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17 aprile
2012 -25 Nisan 5772 |
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Roberto
Della Rocca,
rabbino
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Da
Sabato scorso fino a sabato 19 maggio chi vive nella Diaspora e
chi abita in Eretz Israel, per cinque shabatòt consecutivi, non
legge la stessa Parashà della Torah. Questo accade quando, come
quest’anno, l’ottavo giorno di Pesakh, festivo solo nella Diaspora,
cade di Sabato. Noi infatti abbiamo letto una porzione della Torah
relativa alla festa di Pesakh, mentre in Eretz Isarel, non essendo più
Pesakh, si è potuto riprendere il ciclo della lettura annuale
delle parashòt settimanali con la parashà di Sheminì che noi
leggeremo invece sabato prossimo. Questa regola può creare alcuni
problemi a chi in questo periodo dalla Diaspora si reca in Israele e vi
trascorre uno di questi shabatòt - in cui si ritroverà a perdere una
parashà - e a chi viceversa da Israele viene nella Diaspora e si
ritroverà ad ascoltare per la seconda volta una parashà gia letta.
È noto che il ciclo annuale della lettura della Torah è correlato
al calendario e all’ubicazione delle ricorrenze. Per questo
motivo alcune Parashòt della Torah si leggono spesso assieme
come Tazria e Metzorà (28 aprile), Acharè mòt e Kedoshìm (5
maggio), Behar Sinai e Bechukkotai (19 maggio). Perché allora attendere
tutto questo tempo per riconguagliare la lettura rituale della Torah,
solo quando sabato 19 maggio noi leggeremo unite le Parashòt di
Behar Sinai e Bechukkotai mentre in Eretz Israel le leggeranno
staccate? Perché non anticipare questo ripareggiamento ai prossimi e
più vicini shabatòt con Tazria e Metzorà o con Acharè mòt
e Kedoshìm? Ho trovato a questa curiosità solo due risposte.
Quella del Tiqùn Ysakhàr (pagina 32) che riconduce il motivo alla non
opportunità di dedicare due shabatòt consecutivi all’ascolto delle
varie forme della tzaraat, malattie delle piaghe della pelle e della
casa, elencate nelle due parashòt di Tazria e Metzorà,
consigliando invece di “liquidarle” in un solo sabato. La risposta del
Levùsh ( Orakh Chaijm 428 ) invece è orientata sulla necessità
che questo ripareggiamento avvenga solo prima della Parashah di
Bemidbàr che precede la festa di Shavuòt che costituisce la
scansione di un tempo nuovo prima del quale devono essere letti gli
ammonimenti contenuti nella Parashà di Bechukkotai. Qualcuno vuole
contribuire a trovare altre spiegazioni?
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Dario
Calimani,
anglista
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Più si legge
certa stampa ebraica più ci si rende conto che è in corso una battaglia
all’ultimo sangue per la vittoria della ragione sul torto. A proporre
di misurarsi sulle idee e non sulle persone ci si sente eretici. Da un
po' di tempo, su argomenti diversi, si fa passare l’opinione per verità
assoluta: su Israele, sull'antisemitismo, sull'ortodossia quanto sulla
laicità. Chi ama Israele si sente in dovere di essere di destra; chi è
invece di sinistra si sente in dovere di contestare Israele anche
quando non è il caso. Chi critica la politica di Israele è 'antisemita'
tout court, e se poi è ebreo allora soffre di 'odio ebraico di sé';
d’altro canto, chi non è superortodosso è perduto all’ebraismo; chi
invece è ortodosso è affetto da ristrettezza mentale. Come nella
politica del paese, abbiamo trasformato il confronto delle idee in un
torneo in cui l’unico obiettivo è squalificare l’altro. Internet poi ha
aggravato la situazione, confondendo la figura del partigiano
ideologizzato con quella del giornalista e del ‘maître à penser’. La
cosa sconvolge non poco quando si assiste ai tentativi di manipolare
l’informazione e le ‘verità’, quando gli estremi si condizionano e si
determinano a vicenda. Più false e tendenziose le accuse più estreme e
irrazionali le difese. Ora, riconoscendo che l’obiettività esiste solo
come categoria e che a nessuno è dato di incarnarla, ci si chiede quale
sia il ruolo dei ‘maestri del pensiero’. Forse quello di plagiare i
loro fruitori forzando la realtà o sconvolgendo le regole della logica?
Ma le misure estreme piacciono, come se fossero le più giuste e le più
vere. Non esistono più le mezze stagioni, temperate e confortevoli.
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Contando l'Omer - La religione e le sue interpretazioni |
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Martedi 17 aprile, decimo giorno
dell' Omer, una settimana
e tre giorni
Botta e risposta dei tempi antichi, su temi caldi della religione e
delle sue interpretazioni. Dal Talmud Babilonese, Menachot 65 a-b. Se si
comincia a contare l’Omer di domenica e quindi Shavuot, alla
fine dell’Omer, cade sempre di domenica, come dicevano i Baitosei, si crea una sorta di
lungo “ponte” festivo. Sarebbe stata questa la logica ispiratrice di
Mosè nell’istituire la festa, un piacere fatto alla sua gente. Così un
saggio dei Baitosei spiegava le cose; al che Rabban Yochanan ben Zakai
replicò duramente: “se Mosè avesse voluto tanto bene alla sua gente non
li avrebbe lasciati per 40 anni nel deserto”. E il Baitoseo: “Rabbi, ma
così mi rispondi?” Effettivamente non era una replica, era un modo per
troncare il discorso. Rabban Yochanan così spiegava la sua risposta:
“La nostra Torà non deve essere messa sul piano di una vostra futile
conversazione”. In questo difficile dialogo c’è da una parte chi
difende una tradizione consolidata di millenni, dall’altra chi la mette
continuamente in discussione usando argomenti che hanno una certa
logica e un certo fascino. La dura replica del Maestro è che con tutto
il possibile fascino ogni argomento è criticabile e non è comparabile
con il peso della tradizione.
rav Riccardo
Di Segni, rabbino capo di Roma
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Elezioni UCEI, completa la rosa dei candidati
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Si
completa il panorama delle candidature al prossimo Consiglio
dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, il primo a vedere la luce
dopo la storica riforma statutaria dell'ente. Cinque le Comunità in cui
si andrà al voto domenica 10 giugno: oltre a Roma e Milano, di cui vi
avevamo fornito ieri l'elenco di tutti i nominativi e di tutte le
formazioni interessate, gli iscritti saranno chiamati ad esprimersi
anche a Trieste, Firenze e Livorno. In ciascuna di queste realtà la
scelta per consigliere di spettanza sarà tra due candidati: a Trieste,
Davide Belleli e Mauro Tabor; a Firenze, Dario Bedarida e Simcha
Jelinek; a Livorno, Daniele Bedarida e Gadi Polacco. Per quanto
riguarda le altre 16 Comunità che compongono il variegato panorama
dell’ebraismo italiano (Merano, Venezia, Padova, Verona, Torino,
Vercelli, Casale Monferrato, Genova, Mantova, Parma, Modena, Ferrara,
Bologna, Pisa, Ancona, Napoli) il consigliere di riferimento verrà
invece espresso direttamente dal Consiglio comunitario.
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Pesach
5772 - Anche a Sud una notte diversa da tutte le altre |
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Numerosi
sedarim si sono svolti quest’anno nel Meridione: in Campania, a Napoli
a parte il seder comunitario e i vari sedarim familiari e le preghiere
pubbliche accompagnate da una notevole partecipazione di pubblico, si è
svolto il seder dedicato ai numerosi stranieri in visita in città; in
Puglia, a Barletta dove il seder è stato organizzato da Sara e Israel
Lotoro, a Sannicandro dove è stato presente e ha condotto i sedarim e
le preghiere festive il maskil Marco Dell’Ariccia, a Brindisi dove il
seder è stato organizzato da Ruth e Yehudà Pagliara: in Calabria, a
Palmi dove il seder e le preghiere sono state tenute da Barbara e
Alberto Piperno con il fondamentale supporto di Roque Pugliese e di
altri membri della costituenda sezione calabrese della Comunità di
Napoli; in Sicilia, a Palermo dove il seder è stato tenuto sia da
Evelyne Aouate per i palermitani residenti e da Uriya Mayer per gli
studenti e altri stranieri in città. Mi risulta che un seder è stato
anche organizzato a Siracusa dove da diversi anni opera rav Itzchak Di
Mauro.
Il lavoro per il recupero degli ebrei residenti nel
Meridione (diversi di origine israeliana e americana) e dei discendenti
degli ebrei convertiti nel corso delle persecuzioni continua con
successo. Un progetto più completo, anche con il supporto dell’Ucei e
dell’Assemblea dei Rabbini d’Italia, è in corso di perfezionamento.
rav Scialom
Bahbout, rabbino capo di Napoli
Ma
nishtana halayla haze?
“Ma
nishtanà halayla haze” ha chiesto Miriam ai partecipanti del Seder
Palmi 5772. In che cosa si differenzia questa sera dalle
altre sere?
La risposta che ha avuto è stata ovviamente quella della
Haggadah. Molti dei partecipanti avrebbero voluto rispondere
che la
differenza tra questa sera e quella dell’ultima volta che
nella loro
famiglia si è fatto un seder in terra di Calabria sono i 500 anni che
sono passati tra i due sedarim. È, infatti, dovuto
all’abnegazione di
qualche decina di discendenti di anussim Calabresi e Siciliani se si è
formato negli ultimi anni un gruppo che anela il ritorno alla fede dei
Padri forzatamente abbandonata, ma mai dimenticata. Alcuni,
come il
loro “leader” Roque Pugliese, di professione medico di terapia di
emergenza, hanno già formalizzato il loro ritorno all’ebraismo, altri
hanno chiesto il ghijur, altri cominciano a rispettare le prime
mitzvoth, ma non hanno ancora preso una decisione.
In Calabria
e in Sicilia, anche se gli ebrei sono stati espulsi nel 1500 e non
hanno mai riformato le antiche comunità, sono comunque presenti le
testimonianze dell’antica presenza ebraica. Uno
dei partecipanti al Seder ha raccontato che suo nonno, negli 8 giorni
prima del 25 dicembre, accendeva delle candele sul davanzale della
finestra, una per ogni sera. Un altro ci ha detto che sua
nonna metteva
una caraffa di acqua sul tavolo prima del pasto e se la versava sulle
sue mani a mo’ di "netilat yadaim." Nella regione stessa poi
i bambini
locali usano giocare nel periodo corrispondente a Hannukkah con un
sevivon al quale sono state sostituite le lettere ebraiche con quelle
latine e molti usano mangiare nel periodo della Pasqua matzot che fanno
in casa. Questo indica che anche se i regnanti spagnoli hanno
costretto
o indotto alla conversione decine di migliaia di ebrei nel 1500, molti
hanno conservato alcune delle antiche consuetudini della vita di tutti
giorni, anche se il significato ebraico è stato
nascosto. Un'altra
testimonianza di questo è l'uso che la popolazione locale fa di una
versione cristianizzata di "Uno chi sa," che è stata "riconvertita"
all'ebraismo e cantata dai partecipanti in dialetto calabrese del 1600.
I
partecipanti hanno soggiornato in un residence ed hanno preparato
insieme il seder. Per prima cosa si è proceduto alla preparazione di
pentole e stoviglie. È stata fatta prima la Tevilat kelim
(immersione
rituale dei recipienti) in mare e poi la hag’alà (bollitura). Quindi
si è proceduto alla preparazione dei sedarim.
Al primo seder hanno partecipato circa 35
persone ed è stato accompagnato dalla spiegazione del
significato del
“racconterai a tuo figlio” e del “ognuno deve vedere se stesso come se
proprio lui fosse uscito dal’Egitto” e del significato di libertà per
il popolo e per ognuno di noi.
Al secondo seder l'Haggadah è stata letta a turno da tutti i
partecipanti, in ebraico e italiano, spesso con l’aiuto della
traslitterazione.
Alla
fine di tre giorni intensi di incontri, di studio e di scoperta del
proprio ebraismo, i partecipanti si sono chiesti l’uno con l’altro come
continuare ed ampliare questo piccolo nucleo ebraico. Con
l’aiuto di
rav Scialom Bahbout e del maskil Gadi Piperno si organizzeranno
incontri di studio su internet e forse una visita in Israele il
prossimo novembre. Yeyashèr Koachachèm.
Alberto e
Barbara Piperno, Gerusalemme, partecipanti al seder Palmi 2012
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Qui Milano - Nuovi alberi per onorare i Giusti |
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"Gariwo
è un luogo di riflessione ma anche di serenità e speranza. Un orgoglio
per Milano, in quanto simbolo universale di coraggio civile, che
insegna la responsabilità di ciascuno per un mondo più giusto". Con
queste parole il sindaco di Milano Giuliano Pisapia è intervenuto oggi
alla Foresta dei Giusti del mondo di Monte Stella. Un albero per
onorare coloro che, nei momenti più bui della storia, scelsero di
mettere a repentaglio la propria vita per salvare quella degli altri. È
a partire da questo semplice concetto che nel 2003 è nato a Milano, su
ispirazione del progetto dello Yad Vashem, il Museo della Shoah di
Gerusalemme, il Giardino dei Giusti Gariwo al Monte Stella, con la
collaborazione dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e del
Comune di Milano. A essere onorati quest’anno sono stati lo scrittore
Primo Levi, l’attivista turca Ayse Nur Zarakoglu, Claire Ly e Yolande
Mukagasana, sopravvissute rispettivamente al genocidio in Cambogia e al
massacro rwandese, entrambe presenti al Giardino per la cerimonia, cui
hanno partecipato anche l’assessore UCEI Giorgio Mortara, Basilio
Rizzo, presidente del Consiglio comunale di Milano e Pietro Kuciukian,
console onorario di Armenia in Italia, oltre al presidente di Gariwo
Gabriele Nissim. "Essere giusti non significa solo non fare il male, ma
anche non essere conniventi – ha sottolineato Giorgio Mortara – Nella
Genesi D. promette ad Abramo di non distruggere Sodoma e Gomorra se si
troveranno dieci giusti e da qui impariamo la valenza di queste persone
nella storia dell'umanità". E il 2012 è un anno molto importante per
l'impegno di Milano per i Giusti, come ha sottolineato Nissim. Gariwo
ha infatti presentato un appello al Parlamento europeo per
l’istituzione di una Giornata per i Giusti che venga celebrata in tutto
il continente, richiesta già sottoscritta da oltre 260 eurodeputati, ma
che necessita di ancora un centinaio di firme per l’approvazione, per
cui è necessaria l’adesione della metà dei 736 parlamentari. "E
continuando a dedicare il nostro impegno a questo obiettivo – ha
annunciato Nissim – possiamo intanto dare la notizia di un altro
fondamentale conseguimento. Il 30 giugno sorgerà un Giardino dei Giusti
in Rwanda Speriamo davvero che questo continui a essere davvero un anno
di miracoli"
Rossella Tercatin - twitter @rtercatinmoked
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Qui Torino - Le mitzvot dell'assistenza |
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In
tempo di crisi economica, anche dal punto di vista sociale e
psicologico, le problematiche di chi “ha bisogno” si fanno sempre più
pressanti. La società tutta vive in un momento difficile, di
transizione, ma anche di crisi di valore. In questo momento difficile,
quali risposte è in grado di offrire un modello di vita ebraica? Il
tema sarà affrontato dal punto di vista della Tradzione ma anche nelle
sue concrete attuazioni nelle singole Comunità, stasera alle 21 in
Piazzetta Primo Levi al Centro Sociale della Comunità ebraica di
Torino, dove l’Associazione culturale Anavim ha organizzato un pubblico
dibattito dal titolo “Star vicino a chi ha bisogno: le mitzvot
dell’assistenza. L’assistenza a chi è anziano, malato, solo, bisognoso.
Un tema centrale oggi per la Comunità”. Prenderanno parte ai lavori rav
Alberto Moshè Somekh, il consigliere UCEI addetto ai problemi
dell’assistenza Giorgio Mortara, l'assistente sociale itinerante per
l'UCEI Olga Ceriani e Patrizia Sampietro della Commissione Assistenza
della kehillah torinese.
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Qui Roma - Shoah, quello che non ci siamo detti |
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I
silenzi degli anni ’50 costituirono un’eco assordante nella vita di
molte famiglie ebraiche romane. Silenzi densi di interrogativi, di
dolore, di nostalgia per il ricordo di persone che non potevano essere
nemmeno nominate perché il solo pronunciarne il nome poteva provocare
dolorosi effetti. Quante cose non sono mai state dette nelle case
delle famiglie ebraiche: per molti che negli anni 50 a Roma erano ebrei
bambini o giovani adulti, l’urgenza della ricostruzione, il lasciarsi
alle spalle un passato doloroso e la impossibilità di elaborare un
lutto, oltretutto in assenza di una tomba sulla quale pregare o
piangere. Quanti nomi come quello di Eugenio Zolli non sono stati pronunciati per tanti e tanti anni. E
ancora: i vertici della Comunità romana hanno protetto gli ebrei della
loro Comunità? E - se sì - in quale misura? La storia non si fa con i
“se”, ma qualcosa in più avrebbe potuto essere fatto? “Tutti gli ebrei sono garanti l’uno per l’altro”. Ma a Roma è stato proprio così? Gli
ebrei che si sono salvati non solo perché la fortuna li ha assistiti,
ma anche perché furono in grado di operare scelte che si potevano
permettere perché più ricchi di altri, quanto pensarono ai loro
correligionari meno fortunati e con meno possibilità economiche? E
nel dopoguerra come furono accolti i reduci? Quelli che tornavano dai
Campi, quelli che in ebraico si chiamano i “sridé shoah”, le rovine
delle quali dopo un incendio non rimane solo cenere. La Comunità di
Roma fu pronta a fornire loro e alle loro famiglie una rete di
solidarietà ed appoggio? In quale misura ci furono persone disposte ad
ascoltare i loro racconti? Tante domande forse mai poste per
pudore, per reticenza, per vergogna. Vergogna anche di essersi salvati
di fronte ad altri che invece ebbero un destino ben peggiore. Quanto
tutto questo ha contato e continua a contare nella Roma ebraica di una
o più generazioni dopo? Quando furono interrotti i silenzi che hanno
accompagnato la crescita di che furono bambini nel dopoguerra? Domande
scomode, rimaste in sospeso per tanti – troppi – anni e che faranno
discutere Gavriel Levi, professore universitario, stimolato da Victor
Magiar, consigliere UCEI, con il pubblico che si vorrà confrontare su
questi temi, e porre – appunto – queste o altre domande. Alle ore
20 verrà proiettato un interessante filmato realizzato dall’Istituto
Yad Vashem “Possa il tuo ricordo essere amore. La storia di Ovadia
Baruch”, ebreo di Salonicco, sarid shoah, Il filmato è in ebraico con
sottotitoli in italiano e verrà presentato da Yiftach Ashkenazy (Yad
Vashem, International School for Holocaust Studies).
Sira Fatucci
L’incontro,
nato nell’ambito del progetto “Quale identità ebraica? Generazioni a
confronto”, a cura di Sira Fatucci e Ilana Bahbout per l’Unione delle
Comunità Ebraiche Italiane, si terrà domani alle ore18 presso il centro
Bibliografico dell’UCEI in Lungotevere Sanzio 5, a Roma.
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I laici, i religiosi e le scorciatoie impossibili
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L’ebraismo
italiano è attraversato da una tensione notevole tra «laici» e
«religiosi». A Milano, una lettera di Stefano Jesurum ha recentemente
innescato un dibattito, durato vari giorni grazie al contributo di
personalità comunitarie e rabbiniche. Ma se il problema non fosse
ebraico? Se gli ebrei italiani fossero un piccolo sintomo di un
fenomeno più ampio? Secondo indagini recenti i sacerdoti della Chiesa
cattolica sono passati in un secolo da 68 mila a 28 mila, mentre la
popolazione italiana è quasi raddoppiata; dal 2004 al 2009 i preti sono
calati di 1500 unità e la loro età media è attorno ai 60 anni; se nel
2000 (indagine Swg, citata alcuni giorni fa su «Sette») il 65% degli
italiani dichiarava di aderire ai valori cattolici, la percentuale è
scesa al 46% nel 2009, con un decremento della centralità di quei
valori anche tra i credenti. Insomma, una vera e propria emorragia.
Bilanciata, però, dall’esplosione del turismo religioso nei santuari
(una soluzione «consumistica») e dei movimenti più radicali. E che ha
come corollario la critica sempre più aggressiva nei confronti della
Chiesa e del clero, di cui su Twitter si è avuto un saggio in occasione
del compleanno di Benedetto XVI. Quando il papa afferma che
l’-esimo (cristianesimo) è stato sconfitto dall’-ismo (relativismo),
omette di dire che il contrappeso di questa sconfitta è spesso una
militanza religiosa più estrema (estrem-ismo). A me pare che,
fatte le debite proporzioni, i problemi siano simili e dunque
riguardino la società nel suo complesso. E hanno ragione i rabbini
quando ammoniscono a non confondere la comprensione con il cedimento.
Il crinale è assai sottile. Ma se le religioni vogliono giocarsi questa
partita, in Occidente, dovranno ricorrere a compromessi, mediazioni,
passi indietro, lunghe battaglie culturali. Non si vince questa sfida
con le scorciatoie.
Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas
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Storie - I 90 “giusti” sconosciuti di via Cenisio 77
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Moshé
Dana è un ebreo di nazionalità italo-turca che ora vive in Israele,
dopo aver trascorso i primi venti anni della sua vita a Milano, in
Italia. È l’unico sopravvissuto di una famiglia di sei persone, tutte
perite ad Auschwitz. Si salvò grazie ai 90 inquilini di un caseggiato
milanese, che lo nascosero a proprio rischio e pericolo. Moshè è un
amico di vecchia data di Gianfranco Moscati, grande raccoglitore delle
storie degli ebrei italiani perseguitati. Nati entrambi nel 1924,
frequentarono assieme la materna e le elementari alla scuola ebraica di
via Eupili. Moscati ci ha fornito la sua testimonianza inedita. Isacco
Dana, padre di Moshé, era emigrato in Italia nel 1925, assieme a cinque
fratelli e alle rispettive famiglie. All’epoca Moshé aveva appena un
anno di vita (era nato il 3 settembre 1924). Abitavano nella zona di
corso Sempione, come i Moscati. Al mercatino di via Poliziano i Dana
gestivano un banco per la vendita di calzetteria. “A Milano – racconta
nel suo scritto – si stava abbastanza bene, nonostante il regime, tanto
che nei primi degli anni trenta papà ottenne la cittadinanza italiana,
che gli costò qualche mese di servizio militare (e più tardi molto di
più)”. Il padre di Moshé fu l’unico dei sei fratelli turchi a fare
questo passo. Quando nel 1938 il duce emanò le leggi razziste, per
la famiglia Dana (come per tutti gli ebrei divenuti italiani dopo il
1919) fu disposto l’annullamento della cittadinanza e l’obbligo di
lasciare il Paese entro sei mesi. “Dove poteva andare una famiglia di
sei persone, con bambini piccoli, senza soldi e senza nemmeno il
passaporto? C’era qualcuno al mondo pronto ad accogliere dei
perseguitati? Si pensò alla vicina Svizzera, ma per andarci (…)
occorrevano non solo molti soldi, ma anche forza e coraggio, cosa
impossibile per i bambini, che non si potevano lasciare!”. Sicché, come
fecero tanti altri ebrei, i Dana rimasero in Italia come immigrati
clandestini. Con lo scoppio della guerra, la famiglia di Moshé
sfollò a Ballabio, in Valsassina, dove trovò ospitalità ed accoglienza
da parte della gente del luogo. Nel frattempo gli zii con le famiglie,
“essendo rimasti cittadini turchi, furono, col tempo, ‘confinati’ in
vari posti, ma più tardi furono spediti, dagli stessi tedeschi, in
Turchia (che era neutrale e pro-tedesca), dalla quale tornarono, dopo
la guerra, come se nulla fosse”. In seguito Moshé si trasferì con
i nonni paterni e la famiglia di uno zio nel caseggiato di via Cenisio
77, dove abitavano circa cento persone. Dopo l’armistizio dell’8
settembre 1943, i tedeschi e i fascisti scatenarono la caccia agli
ebrei. Un giorno una bomba sfondò la tromba delle scale e danneggiò
alcuni appartamenti, che furono evacuati, anche perché non erano più
fisicamente raggiungibili, tranne uno al pianterreno. “Fu la nostra
fortuna – continua la testimonianza di Moshé -, perché quelli che ci
stavano, ebbero la geniale idea di cambiare la loro casa, sinistrata e
ufficialmente evacuata, con la nostra (intatta), così, se fossero
venuti a cercarci (e vennero!), avrebbero trovato loro, che
naturalmente non ‘sapevano’ dove eravamo!”. Nell’appartamento
danneggiato dal bombardamento “il freddo era tremendo, per mancanza di
pezzi di muro” e Moshé e i suoi parenti soffrivano “la fame, perché la
roba si trovava, al mercato nero, ma era molto ‘salata’” e perché i
Dana non avevano molte risorse e per di più erano “senza tessere
alimentari, non avendo le carte in regola”. Purtroppo nelle
settimane successive i carabinieri di Lecco arrestarono la madre di
Moshé, le due sorelle Stella ed Ester (di 17 e di 9 anni) e il fratello
Salvatore (di 12 anni) e li consegnarono poi ai tedeschi. In un secondo
momento fu preso anche il padre, che faceva la spola tra Ballabio e
Milano. “Intanto – racconta Moshé – noi, a Milano, rimanemmo un
altr’anno e mezzo nascosti in quelle belle condizioni, al freddo e alla
fame, con la perenne paura di essere scoperti (o denunciati)”. Ma
nessuno del caseggiato li tradì. Anzi, dopo una nottata di
bombardamenti, “un mattino (…) chi ti bussa alla porta, se non il
capocasa (fascista!), che ci dice: ‘ma ragazzi, perché non scendete in
rifugio? Volete beccarvi una bomba in testa, proprio mentre state
cercando di salvarvi?”. Così Moshé scoprì che “più o meno, tutti
sapevano di noi e non solo non pensavano a farci del male, ma erano
perfino preoccupati per noi!” A Milano la liberazione arrivò solo
il 25 aprile 1945. “Mi trovò praticamente come un verme: senza
famiglia, senza casa, senza denaro, senza professione e perfino senza
istruzione! Solo una cosa: VIVO!”. Moshé cercò disperatamente notizia
dei suoi e purtroppo venne a sapere che erano tutti morti nel lager di
Auschwitz. Nel febbraio del 1947 Moshe s’imbarcò clandestinamente
per la Palestina, giungendo ad Haifa il 27 febbraio a bordo della nave
Ulua, assieme ad altri 1760 profughi. La sua storia di
persecuzione (le leggi razziste italiane, l’arresto da parte dei
carabinieri e la deportazione della famiglia) ma anche di umanità e di
solidarietà era finora inedita. Restano invece sconosciuti i novanta
inquilini del caseggiato di via Cenisio che salvarono lui e i nonni
paterni. Novanta “giusti” senza nome, che eccezionalmente non
“vendettero”, come purtroppo spesso accadde in quel triste periodo,
degli inermi ebrei ai nazifascisti.
Mario Avagliano
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notizie
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rassegna
stampa |
Qui Firenze - Anna Frank in mostra
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Leggi la rassegna |
È stata inaugurata oggi a palazzo Buonamici la mostra documentaria, Anne Frank, una storia attuale,
ricca di fotografie, in gran parte inedite, immagini e citazioni delle
pagine del diario di Anna che fanno emergere le condizioni in cui fu
costretta a vivere una famiglia ebrea durante il periodo nazista.
La mostra è organizzata dalla Fondazione Museo della
Deportazione e Resistenza di Prato in collaborazione con la “Anne Frank
House” di Amsterdam, la Provincia di Prato e la “Rete di Storia” delle
Scuole secondarie di secondo grado e il sostegno dell’Ambasciata
dei Paesi Bassi a Roma.
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Nessuna
notizia su Israele e l'ebraismo italiano, oggi e pochi articoli
significativi sulla rassegna stampa. Fanno eccezione gli echi del
respingimento dell'ennesima provocazione antisionista da parte di
Israele.
Ugo Volli
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L'Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane sviluppa mezzi di comunicazione che
incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli
articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente
indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di
posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone
che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Gli utenti
che fossero interessati a offrire un
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