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29 maggio 2012 - 8 Sivan 5772
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l'Unione informa
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Roberto Della Rocca
Roberto
Della Rocca,
rabbino

Il giorno successivo alle tre feste di pellegrinaggio, Pesakh, Shavuòt, Sukkòt, è chiamato “Isrù Chag”, letteralmente “legate la festa”, dal verso 27 del Salmo 118 che ci invita a “legare la vittima del sacrificio festivo agli angoli dell’altare  con delle funi...”.  Ciò induce i Maestri del Talmùd (Sukkah, 45 b) ad affermare che: "chiunque protrae la festa per un altro giorno, mangiando e bevendo, è considerato come se costruisse un altare sul quale offre un sacrificio...”.  Con un mirabile paradosso, senza un Santuario operante, oggi il “sacrificio festivo” consiste nel mangiare e bere con parenti ed amici. In un mondo frenetico e consumistico come il nostro, i giorni festivi, soprattutto quando sono contigui allo Shabbat, costituiscono per alcuni un distacco troppo lungo dalla realtà quotidiana. Isrù Chag ci invita, viceversa, a legarci alla festa anche nella sua uscita. Il distacco dalla kedushah della festa deve essere graduale perché l’intensità del fervore e della trepidazione che proviamo nel suo avvicinarsi è proporzionale alla separazione dalla sua conclusione.

Dario
 Calimani,
 anglista



Dario Calimani
Una delle imprese più ardue per l’essere umano sembra essere quella di dire ‘grazie’. Perché esprimere gratitudine significa dover riconoscere di aver ricevuto un aiuto, magari dopo aver dovuto chiedere ‘per favore’. Sarebbe come riconoscere una propria debolezza. E poi, dire ‘grazie’ oggi significa mettersi nelle condizioni di dover ricambiare domani l’aiuto ricevuto.
Un’eventualità troppo pesante da sostenere da parte di chi sa solo ricevere. Non c’è nulla di più rassicurante, invece, di una allegra e baldanzosa arroganza.

davar
Qui Roma - Nel nome di Stefano
Grande festa di colori questa mattina in piazza del Campidoglio per la decima edizione del Premio Letterario Stefano Gay Taché, l'amico dei bambini. Intitolato alla memoria del piccolo Stefano Gay Taché, vittima dell'attentato che colpì il quartiere ebraico di Roma il 9 ottobre 1982, il concorso ha registrato anche quest'anno il coinvolgimento di molte scolaresche chiamate a riflettere, in più modalità di espressione artistica, sui temi del dialogo, della pace e dei valori civili. A farla da padrone è stata la musica, ma non sono mancati momenti di intensità declinati nel segno della lettura, della recitazione e della poesia. “Essere qua oggi – ha spiegato l'assessore di Roma Capitale Gianluigi De Palo rivolto ai numerosi studenti raccoltisi nella piazza – è un'opportunità per ricordare Stefano e per capire come grazie allo sforzo della sua famiglia sia stato possibile trasformare una tristezza così intensa in un'occasione di riflessione e di gioia collettiva”. Tra il pubblico, oltre alla famiglia di Stefano, anche il sindaco di Roma Gianni Alemanno, l'assessore della Comunità ebraica Ruth Dureghello e il presidente dell'associazione Ebraismo e dintorni Raffaele Pace che, nel prendere la parola, ha sottolineato l'emozione e l'orgoglio di aver fatto conoscere la storia di questa giovanissima vittima del terrore a migliaia di studenti romani. Un nome, una storia, un dramma, quello di Stefano Gay Taché, che la Comunità ebraica non ha mai dimenticato e per la memoria del quale continua ancora oggi a battersi in tutte le sedi possibili. Ha assunto così un significato speciale l'annuncio fatto dall'assessore Dureghello a proposito dell'avvenuto trasferimento della sede legale della Comunità da Lungotevere dei Cenci a Largo Stefano Gay Taché. Una decisione, già annunciata in passato, che è stata accolta dagli applausi scroscianti del pubblico e che ha aperto il momento delle premiazioni. Riconoscimenti sono tra gli altri andati a Alberto Pellai (Il mio fratellino a distanza), Giusi Quarenghi (Io sono tu sei) e alla casa di distribuzione Lucky Red. Poi è stata la volta delle singole scolaresche, chiamate sul palco dal giornalista Fabio Perugia. “Bisogna crescere bene, volendo bene alla gente, cacciando l'odio e il risentimento. Cari bambini – ha detto il sindaco Alemanno – dovete crescere pensando a Stefano come a un angelo che vi aiuta nel percorso”.

as - twitter @asmulevichmoked

Qui Roma - Essere ebrei, riflessioni filosofiche
“Da Sigmund Freud a Ludwig Wittgenstein la questione dell’identità ebraica attraversa tutta la cultura del Novecento. Ma è soprattutto la filosofia degli ultimi decenni che, in forme e modalità differenti, si interroga sul significato di 'essere ebrei'. L'ebraismo sembrerebbe sfuggire a una definizione concettuale. Eppure è proprio questa la sua forza dirompente, in grado – come suggeriscono Emmanuel Lévinas o Jacques Derrida – di dischiudere un nuovo pensiero, di indicare la via per superare la metafisica occidentale e per delineare una logica dove – anche in senso etico e politico – il terzo non è mai escluso”. È a queste parole che la filosofa Donatella Di Cesare, cattedra di filosofia teoretica all'Università La Sapienza, si affida per introdurre il grande convegno internazionale 'Essere ebrei riflessioni filosofiche' che prenderà avvio questo pomeriggio alle 16 al Dipartimento di Filosofia del noto ateneo romano. Organizzati in collaborazione con l'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, la Comunità ebraica di Roma e il Bene Berith, i lavori saranno caratterizzati da numerose occasioni di confronto e si protrarranno fino a giovedì mattina coinvolgendo nel dibattito autorevoli ospiti del mondo rabbinico, accademico e istituzionale. Protagonisti della prima sessione, che si aprirà coi saluti del direttore del Dipartimento di Filosofia Stefano Petrucciani e del presidente della Comunità ebraica Riccardo Pacifici, saranno – sotto il coordinamento di Massimo Bianchi – la professoressa Di Cesare (Essere ebrei. Una forma di vita) e Shmuel Trigano (Ebraismo: le gesta del secondo essere).
I lavori riprenderanno domani con due appuntamenti: alle 9.30, nella stessa sede, con gli interventi di Corrado Ocone dell'Università Luiss, di Danielle Cohen Levinas (Essere ebrei secondo Emmanuel Lévinas), Vittorio Robiati Bendaud (“Faremo e ascolteremo”. Che cosa fare per essere chi?) e rav Giuseppe Laras (La fede di Israele tra universalismo e particolarismo); alle 16 invece, al Centro bibliografico Tullia Zevi dell'UCEI, parleranno, dopo il benvenuto dell'ambasciatore Amos Radian e del presidente dell'Unione Renzo Gattegna, prenderanno la parola Donatella Di Cesare, Manfred Gerstenfeld (Le identità ebraiche nell'Occidente postmoderno) e Ilana Bahbout (Differenza e creatività. Una riflessione ebraica sul soggetto) e Lisa Block De Behar (Essere ebrei. Vicissitudini di una definizione azzardata). Chiuderà il convegno, giovedì alle 10 al Centro Bibliografico, una tavola rotonda con ospiti alcuni tra i relatori precedentemente intervenuti. In quella occasione, per un indirizzo di saluto, interverrà anche il presidente del Bene Berith Sandro Di Castro.

Qui Trento - Difendere la Memoria
Nella splendida cornice del Parco della Rimembranza a Levico Terme, in Trentino, si è tenuto un importante incontro, promosso dall’ Associazione Nazionale Partigiani d'Italia (ANPI) del Trentino e con la collaborazione della Federazione trentina Italia – Israele, sui temi della Shoah e come risposta democratica e civile alle iniziative messe in campo da alcuni gruppi politici locali.
In quella circostanza, accanto alle testimonianze del Sindaco di Levico Terme, del Presidente della Sezione del Trentino dell'Associazione Nazionale Alpini e del Presidente dell’ ANPI, onorevole Sandro Schmid, alcuni ragazzi delle scuole superiori hanno letto brani sulla Shoah e il Presidente della Federazione trentina Italia – Israele, Marcello Malfer, che parlando davanti alla stele di ricordo di Giorgio Perlasca, ha sottolineato l’importanza di questi momenti di incontro per combattere il crescente clima di negazionismo che serpeggia anche fra le montagne alpine, evidenziando l’ opportunità di momenti di questo genere, per mantenere viva l'attenzione sull'importanza della Memoria.
Su questi temi, la Federazione trentina Italia – Israele sta lavorando da molto tempo, anche in virtù di collaborazioni preziose con alcune storiche associazioni culturali del territorio e con l’appoggio incondizionato delle principali Istituzioni della speciale autonomia del Trentino: dal Giorno della Memoria, alla Giornata della Cultura ebraica, ad altri appuntamenti con la storia e la reciproca conoscenza fra Israele e il Trentino.
 

pilpul
Parole chiare su Shlomo Sand
Liquida.it è un simpatico portale specializzato nel riportare notizie e commenti esclusivamente tratti dalla rete internet. Liquida.it riporta anche un gran numero di blog (definiti dalla redazione "di alta qualità"), dando così loro maggiore visibilità. Negli ultimi mesi i redattori hanno molto gentilmente riportato anche tutti i miei interventi su Moked-UCEI. Nella pagina a me dedicata nel sito (http://www.liquida.it/sergio-della-pergola/), oltre ai miei pezzi da diversi mesi appare anche un link dal titolo: Discussioni su Sergio Della Pergola - Sulla legittimità ideologica e storica di Israele, intervista con Shlomo Sand. Shlomo Sand è il professore dell'Università di Tel Aviv che ha scritto un libro molto controverso ma di notevole successo sulla presunta "invenzione" del popolo ebraico. Ora, io due anni fa fa ho pubblicato sulle colonne del mensile Pagine Ebraiche una recensione di tale libro. Ma essendo Liquida.it specializzato in materiali elettronici, di tale mia opinone sul libro di Sand non vi è traccia nel sito. Vista l'insistente associazione del nome di Sand al mio, ho pensato che fosse utile ripubblicare la mia recensione in rete offrendo a Liquida.it l'opportunità di riprenderlo, così che il colloquio virtuale fra me e Sand potrà avere due interlocutori e non uno solo. Ed ecco il testo originale da Pagine Ebraiche, 2010, 2:

Albert Einstein amava farsi fotografare mentre pedalava in bicicletta nei vialetti di Princeton, ma non è per rinforzare la propria équipe ciclistica che il prestigioso Institute for Advanced Studies aveva offerto la nomina al professore. Ora Shlomo Sand ha scritto un testo di macro-storia e macro-sociologia del popolo ebraico, ma sono i suoi lavori sul cinema e la letteratura francese contemporanea che gli hanno dato la professura all'Università di Tel Aviv. Il libro di Sand Dove e quando è stato inventato il popolo ebraico? apparso in ebraico presso una piccola casa editrice specializzata in saggistica controcorrente, ha avuto un buon successo di vendite in Israele. L'autore dimostra molte letture e familiarità con il metodo della scrittura scientifica. Tradotto prima in francese e ora in inglese, il libro sta andando altrettanto bene, ha raccolto numerosi elogi ed è valso a Sand il premio Aujourd'hui, oltre a una cascata di recensioni disastrose. In breve, la tesi del libro è che non esiste un popolo ebraico sul piano antropologico, storico o culturale. Pertanto la pretesa degli ebrei di accedere a una propria sovranità politica come qualsiasi altra nazione è infondata e lo stato di Israele non ha ragione di essere – per lo meno non in quanto stato nazionale ebraico. In modo trasparente – e a sgravio dell'autore, anche in parte dichiarato – la procedura seguita per dimostrare questa tesi è quella ben nota nella storia delle idee e in particolare nell'analisi del pensiero politico dell'ingegneria alla rovescia: si parte dal prodotto finale, si vede com'è possibile smontarlo, e poi lo si rimonta in modo tale da farlo apparire assurdo. Alla fine, e dunque all'inizio, del discorso di Sand vi è in effetto una serrata critica dell'attuale situazione esistenziale della società israeliana e del progetto ideale che la sorregge. Sand non ama Israele come stato nazionale degli ebrei e preferirebbe un ipotetico neutrale stato dei cittadini senza distinzione fra ebrei e palestinesi, e se la cose finisse qui non ci sarebbe molto da aggiungere. La critica politica è non solo legittima ma assolutamente necessaria in una polis vigorosamente dialettica com'è quella di Israele, e ciò vale certamente anche all'interno di una ben più longeva tradizione ebraica di dibattito e di dissenso ideologico e culturale. Il problema comincia quanto intorno al punto focale del dissenso politico l'autore si sforza di disegnare dei cerchi concentrici argomentativi di natura per cosí dire scientifica, per poi sostenere di avere con successo scagliato una freccia al centro del bersaglio.
La strategia generale del discorso de-construttivista sulle identità nazionali e religiose è tutt'altro che nuova. Negli anni '80 fece colpo il libretto dei demografi Le Bras e Todd sull'Invenzione della Francia, subito ripreso dallo storico Pierre Chaunu. Benedict Anderson, un esperto di storia e cultura dell'Asia sud-orientale, aveva scritto uno stimolante e influente saggio sulle Comunità immaginate. In realtà il concetto di nazione monolitica è sempre meno plausibile non solo a causa della globalizzazione ma anche per via della tangibile sopravvivenza nella lunga durata di stratificazioni culturali ampiamente antecedenti la formazione delle identità nazionali dalle quali, in teoria, avrebbero dovuto essere sommerse. D'altra parte, molti dei miti costitutivi delle identità nazionali poggiano su basi evidenziarie a dir poco labili, se non inesistenti. Su questa falsariga sono state scritte molte pagine anche sull'identità dell'Italia (e degli italiani?) – da Bonvesin de la Riva fino ai riti celtici della Padania.
Fin qui, dunque, l'operazione semantica di Sand segue linee critiche oramai super acquisite e applicabili a tutte le identità nazionali. Anche l'identità ebraica si avvale talvolta di concetti e di credenze che non è sempre possibile dimostrare sulla base dell'evidenza documentaria, anche se gioca a suo vantaggio la propensione alla parola scritta e dunque una traccia concreta di gran lunga superiore a quella della maggior parte delle altre civiltà. E comunque rimane il fatto che le identità che si formano su queste fondamenta comuni, esatte o immaginate che siano, non sono per questo meno rilevanti e tenaci e dunque costituiscono un fondamento durevole dei comportamenti collettivi. Emblematica in questo senso è l'identità dei Palestinesi che al di là della memoria degli oltre sessant'anni di conflitto con Israele e al di là di ció che essa stessa ha mutuato da Israele, ha ben poca sostanza culturale ma rappresenta pur sempre una realtà concreta con cui è inevitabile misurarsi.
Ma Shlomo Sand vuol strafare e come prova della supposta fallacia dei miti della storia ebraica non trova di meglio che appoggiarsi ad altre mitologie non meno problematiche. Ecco dunque rispuntare il bidone della commistione fra ebrei e Kazari, reso popolare negli anni '70 da Arthur Koestler e sostenuto da alcuni linguisti come Paul Wexler ma smentito clamorosamente dagli ultimi studi di genetica delle popolazioni. È come se un fisico riscoprisse l'ipotesi che l'unità minima della materia è la molecola, mentre gli esperti all'acceleratore di Ginevra si interrogano su che cosa ci sia dopo i quanti. Gli studi di Michael Hammer, Karl Skorecki, BatSheva Bonné, Ariella Oppenhein e altri sulla biochimica applicata alla vita umana hanno per sempre cestinato l'ipotesi post-modernista e post-sionista, confermando invece le nozioni convenzionalmente note della storia del popolo ebraico.
È dunque ora dimostrato che la grande maggioranza degli ebrei (sefarditi e ashkenaziti) e delle popolazioni arabe mediorientali hanno origini comuni che vanno indietro nel tempo per quattro millenni. In epoca antica il nucleo ebraico ha esercitato un visibile potere di attrazione su altri ma poi è rimasto a lungo sostanzialmente segregato dalle civiltà circostanti. Il fatto che gli ebrei di oggi siano in gran parte i discendenti di pochi progenitori comuni, uomini e donne, e non il prodotto di frequenti scambi con altre società è confermato dall'incidenza elevata di portatori di specifiche patologie ereditarie. Le differenze interne, in questo caso, riflettono la prolungata segregazione delle diverse comunità ebraiche le une dalle altre.
Finito fuori strada sul tema della continuità delle generazioni, Sand appare ancora più sprovveduto sul tema della continuità culturale. Qui l'evidenza canonica e perfino alternativa è talmente schiacciante che sarebbe bastato aprire un sommario lemma di enciclopedia per documentarsi meglio sulla natura della multi-millenaria produzione culturale ebraica. Ma l'ipotesi dell'invenzione è più forte degli infiniti testi di natura normativa, commentari, scambi di informazione e memorialistica, letteratura di fantasia e poesia, transazioni commerciali e atti giuridici, storiografia, e nella fattispecie soprattutto degli endemici germogli di discorso politico ebraico dell'ultimo millennio, finalmente concretizzati nel secolo dei risorgimenti nazionali.
Le spettacolari trasformazioni sociali e demografiche degli ebrei come le grandi migrazioni internazionali, fra queste l'aliyah verso Israele, o la mobilità sociale e urbana non sono avvenute per caso o in seguito a delle ciniche manipolazioni di masse acefale da parte di sconsiderati capipopolo, ma per via di complesse e a volte intollerabili condizioni esistenziali percepite in larga sintonia da persone ubicate in varie parti del mondo e in cerca di liberazione come individui e come comunità. È dunque all'ebreo sia come produttore di cultura sia come soggetto sociale che Sand nega il diritto all'autodeterminazione.
Di fronte all'impegnato ma assolutamente improbabile e stellarmente incompetente Sand, assieme alle stroncature degli esperti, sono spuntati anche molti giudizi favorevoli. Notevole quello in stile caporalesco di Toni Judt sul Time Literary Magazine che già distribuisce istruzioni agli ebrei europei su come distaccarsi da Israele. Gli ebrei europei sapranno certo gestire con giudizio i loro sentimenti d'identità ebraica senza avere bisogno di Sand. Forse ancora più che per il suo contenuto disinformativo (per gli ignari e gli sprovveduti), il libro costituisce una cartina di tornasole circa lo stato del discorso politico odierno su Israele. La verità è che il libro di Sand non vende copie e vince premi perché è tanto bello: ci sarà sempre un lettore e un premio in attesa per un libro come quello di Sand.

Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme

Grandi uomini del loro tempo
Tobia ZeviNel 2006 mi invitarono, insieme a una delegazione del World Jewish Congress, al Senato francese per una cena di gala. Al termine della serata, già sul punto di lasciare la sala, mi fu indicato un vecchietto, Marek Edelman. Vedere in quell’uomo incanutito il simbolo della rivolta del ghetto di Varsavia mi fece uno strano effetto, che mi ha evidentemente portato a trasfigurarne i tratti somatici. Vedendo oggi l’immagine di Edelman, mi viene persino il dubbio che non fosse effettivamente lui, tanto il ricordo e l’impressione lo hanno trasformato. Può accadere con i miti. La storia è un’altra cosa, e se la si vuole conoscere occorre spogliarsi dei propri pregiudizi e della propria ottica. Per questo è importante «Il ghetto di Varsavia lotta», appena pubblicato da Giuntina per la cura di Wlodek Goldkorn. Il testo, scritto da Edelman subito dopo la guerra, è una cronaca della vita del ghetto e poi della rivolta resa da un giovane dirigente del Bund, il fortissimo partito socialista ebraico. Leggere la prosa del giovane Edelman, scoprire una visione del mondo così impregnata dell’ideologia e dell’appartenenza al partito, rende conto della distanza incolmabile che separa le generazioni.
Nella sua importantissima introduzione, Goldkorn sottolinea giustamente questi aspetti evidenziando la problematica morale che scaturisce oggi di fronte ad alcune scelte del giovane militante: la decisione di salvare prima i membri di partito rispetto ad altri; la risoluzione a onorare la memoria del proprio dirigente anche quando non se ne condividono le scelte (di fronte al suicidio di Anielewicz, il capo dell’insurrezione, Edelman afferma: «L’importante è che ci sia una leggenda. La leggenda per esistere deve essere legata a un nome. Quel nome è Anielewicz»); la posizione critica di Edelman nei confronti dello stato d’Israele.
Questo libriccino è composto da pagine straordinarie, e straordinariamente inattuali. Proprio questo lo rende storico, persino nella sua veste linguistica. Non dobbiamo onorare gli eroi estraendoli dalla storia. Dobbiamo onorarli per quello che erano. Grandi uomini del loro tempo.

Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas - twitter @tobiazevi

Storie - Addio a Sabatino Finzi testimone della Shoah
La Memoria della Shoah italiana ha perso un altro testimone. Ormai restano in vita solo due dei diciassette ebrei romani tornati dall’inferno dei Lager del Reich dopo la retata del 16 ottobre 1943, a seguito della quale 1023 di loro (compresi anziani, ammalati e bambini) erano stati deportati ad Auschwitz.
La sera del 24 maggio scorso è scomparso, all’età di 85 anni, Sabatino Finzi, l’unico minorenne tra i sopravvissuti. Prima di lui erano deceduti nel 2008  Leone Sabatello e nel 2000 Settimia Spizzichino, l’unica donna del gruppo dei superstiti, autrice del toccante libro di memoria “Gli anni rubati”, pubblicato meritoriamente dal Comune di Cava de’ Tirreni. I reduci ancora viventi sono Mario Camerino, che vive a Montreal, e Lello Di Segni, che abita a Roma e spesso è invitato dalle scuole capitoline per raccontare la sua esperienza nei Lager.
Sabatino, nato a Roma l’8 gennaio 1927, quel tragico sabato di ottobre del 1943 aveva appena sedici anni. Fu catturato dai tedeschi assieme ai genitori Giuseppe e Zaira e alla sorellina Amelia. All’arrivo ad Auschwitz, la madre e la sorella furono selezionate e inviate alle camere a gas. Lui e il padre (numeri di matricola 158556 e 158557), con la tuta a strisce da deportati e la stella gialla, furono destinati ai lavori forzati a Jawisowice, dove lavorarono nelle cave di lavagna, soffrendo la fame e gli stenti.
Il giornalista Roberto Olla, responsabile del Tg1 Storia, ha scritto su FB: “Ricorderò sempre quando Sabatino mi aveva spiegato come mangiava un pezzo di pane ad Auschwitz (il pezzo, quell'unico piccolo pezzo della razione): tenendo qualcosa sotto il mento, qualsiasi cosa che impedisse ad eventuali briciole di cadere e disperdersi. Davanti alla telecamera, aveva poi risucchiato con forza dalla mano briciole solo immaginate. Voleva esser sicuro che avessi capito bene”.
Il 22 gennaio 1945, quando Auschwitz e i campi satellite dovettero essere evacuati, i due Finzi furono trasferiti a Buchenwald. Il padre Giuseppe fu però mandato a Ohrdruf, dove morì prima della liberazione.
Sabatino finse di essere più grande della sua età e così venne destinato alla baracca degli adulti. Fu la sua salvezza. Dei 207 bambini presi dalle SS il 16 ottobre, fu l’unico a tornare a casa.
“Dovevo sembrare più grande – raccontò qualche anno fa a Marco Ansaldo de “la Repubblica” -. Perché avevo visto che i bambini li ammazzavano tutti. Non lavoravano, e alle SS non servivano. Li portavano fuori dai blocchi, e ta-ta-ta. Li mitragliavano. Io ero già un giovanetto. Allora ho detto di avere più anni, perché in quel modo potevo rendermi utile. Così sono sopravvissuto. Ho sempre avuto un sesto senso”. Il 15 aprile 1945, dopo la liberazione, Sabatino, ridotto a 29 chili di peso, scrisse una commovente lettera agli zii Anselmo Calò e Angelina Zarfati, che io e Marco Palmieri abbiamo pubblicato nel nostro libro “Gli ebrei sotto la persecuzione in Italia” (Einaudi, 2011).
“Dopo un anno e mezzo di prigionia fascista – si legge nella lettera - Iddio ha voluto che l’11 Aprile i primi liberatori Americani hanno occupato il campo mentre i reparti SS tedeschi stavano evacuare tutti e forse decimarci di 60.000 prigionieri ora siamo in libertà in 20.000 e tre italiani nostri dei quali due solo del primo trasporto del 16 Ottobre”. E più avanti: “cominciando dalle nostre famiglie dalla mia cara mamma e Amelia babbo nonno zio Lello e tutti i migliaia di ebrei sono stati tutti sterminati dalla ferocia nazista”.
Quando rientrò in Italia, Sabatino fu ricoverato all’Ospedale Sant’Orsola di Bologna per sette mesi. Qualche tempo fa era andato a Gerusalemme, al Muro del pianto. E come tutti, aveva infilato il suo bigliettino, con su scritto: “Hitler, non ce l’hai fatta a farmi fuori. Sabatino Finzi è ancora qui, come mio figlio Giorgio e come mio nipote”. Sabatino anche lui.

Mario Avagliano - twitter @MarioAvagliano

notizie flash   rassegna stampa
Solidarietà e allarme contro i fascisti greci
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“Siamo tutti ebrei greci”. Questo lo slogan che caratterizza l'appello internazionale lanciato da un gruppo di intellettuali, politici e attivisti per la difesa dei diritti umani a partire dal successo elettorale di Alba dorata nel paese ellenico. A breve, informano i fautori dell'iniziativa, sarà pubblicato online un appello aperto alle firme del pubblico.


 






 
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