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8 luglio 2012 - 18 Tamuz 5772
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alef/tav
Benedetto Carucci Viterbi Benedetto
Carucci
Viterbi,
rabbino

Il Chakham Ovadiah Yosef, la più importante autorità rabbinica sefardita contemporanea, ha recentemente affermato che è proibito espellere dalle scuole gli studenti anche quando hanno un comportamento assolutamente inadeguato. Nel suo discorso ha citato, a sostegno della sua posizione, questo insegnamento di Rabbi Levi Itzchak di Berdichev: "Un bambino disturbatore ed irrequieto, che non vuole stare mai fermo, ha ragione. Ha infatti una grande anima ed un piccolo corpo - e soffre. E dunque bisogna trattarlo con gentilezza"


David
Bidussa,
storico sociale delle idee


David Bidussa
Johnathan Littell, noto per il romanzo “Le benevole” ha appena pubblicato un reportage da Homs, (“Taccuino siriano”, Einaudi) dove è stato tra gennaio e gli inizi di febbraio di quest’anno quando ancora quella città siriana a molti di noi era sconosciuta.
La frase che trovo più vera e anche più cruda è quella di chiusura del libro “Fadi, Alaa, Abu Yazan, Ahmad – scrive Littell - e gli altri combattenti dell’Esl che compaiono in questo taccuino devono essere morti o peggio, o forse no, ma con ogni probabilità non lo saprò mai. Di molti tra quanti ho citato qui il nome proprio, un’iniziale o uno pseudonimo che si erano scelti per lanciarsi in questa avventura, certo non rimarrà nulla al di là di questi appunti, e del loro ricordo nella mente di chi li ha conosciuti e amati…” (p. 193).
Difficile dire se noi ci ricorderemo.
Al di là delle molte frasi di rito dette in questi mesi non so quanti leggeranno gli appunti di Littell. In ogni caso noi qui non li abbiamo mai amati, né abbiamo avuto il desiderio o, anche più laicamente, la curiosità di conoscerli.

davar
Pio XII - Nuove critiche all'operato di Yad Vashem 
Il rav Di Segni e lo storico Sarfatti chiedono chiarezza
“Un Museo storico non deve dare spazio né a ‘critici’ né a ‘difensori’! Deve ricostruire, sintetizzare ed esporre fatti ed eventi, quando del caso esponendone la problematicità, ma mai ponendosi come osservatore impossibilitato a comprendere”. In un editoriale che apparirà sul prossimo numero di Pagine Ebraiche, anche Michele Sarfatti, storico e direttore della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea interviene duramente nei confronti dello Yad Vashem, il Museo della Shoah di Gerusalemme, punto di riferimento mondiale per lo studio e il ricordo di quegli anni, che ha deciso negli scorsi giorni di rivedere il testo che accompagna le immagini di Pio XII, pontefice dal 1939 al 1958. Il riferimento è alla scelta di esporre sia la tesi di coloro che criticano l’operato del papa, sia quella di chi invece lo difende.
Il cambiamento operato dallo Yad Vashem ha suscitato negli scorsi giorni un ampio dibattito. Dura era stata la presa di posizione del rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, che l’aveva definito “una decisione che lascia l’amaro in bocca”, ritenendola motivata da intenti politici più che storici.
Una dichiarazione che a Gerusalemme non è passata inosservata: e così Dan Michman e Bella Gutterman, rispettivamente capo e direttore dell’International Institute for Holocaust Research, la storica Dina Porat e Yehuda Bauer, consulente accademico, hanno deciso di rivolgersi al rav Di Segni “Come storici della Shoah abbiamo letto con grande interesse e attenzione le sue osservazione sull’Unione Informa del 2 luglio 2012. Avendo il massimo rispetto per lei e per la sua opinione, desideriamo affrontare i suoi commenti, che ci sembrano basati su cattive informazioni” hanno spiegato gli storici
in una lettera indirizzata al rav, esponendo poi le ragioni del cambiamento. Gli studiosi hanno negato con vigore l’asserzione che la revisione del testo rappresenti il frutto di pressioni da parte del Vaticano (“Non ci sono parole per smentire questa affermazione con forza sufficiente”), attribuendola invece a risultati di anni di ricerche e all’attuale stato degli studi sul tema e annunciando la prossima pubblicazione degli atti del convegno sull’argomento del 2009, che forniranno le basi storiche del nuovo pannello. Nel messaggio viene poi dato conto della scelta di riportare sia le posizioni critiche nei confronti di Pio XII che quelle dei difensori del suo operato, sottolineando come questa soluzione rifletta meglio l’innegabile contesa che circonda le scelte del papa. “Inoltre oggi viene proposto al visitatore il testo integrale del messaggio radiofonico di Pio XII del Natale 1942, il punto centrale dell’intera controversia” l'osservazione conclusiva.
Una spiegazione molto vicina a quella che è stata la considerazione espressa dalla storica Anna Foa all’indomani dell’annuncio “Il cambiamento della didascalia su Pio XII al Museo di Yad Vashem era da tempo in programma. Contrariamente a quel che si è subito detto dai media, non mi sembra che la nuova didascalia rappresenti un ammorbidimento del giudizio rispetto a quella precedente, che esprimeva una recisa condanna della posizione di Pio XII verso lo sterminio degli ebrei europei. Quello che la nuova didascalia riflette è, mi sembra, un giudizio più che morale, storico: la consapevolezza che ci si trova all’interno di un dibattito ancora aperto, in cui molta nuova documentazione ha già contribuito a modificare le valutazioni e in cui ci si aspetta che l’apertura degli archivi per gli anni della guerra porti altri contributi rilevanti. La didascalia precedente era frutto, a mio avviso, di un giudizio dogmatico, assoluto, che prescindeva dall’esistenza di un dibattito a livello storiografico e dell’esistenza di nuova documentazione a livello dell’individuazione dei fatti. La nuova apre la strada ad ulteriori modifiche, in un senso o nell’altro, a dimostrazione che la storia si basa sui documenti e sulle interpretazioni, non sui pregiudizi politici o sul senso comune. E i responsabili di Yad Vashem hanno dimostrato, con questo gesto coraggioso, di esserne pienamente consapevoli". Mentre di “esigenza di revisione della scritta illustrativa da tempo avvertita” aveva parlato il diplomatico e saggista Vittorio Dan Segre, che aveva aggiunto “Il fatto che l'istituto abbia ora deciso di metterci mano dimostra che siamo vicini a nuovi accordi complessivi fra Israele e Vaticano su cui si è a lungo lavorato e che potrebbero essere presto siglati. La battaglia di chi da parte ebraica vorrebbe condannare la figura di papa Pacelli a restare perennemente rinchiusa in una dimensione di condanna morale senza appello non è alla lunga sostenibile sotto il profilo politico e forse anche sotto quello storiografico. Ma quello che più conta è comprendere che l'argomento, da qualunque parte lo si voglia guardare, oggi è in grado di suscitare solo un interesse limitato nelle opinioni pubbliche che le parti in causa dovrebbero rappresentare. Certo interessa poco all'opinione pubblica israeliana e certo ancora di meno a un mondo cattolico che comincia a temere il moltiplicarsi di massacri ai danni delle popolazioni cristiane in Africa e nel mondo islamico. C'è un contenzioso da chiudere, fra Israele e il Vaticano, e questo deve avvenire nel migliore dei modi possibili senza lasciarsi condizionare eccessivamente dalle ferite che la storia ci ha lasciato in eredità”.
Chiarimenti e spiegazioni che però non hanno rassicurato il rabbino capo di Roma. “Non è la disinformazione, ma la mancanza di informazioni, la ragione delle mie considerazioni. Se esistono ulteriori documenti in vostro possesso, lasciate che altri, studiosi e non, li conoscano. In caso contrario il pubblico sarà, così come si sente adesso, scioccato da quella che sembra essere una decisione unilaterale - ha sottolineato rav Di Segni nella sua risposta agli studiosi dello Yad Vashem, esprimendo poi il dolore della sua gente - Vi prego di comprendere l’impatto della vostra decisione sulla nostra comunità. Non sono storici, è gente che la storia l’ha subita. Possono cambiare la loro opinione, ma solo sulla base di fatti e di documenti”.
Sulla stessa lunghezza d’onda era stata la presa di posizione dell'ambasciatore Sergio Minerbi, esponente di spicco della comunità degli Italkim e considerato fra i massimi esperti delle relazioni fra Israele e il Vaticano. “Che vergogna, è bastata una protesta del Nunzio della Santa Sede, per far cambiare allo Yad Vashem il testo della didascalia sotto la fotografia di Pio XII. Non so se sia per incompetenza in materia o per voler andar d'accordo con tutti, ed ignoro fino a qual punto abbia influito l'ebreo americano Gary Krupp, di Pave the Way, fiero della sua decorazione vaticana, la ‘patacca’ di San Gregorio Magno. Nel nuovo testo, se verrà confermato, Yad Vashem agisce come se fosse neutrale in materia e si limita ad affermare che alcuni critici ‘sostengono che ci fu un fallimento morale’. Ma l'istituto non ha un'opinione propria su una questione tanto sensibile? E allora a che serve questa mastodontica istituzione, cosa insegna ai suoi numerosi ricercatori? Come è possibile ammettere che Yad Vashem si limiti a constatare che ‘la reazione di Pio XII è questione controversa fra gli studiosi’? Va in ogni caso ricordato che Pio XII non pronunciò una sola volta in pubblico la parola ebrei durante tutta la seconda guerra mondiale, questo punto almeno non è oggetto di controversia. Alla deportazione degli ebrei di Roma, Pio XII non reagì né in pubblico né in segreto. I suoi incontri diplomatici in quei giorni vertevano su Roma città aperta o sui rifornimenti alimentari e nulla più. Yad Vashem potrebbe agire secondo l'esempio di un gesuita, John Morley, che termina il suo libro sulla Shoah con queste parole: ‘Bisogna concludere che la diplomazia vaticana fallì nei confronti degli Ebrei durante l'Olocausto non facendo quanto era possibile fare (per venire) in loro aiuto’.”
Una soluzione, almeno parziale, della controversia, potrebbe venire dall’apertura degli archivi vaticani. Un auspicio condiviso da tutti gli storici e ribadito anche dal canadese Michael M. Marrus, professore di Holocaust studies all’Università di Toronto, che ha commentato gli accadimenti sul New York Times “Diversi anni fa, il Vaticano, rispondendo alle insistenti richieste di studiosi e non, compresa una commissione storica ebraico-cattolica di cui io stesso ho fatto parte, ha finalmente accettato di mettere gli archivi a disposizione dei ricercatori. Ad oggi questa promessa non ha avuto alcun seguito. Finché questo non accade, seri interrogativi a proposito di papa Pio XII persistono”.

Rossella Tercatin twitter @rtercatinmoked

Qui Roma - La città unita a presidio della Memoria 
Un'ondata di indignazione sta attraversando la capitale a seguito della rimozione, da parte di ignoti teppisti antisemiti, della targa toponomastica di via Settimia Spizzichino, la strada intitolata all’unica donna sopravvissuta alla deportazione degli ebrei dal ghetto di Roma del 16 ottobre 1943.
La nipote della donna Carla Di Veroli ha lanciato un appello alla mobilitazione “Credo che questa sia la risposta di coloro che male hanno sopportato la mia recente battaglia per impedire che a Roma fosse intitolata una strada a Giorgio Almirante. Chiedo che tutte le forze democratiche e antifasciste rispondano ad un oltraggio così grave, fatto contro la memoria di Settimia Spizzichino, unica donna tornata viva dalla retata del 16 ottobre del 1943 nel Ghetto di Roma. Mi aspetto che il presidente del Municipio Roma XX (dove si trova la via ndr) e il sindaco Alemanno ripristino immediatamente la targa sottratta, con una cerimonia cittadina". Una richiesta fatta propria anche dal presidente della Comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici “Qualora si tratti di un 'semplice' atto vandalico, è evidente che la condanna è netta. Rivolgo al contempo un appello al sindaco, affinché venga ripristinata la targa, perché Settimia Spizzichino, unica sopravvissuta alla retata del 16 ottobre del 1943, rappresenta un simbolo - ha sottolineato, offrendo anche il suo personale ricordo - Quella di Settimia è una storia particolare: è la storia di una donna, l'unica, che appena rientrata decise di iniziare a raccontare, di fronte alle perplessità di molti, ciò che aveva vissuto. E lo ha fatto fino alla sua morte. Settimia Spizzichino è stata una donna che ha continuato a combattere, ogni giorno della sua vita, contro le ideologie nostalgiche del nazismo e del fascismo. Se invece stiamo parlando di un atto ostile, proprio per i significati che ho appena enunciato - ha poi ammonito Pacifici - è evidente che oltre a ripristinare la targa, è corretto promuovere insieme a tutte le autorità locali (Comune, Regione, Provincia), una grande cerimonia. In quell’occasione Roma vorrà gridare che la città vuole la sua via alla memoria di Settimia Spizzichino. Oltre a condannare queste azioni, che ogni tanto si ripresentano nella città e non solo a Roma, dobbiamo anche dire a questi signori che non ci impauriscono. Se loro hanno voglia di riproporre gesti così vigliacchi e di infierire su una donna che ha visto tutto, noi continueremo a combatterli. Le istituzioni tutte, a cominciare da quelle cittadini, monitorino i luoghi di aggregazione di coloro che si rifanno a certe ideologie, perché alimentano nelle giovani generazioni un culto di un'ideologia che noi mai sopporteremo in questo Paese, nato sulle ceneri del nazifascismo”.
Pronta la risposta delle autorità locali. Per il presidente della provincia Nicola Zingaretti “l'episodio è una ferita per la città, un gesto vigliacco che colpisce profondamente tutti noi. Per questo mi auguro che venga ripristinata in tempi brevissimi. Settimia Spizzichino rappresenta un'eroina dei nostri tempi, una donna coraggiosa che ha avuto la forza di condividere i suoi atroci ricordi, raccontando tutte le terribili umiliazioni subite e le sofferenze vissute alle nuove generazioni. Le sue parole sono state di enorme valore per tutti noi: hanno contribuito a non disperdere la memoria della Shoah. Mi auguro che il prima possibile siano individuati i responsabili di tale gesto e individuate le ragioni della rimozione della targa. E’ opportuno, e non è secondario - ha concluso Zingaretti - capire se si è trattato di un atto vandalico o di un atto rivolto a colpire un simbolo della storia della Shoah”. “E’ stato un gesto vile che offende la memoria e l’onore di una donna che ha vissuto il male assoluto della Shoah. Il Campidoglio ripristinerà la targa al più presto con una cerimonia di commemorazione aperta a tutta la città. Simili comportamenti vanno condannati con assoluta fermezza. Roma, città simbolo della lotta di liberazione, dei valori di civiltà, libertà e democrazia, non merita di essere sfregiata in questo modo” la dura condanna del sindaco Gianni Alemanno.


pilpul
Davar Acher - Hatikvah
Ugo VolliAnche a me sembra importante commentare la bizzarra proposta di “rivedere” se non di abolire del tutto l'inno nazionale Hatikvah “per rispettare la sensibilità degli arabi” che è stata avanzata in Israele un mese fa da alcuni intellettuali e militanti di sinistra, ed è stata oggetto di un'inchiesta nell'ultimo numero di Pagine ebraiche (clicca qui per leggerla su Facebook) e di un commento di Francesco Lucrezi su questo sito. La discussione, decisamente improponibile in tutto il resto del mondo, mi sembra infatti un sintomo assai caratteristico del distacco di una certa - autodesignata - élite intellettuale e giornalistica israeliana dai sentimenti del paese e anche dal buon senso. Non ripeterò qui gli argomenti esposti da Lucrezi per illustrare l'assurdità dell'idea, argomenti che sottoscrivo integralmente. Vorrei invece provare a mettere in luce le illusioni che stanno alla base di una proposta come questa e di molti altri atteggiamenti “post-sionisti” in Israele e altrove.
La prima illusione è quella un po' infantile della responsabilità universale del popolo ebraico o di Israele per tutto quel che gli accade. Basterebbe che noi ci comportassimo nella maniera giusta, che fossimo buoni e bravi e saremmo finalmente al riparo di ogni guaio. Per questa illusione, i pacifisti dicono che siamo noi e non gli arabi che portiamo la responsabilità del conflitto in Medio Oriente e possiamo risolverlo comportandoci a dovere; come - sostengono alcuni charedim - è stata colpa nostra e non di Hitler la Shoah, e magari la colpa è stata proprio quella di provare a tornare in Eretz Israel. Si può considerare quest'illusione come una versione collettiva di quella ”onnipotenza infantile” che come sanno gli psicologi dell'età evolutiva genera il “pensiero magico” dei bambini e anche certi persistenti sensi di colpa per disgrazie con cui il bambino non può fare nulla, come la scomparsa di parenti. Oppure la si può vedere una versione rozzamente laicizzata della responsabilità che nella nostra tradizione solo la Divinità può imporre a Israele per i suoi peccati. Il fatto è che tutta la nostra storia di piccola minoranza dispersa fra gli altri popoli mostra che è la loro iniziativa e non solo la nostra, sono le loro modificazioni economiche e sociali e non solo la nostra etica a dar luogo alle maggiori vicissitudini del nostro popolo. Qualcosa accadde nell'XI secolo nell'Europa renana, nel XV in Spagna, nel XX in Germania per provocare le persecuzioni; non certo nei comportamenti degli ebrei che le subirono.
La seconda illusione, in un certo senso subordinata a questa, può essere definita della proba cittadinanza: se ci comportiamo secondo i modi approvati dai popoli, se ci conformiamo ai criteri e agli usi della società circostante, se mangiamo e ci vestiamo come fanno loro, se adottiamo le politiche prescritte dai preti o dagli intellettuali (che in fondo sono solo la versione modernizzata dei primi), se diventiamo patrioti leali, bravi cittadini indistinguibili dagli altri, ebbene, allora smetteranno di volerci male e farci male, saremo finalmente accettati. Che la maggior parte degli ebrei tedeschi perseguitati da Hitler o di quelli italiani discriminati da Mussolini fossero per l'appunto bravi borghesi che si vestivano, ascoltavano musica e leggevano poesie come gli altri, che avevano partecipato con onore allo sviluppo del paese e magari si erano conquistate medaglie in guerra; che gli ebrei dell'URSS fossero più socialisti dei loro concittadini, eppure che gli uni e gli altri siano stati perseguitati, espulsi, distrutti - non ha insegnato molto a chi nutre quest'illusione. E non vale l'obiezione che fascismo, nazismo e comunismo erano dittature totalitarie e in una democrazia questa cose non accadono. Anche Dreyfus era un ottimo cittadino e soldato di una patria democratica, ma questo non impedì la sua degradazione e condanna.
La terza illusione, più specificamente legata a Israele, è quella del buon vicinato: se convinceremo gli arabi che non siamo dei cattivi vicini, anzi, che la nostra convivenza può essere di vantaggio per loro, e che comunque noi non vogliamo loro male, anzi nutriamo simpatia e vogliamo essere amici, il conflitto che dura da un secolo si calmerà finalmente e tutti vivremo felici e contenti. Secondo questa illusione, i responsabili del sionismo hanno avuto troppa fretta, o troppe cattive maniere, o troppa incapacità di mostrare la loro volontà di collaborazione, troppa indifferenza per la nobile cultura araba e di qui è nato il conflitto: questione di equivoci, naturalmente, oltre che colpa nostra, secondo l'illusione numero uno. Bisogna dunque rimediare: se mostreremo la nostra volontà di amicizia, se dunque faremo dei passi indietro e daremo dei segnali di non voler essere troppo ebrei in Israele ma ci sforzeremo di assumere un basso profilo e un colore neutro, se dunque rinunceremo all'inno (e magari, come suggerisce ironicamente Lucrezi, anche alla bandiera, allo stemma nazionale, al nome del paese), come d'incanto gli arabi capiranno che siamo buoni come certamente sono loro e (secondo l'illusione numero due), rinunceranno a far la guerra contro di noi e saranno finalmente disponibili ai magnifici destini e progressivi che si apriranno alla nostra collaborazione. Che questa sia un'illusione, perpetuata da decenni da alcune anime belle ben decise a ignorare la realtà, è dimostrato dalla lunghezza e dalla durezza del conflitto. Sono cent'anni che gli arabi spargono il nostro sangue - e senza dubbio anche il loro - per espellerci dal Medio Oriente; i vantaggi economici, la buona volontà di alcuni, la pressione internazionale non contano; se ci sono delle interruzioni della violenza queste sono per loro delle tregue in un compito che dev'essere realizzato e lo sarà senz'altro. Ancora in questi giorni, se a Tel Aviv qualcuno manifesta per la pace, a Ramallah si fanno manifestazioni contro la lontanissima possibilità di una ripresa delle trattative.
La quarta illusione, dipendente dalle altre tre, è che degli atti simbolici e anche molto concreti di apertura alle ragioni dell'altro possano disinnescare il conflitto. Andarsene da Gaza o lasciare all'Anp buona parte dei territori liberati nel '67 non ha affatto diminuito la violenza, anche se la separazione dei popoli può avere un senso strategico. Sostituire la Hatikvah con “Funiculì funiculà”, il Maghen David sulla bandiera con un felafel stilizzato e rinominare Israele “Aranceto” o “Bagni Mariuccia” o come vi pare, non risolverebbe affatto il conflitto. Anzi, tutto ciò sarebbe letto dall'altra parte, così come è avvenuto per tutte le concessioni del passato, come un segno di debolezza e rinfocolerebbe le certezze arabe e la combattività che ne deriva. 
E in effetti questa lettura sarebbe giusta: perché rinunciare all'inno che ha segnato tutto il tragitto del movimento sionista e riassume le ragioni dell'iniziativa ebraica dell'ultimo secolo e mezzo sarebbe una sorta di suicidio simbolico. Certo, la Hatikvah non è lo Shemah o il Kaddish, non contiene il cuore religioso del popolo e ebraico se non per cenni (gli accenni a Sion, per esempio, che i riformisti vorrebbero togliere). Ma essa riassume il destino storico che si è assunto il nostro popolo: cancellarlo, per simbolizzare un'improbabile nazionalità israeliana distinta da quella ebraica, sarebbe una ferita gravissima insieme all'identità ebraica e a quella di Israele (o dell' “Aranceto” prossimo venturo). L'ebraismo, estirpato da Israele, si troverebbe ridotto suo malgrado al ruolo di fossile religioso stranamente sopravvissuto, come lo hanno definito per secoli la Chiesa e in era moderna anche gli intellettuali laici. Israele diverrebbe un paese senza ragione e senza identità, senza progetto, davvero quel residuo coloniale fallito che vedono gli ultrasinistri di tutti i tipi e le nazioni. Ma il suicidio simbolico, è bene ripeterlo, non impedisce affatto la guerra e il tentativo di genocidio: gli ebrei laici e dimentichi di sé furono travolti dalla Shoah come i più sionisti o i più religiosi. Gli arabi continuerebbero ad assalire l' “Aranceto”, entrerebbero nelle case dei falafalisti o orangisti che fossero e ne sgozzerebbero i bambini, se non si fossero previamente convertiti, e continuerebbero a volere un Medio Oriente Judenrein. Conclusione: abbandoniamo le illusioni, nei limiti del possibile, cerchiamo di essere noi stessi e di assumere con dignità il nostro destino storico comune.

Ugo Volli twitter @UgoVolli

notizieflash   rassegna stampa
Tirat Tzvi batte tutti sul caldo
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Il kibbutz israeliano di Tirat Tzvi, 220 metri sotto il livello del mare, entra nella top ten dei posti più caldi al mondo della classifica stilata dalla rivista Foreign Policy. Il termometro di Tirat Tzvi ha infatti segnato i 53,88 gradi centigradi nel 1942, la nona temperatura più alta mai registrata. Il primato va al deserto iraniano di Lut (70 gradi), mentre al quinto posto figura la famosa Death Valley californiana.
 

Cominciamo la lettura dei giornali rimandando all’intervista di Alain Elkann a Jonathan Sacks su la Stampa. Il Gran rabbino della Gran Bretagna e del Commonwealth, nota figura di umanista, conosciuto nel nostro paese grazie anche alla traduzione del suo libro su «la dignità della differenza» (pubblicato da Garzanti nel 2004), riflette, tra le altre cose, sul «principio speranza» come strumento nella costruzione dei rapporti interpersonali e come elemento fondamentale della democrazia.

continua

Claudio Vercelli
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