si è mai posseduto. Qualche volta ci pensavo come se fosse un risultato, ma il rinunciare passivamente non è affatto un risultato.
Perché dunque ho distolto l’attenzione dai miei libri e mi sono messo a fare l’editing di una nuova Haggadah? Perché volevo fare un passo avanti nella conversazione che potevo udire a malapena, attraverso la porta chiusa della mia ignoranza; un passo avanti verso un ebraismo di punti di domanda e non di virgolette, verso la storia del mio popolo, della mia famiglia e di me stesso.
Come ogni bambino il mio, che ha sei anni, adora le storie – miti scandinavi, Roald Dahl, racconti della mia infanzia – ma nessuna è amata più delle storie della Bibbia. Così tra il bagno e il letto mia moglie e io spesso gli leggiamo delle storie dalla Bibbia. Ama ascoltarle, perché sono le storie più grandiose mai raccontate. E noi amiamo raccontargliele, per una ragione differente.
Lo abbiamo aiutato ad imparare a dormire tutta la notte, a usare una forchetta, a leggere, ad andare in bicicletta, a dirci arrivederci. Ma nessuna lezione è più importante di quella che non viene mai imparata ma è sempre studiata, il progetto collettivo più nobile di tutti, preso a prestito da una generazione e dato in prestito a quella successiva: come andare alla ricerca di se stessi.
Qualche sera fa, dopo aver sentito il racconto della morte di Mosè per l’ennesima volta – mio figlio ha appoggiato la testa ancora umida sulla mia spalla.
“C’è qualcosa che non va?” gli ho chiesto, chiudendo il libro.
Ha scosso la testa.
“Sei sicuro?”
Senza alzare il capo ha chiesto se Mosè è esistito davvero.
“Non lo so – gli ho risposto – ma siamo parenti. Fra lui e noi esiste un legame”.

Jonathan Safran Foer

(The New York Times, aprile 2012, versione italiana di Ada Treves)


Qui Milano - Il Consiglio verso un rinnovo anticipato
E ora cosa succede? Se lo stanno chiedendo in molti nella Comunità ebraica di Milano, da quando ieri si è diffusa la notizia che altre due lettere di dimissioni erano arrivate nelle mani del segretario generale Alfonso Sassun. Perché se non si può dire che la decisione di Sara Modena e Yasha Reibman sia giunta inaspettata, dopo l’ultima riunione di Consiglio in cui i due consiglieri eletti nella lista Per Israele erano stati più volti a un passo dal dimettersi, come già diversi altri negli scorsi mesi, lascia comunque un sentimento di amaro in bocca, perché, come dicono in molti e trasversalmente, un Consiglio che non porta a termine il proprio mandato rappresenta una sconfitta per tutti.
Una sola infatti la certezza: essendo rimasti in carica meno di due terzi di coloro che furono eletti nel maggio 2010, solo 12 consiglieri su 19, secondo lo statuto il Consiglio è da considerarsi decaduto (una situazione senza precedenti, almeno negli ultimi trent’anni). Una previsione che a partire dal prossimo mandato per le elezioni anticipate richiederà invece le dimissioni del 50 per cento del Consiglio originario, come da nuovo statuto dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane approvato nel dicembre 2010.
“Penso che questo sia il momento peggiore per lasciare il governo della Comunità scoperto - le parole del presidente Roberto Jarach - Se forse l’emergenza finanziaria è passata, siamo ancora in un momento molto delicato e ci sono tante decisioni da prendere”. E a rivendicare i risultati raggiunti da questa maggioranza è stato Stefano Jesurum, che afferma: “Siamo stati eletti con il motto ‘Yes oui ken’ e abbiamo dimostrato che le cose si possono fare. Abbiamo riportato in ordine i conti della Comunità, la Casa di Riposo funziona sempre meglio, abbiamo potenziato il rabbinato, a dispetto delle accuse che ci vengono mosse in questo ambito”.
Rammarico per la caduta del Consiglio, anche se con una chiave di lettura diversa è stata espressa anche dai consiglieri di opposizione Raffaele Turiel e Guido Osimo. “Le relazioni erano difficili e il clima no - ha spiegato Turiel - La non accettazione del documento presentato dalla minoranza nell’ultima seduta è stato l’ultimo segno tangibile di questa situazione. E dal mio punto di vista, ha contribuito anche il fatto che le misure necessarie per risolvere i problemi della Comunità non fossero portate avanti in modo adeguato e con tempi certi”. “Gli ultimi mesi del Consiglio hanno rappresentato una fase davvero poco produttiva. Forse anche noi dell’opposizione abbiamo commesso degli errori” il commento di Osimo.
Dure sono le parole del comunicato diffuso nella mattinata di oggi dall’intera maggioranza che esprimono rammarico per una ‘decisione irresponsabile’, per il ‘rifiuto al confronto democratico’ e per la ‘contrapposizione sterile e demagogica’: “La maggioranza che ha fin qui governato la Comunità - si legge - ha la serenità di chi sa di aver gestito con rispetto e correttezza il mandato assegnatole dagli iscritti e di aver fatto tutto il possibile riuscendo a riportare la Comunità ad una situazione che consente di affrontare un futuro che adesso è di nuovo possibile”. “Le nostre sono le ultime di una lunga serie di dimissioni che sono arrivate proprio perché il gioco democratico dal nostro punto di vista non c’è stato - la replica di Reibman - Il governo di una Comunità ebraica deve essere basato su un continuo confronto tra le varie anime. In questo il Consiglio abbiamo invece assistito a una costante delegittimazione della minoranza e del ruolo del rabbinato”. “Penso che le sei precedenti dimissioni, le quattro persone che hanno declinato l’invito a entrare in Consiglio e il numero di cancellazioni dagli iscritti comunitari dimostrino come fosse necessario rimettere il mandato nelle mani degli elettori” gli fa eco Modena.
Ma alla nuova fase della politica comunitaria che si apre con la necessità di richiamare gli ebrei milanesi alle urne, si affiancano tanti interrogativi da risolvere dal punto di vista tecnico. Le dimissioni arrivano infatti in un periodo di transizione per l’intero ebraismo italiano. Con le elezioni del 10 giugno, entrerà infatti a pieno regime il nuovo statuto UCEI. E se tutti gli iscritti sono chiamati all’elezione del primo “parlamentino” dell’ebraismo italiano, la nuova legge prevede anche importanti novità a livello comunitario. Prima fra tutte dal punto di vista di disciplina delle elezioni: non essendosi la Comunità di Milano dotata di un proprio regolamento elettorale sarà necessario utilizzare la normativa in esso contenuta. Che tra le altre cose prevede la non ricandidabilità dei consiglieri dopo tre mandati già a partire dalla prossima legislatura, una previsione che, se verrà confermata l’adozione dello statuto UCEI, e non si andrà a una corsa contro il tempo per approvare un regolamento elettorale milanese (come già accaduto a Roma) toccherà ben sette esponenti dell’attuale Consiglio nonché storici volti storici della politica comunitaria, Roberto Jarach, Milo Hasbani, Sara Modena, Yasha Reibman, Michele Boccia, Avram Hason, David Piazza. A risolvere tutti i problemi tecnici è chiamato il segretario generale della Comunità Sassun, in contatto costante col segretario UCEI Gloria Arbib. Perché l’altra incognita è se sarà possibile andare a elezioni per il consiglio della Comunità in concomitanza con le elezioni UCEI. I tempi tecnici richiedono che le elezioni siano convocate con almeno 60 giorni di anticipo, quindi entro il 10 aprile, ma potrebbe essere necessaria una proroga per la presentazione delle liste, che per l’Unione dovrà arrivare entro il 16 aprile. Queste e altre questioni troveranno una sistemazione nei prossimi giorni. La festività di Pesach potrà portare poi per tutti una pausa di riflessione. Dopo di che si entrerà nella fase della campagna elettorale. Con l’auspicio di tutti che per quanto possibile la Comunità non si ritrovi ulteriormente divisa.

Rossella Tercatin - twitter @rtercatinmoked


pilpul
Pasqua
Francesco LucreziQuest’anno, com’è noto, la Pasqua cristiana e quella ebraica, praticamente, coincidono. Tale circostanza dovrebbe stimolare una riflessione sullo stato attuale dei rapporti tra le due religioni, dalla cui possibilità di dialogo, comprensione e pacifica coesistenza dipendono, in così larga parte, i destini di tanti esseri umani, e di chissà quante generazioni future. Non abbiamo mai fatto sconti, dalle colonne di questa Newsletter, alle posizioni della Chiesa, tutte le volte che esse ci siano sembrate indicare una tendenza al riflusso verso un passato preconciliare, alla teologia del disprezzo, dell’emarginazione, dell’invito alla conversione. Un passato che, purtroppo, tante volte pare ritornare, nelle vesti di un eterno, immutabile presente. Ma abbiamo anche segnalato, con altrettanta puntualità – e con cauta speranza – i passi positivi, che pure ci sono stati. Il più importante dei quali, a mio giudizio, è rappresentato dai capitoli sulla morte di Cristo scritti nel libro, dedicato alla vita di Gesù, di papa Ratzinger, ove (con un’interpretazione della nota frase “il suo sangue ricada su di noi e i nostri figli” in chiave di ‘redenzione’, anziché di ‘automaledizione’) si propone un’esegesi evangelica nuova e coraggiosa, definitivamente (?) assolutoria del popolo ebraico, indubbiamente più avanzata anche rispetto alle stesse risoluzioni della Nostra Aetate.
Abbiamo letto con grande rammarico e stupore, pertanto, la lettera aperta che è stata pubblicata, il 16 febbraio scorso, sul “Quotidiano” di Bari, nel quale Bernardo Kelz, commentando le iniziative svolte a Bari, in occasione del Mese della Memoria (organizzato da Regione Puglia, Associazione Presidi del Libro, Provincia di Bari e Università di Bari), segnala una frase che avrebbe pronunciato, nella sala Esedra, l’11 febbraio, l'arcivescovo di Bari Cacucci: "Cristo ha tolto la
lebbra dal Vecchio Testamento".
Bernardo Kelz è persona universalmente stimata, di assoluta affidabilità, molto conosciuto in Puglia e in Italia per la sua instancabile battaglia contro l’antisemitismo e in difesa dei diritti umani. Figlio di un eroe della Liberazione, Zygmunt Kelz - che entrò in Italia nelle fila dell’esercito polacco, ma lasciando dietro di sé, nell’abisso della Shoah, la prima moglie e il figlioletto, Bernard, il cui nome ha voluto dare al suo nuovo figlio, nato in Italia, diventata la sua nuova patria -, Bernardo junior si è sempre considero una sorta di portavoce del fratello assassinato, ed è anche a suo nome che chiede conto di quelle parole: “come amante della storia e soprattutto come fratello di un bimbo cancellato a Treblinka”. Perché “la Shoah non è altro che l'annientamento, lo sterminio di quei milioni di persone che a quel ‘Vecchio Testamento’, nonostante tutto, sono rimasti fedeli”. Certo, delle parole dell’Arcivescovo non c’è traccia scritta, ma solo la testimonianza di Kelz, che le ha ascoltate. Proprio perciò, crediamo, egli ha voluto scrivere la lettera, sperando di ottenere una smentita, o una parola di correzione, di chiarimento, di interpretazione. Tanto più necessaria in considerazione del particolare contesto in cui la frase sarebbe stata pronunciata, ossia le manifestazioni di commemorazione della Shoah, che renderebbero il suo carattere offensivo duplice: da una parte, infatti, si parrebbe riproporre, con parole particolarmente crude, la vecchia teologia medioevale dell’“errore ebraico”, dell’intrinseca inanità (diventata ‘lebbra’) delle Sacre Scritture, quando non illuminate dalla Verità del Vangelo; e, dall’altra, si farebbe ingiuria alle stesse vittime della Shoah che si vorrebbero onorare (e che, come ha ricordato Kelz, sono state uccise proprio in ragione della loro fedeltà all’Antica Alleanza).
Questa parola di chiarimento, però, non è ancora arrivata. Sarebbe bene, invece, se arrivasse. Lo meriterebbe, se non Bernardo junior, certamente Bernard senior, schiacciato da persone che portavano, esse sì, la lebbra nel cuore.

Francesco Lucrezi, storico

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50 miliardi di beni. Sono quelli che il governo Papademos ha messo all'incanto. Fra di essi figurano società dell'acqua e dell'energia, l'area del vecchio aeroporto di Hellenikon destinataria di un progetto urbano, 37 aeroporti regionali, 12 porti di prima categoria e 350 di piccole dimensioni, sei autostrade e terreni da costruzione per una superfice totale di 3.000 km quadrati. Fra i possibili investitori anche Israele. I rapporti di amicizia dei due Stati mediterranei si sono intensificati negli ultimi tempi, a dimostrarlo anche una visita del'amministratore delegato dell'Agenzia sulle privatizzazioni greca, Costas Mitropoulos, a Tel Aviv. 
 

Repubblica pubblica oggi, insieme al Süddeutsche Zeitung (dopo che Die Zeit l'ha rifiutata), ad El Pais ed al danese Politiken, una poesia di Günter Grass dal titolo: "Quello che deve essere detto".

Emanuel Segre Amar











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