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  25 luglio 2012 - 6 Av 5772
l'Unione informa
ucei 
moked è il portale dell'ebraismo italiano
alef/tav
david sciunnach
David
Sciunnach,
rabbino 


“Queste sono le parole che Moshè disse a tutto Israele...” (Devarìm 1,1). Ci insegna il Meghallè ‘Amukòth che la parola con cui inizia la Parashà E’llè - “queste”, è l’acrostico di ‘avak lashòn harà - polvere di maldicenza. E’ con questo insegnamento che Moshè Rabbenù inizia il suo discorso al popolo d’Israele, ammonendolo affinché stesse attenti. In base a quanto ci hanno insegnato i Maestri nel Talmùd (Bavà Batrà 145b) molti peccano a causa del ghèzel - furto o truffa, pochi peccano per le ‘arayòt - atti incestuosi e sessuali, e tutti peccano per la polvere di maldicenza. La distruzione del Bèth ha-Mikdàsh, che ricordiamo proprio questo Shabbàt,  è avvenuta a causa della Sinàt achìm - dall’odio gratuito tra fratelli, che è una delle fonti della maldicenza.

 Davide 
Assael,
ricercatore



davide Assael
Molti parlano della crisi della democrazia europea, della possibilità che le esigenze economiche prevalgano sui diritti e sulle procedure democratiche. Del pericolo, in parte già affermatosi, dell’avanzare dei peggiori populismi, del ritorno alla xenofobia come terreno di speculazione politica, del riaffacciarsi dell’antisemitismo. E se in Europa rischiamo di arrivare al punto di rottura, non pare che la classe politica si dimostri all’altezza, fra resistenze, egoismi e timori culturali. Dal canto nostro, noi abbiamo pensato bene di riproporre il ritorno (tutto da verificare, ma è già un sintomo l’annuncio) di Silvio Berlusconi. E siccome in questi anni, al di là delle cause che ciascuno individuerà secondo le proprie convinzioni politiche, è passato dal ruolo di unto del Signore a quello di untore, l’unico disposto ad allearcisi pare essere Francesco Storace con la sua Destra, che conta fra le sue file personaggi alquanto inquietanti. L’anno prossimo è un altro anno elettorale in Europa, credo che gli ebrei abbiamo responsabilità maggiori nel vigilare su chi si presenta alle urne. Speculare sui problemi sociali fa gola a molti.

davar
Redazione aperta - Rav Roberto Della Rocca:
"La nostra responsabilità nei confronti del mondo"
“Il lutto di Tishà Be Av deve farci riflettere essenzialmente sulle cause che lo hanno determinato. Come se dovessimo lavorare sulla prevenzione e non solo piangerci addosso per quanto ci è successo” scriveva rav Roberto Della Rocca, direttore del Dipartimento educazione e cultura dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, sull’Unione Informa del 25 luglio. Proprio da questa riflessione ha preso spunto il suo incontro con i partecipanti al laboratorio giornalistico di Redazione aperta. “Ricordiamoci che il Talmud affronta quella che fu la Shoah di quei tempi, la distruzione del Beth Hamikdash, non concentrandosi su Babilonesi e Romani, ma sul popolo ebraico stesso” ha spiegato rav Della Rocca. Superare il vittimismo e assumersi le proprie responsabilità verso il mondo dunque. “I Maestri ci insegnano che gli altri ci vedranno come noi vediamo noi stessi - ha proseguito il rav - Oggi abbiamo più che mai bisogno di un ebraismo autoreggente, autorevole, che sappia rappresentarsi al di là dei mostri sacri che ci siamo costruiti e che ci hanno reso sempre più legati a un ebraismo virtuale, ricco di scorciatoie. Perché è più semplice ricordare un nonno che ha subito la persecuzione durante la Shoah, oppure esprimere la propria vicinanza a Israele, piuttosto che impegnarsi a studiare Torah ogni giorno”. E allora la conseguenza rischia di essere quella di sostituire il contenuto al contenitore, un rischio che il popolo ebraico ha corso sin dai tempi di Mosè, che ruppe le Tavole della Legge quando si rese conto che il popolo prestava maggiore attenzione alla pietra che alle parole su essa incise. “Oggi abbiamo in tante città d’Italia sinagoghe monumentali ma vuote - la riflessione di rav della Rocca - E invece, all’epoca dell’assedio romano di Gerusalemme, quando a rabbì Yochanan Ben Zakkay fu concessa una ricompensa per aver predetto a Tito che sarebbe divenuto imperatore, il Maestro non scelse di salvare il Tempio, ma la cittadina di Yavne e la sua yeshivah, la sua scuola, dove si erano rifugiati i Saggi. Segnando così il momento in cui l’ebraismo non sarebbe più stato legato agli edifici, ma allo studio. Di nuovo, non più il contenitore, ma il contenuto”. E allora il rav ha invitato ad essere più consapevoli dei valori ebraici e meno disposti a comprometterli nel confronto con la società, a scuola, all’università, sul posto di lavoro. Ricordando sempre come “essere religiosi non significhi semplicemente rispettare le mitzvot in modo formale, ma guardare la realtà con occhiali ebraici, impregnati cioè di un’etica in cui il rispetto dello straniero, la tzedakah, la modestia, la difesa dei deboli sono pilastri fondamentali. Perché anche dimenticare questi valori, significa assimilarsi” ha sottolineato rav Della Rocca. E se dunque un grosso compito spetta agli ebrei italiani, quello di studiare e di costruire un’identità consapevole, un altrettanto gravoso impegno attende i rabbanìm, quello di accompagnarli in questo percorso, rimanendo in mezzo a loro. “Oggi più che mai - la sua conclusione - abbiamo bisogno di Maestri che siano anche pronti a esporsi e a lasciarsi coinvolgere nelle problematiche quotidiane”.

Rossella Tercatin - twitter @rtercatinmoked

Redazione aperta - La partita delle risorse
La giornata di Redazione aperta si apre con un carnet ricco di incontri. Una tavola rotonda che confronta Joseph Sassoon, Betti Guetta e Rav Roberto Della Rocca. Il tema segue il fil rouge scelto per questa edizione: come sfruttare e migliorare le risorse. I punti di vista orientati secondo le speciaizzazioni degli ospiti portano risposte disparate. Inizia Joseph Sassoon, presidente di Alphabet, istituto specializzato nella ricerca qualitativa e nella comunicazione di marca (cioè sui brand). La sua ricerca si muove sui testi e non sui numeri, in questo è qualitativa e non quantitativa. Il cuore delle sue indagini si alimentano con lo storytelling, la capacità di raccontare una storia. Nella comunicazione di marca si applica la semiotica alle aziende. Viene introdotta nel 1985, poi  aggiornata e sovrapposta allo screen writing hollywoodiano. Bisogna costruire storie, modellarle sul terreno del marketing. Altro elemento importante per la buona riuscita della comunicazione è la viralità, il trasmettere tramite passaparola. Studiando la campagna dell'8x1000 della CEI, Sassoon evidenzia l'importanza di una buona storia che coinvolge gli spettatori, illustra quindi uno schema fisso. Nello schema c'è un eroe che vive nel mondo ordinario e ha qualche mancanza, arriva un messaggero, lui resiste e poi accetta l'avventura. Incontra un mentore e passa al mondo speciale  attraversando la prima soglia. Ci sono dei guardiani che sorvegliano il cancello e l'eroe deve affrontare un test. Poi l'avvicinamento porta l'eroe in prossimità dell'antieroe e c'è uno scontro frontale quasi mai risolutivo. Passa un momento nel quale viene ricompensato, torna al mondo ordinario ma viene inseguito e c'è un secondo climax in cui muore e rivive. Torna portando un elisir per risanare i mali del mondo. Questo modello è applicabile potenzialmente all'infinito. Nella comunicazione ci vuole un messaggio che segna un forte contrasto tra il bene e il male. "Difficile emozionare con tabelle numeri. Un bel romanzo e bel film coinvolgono, nulla vale una buona storia" così conclude Sassoon. Il timone passa poi in mano a Betti Guetta del CDEC. Al contrario di Sassoon, si è occupata di ricerca sociale e il suo ultimo lavoro indaga l'antisemitismo. Betti Guetta vuole andare oltre i numeri, vedere chi c'è dietro la percentuale, cosa determina le risposte. Con i suoi studi ha attraversato le varie fasi dell'Italia in costante cambiamento, curando grandi tematiche come l'immigrazione e la politica. Per la ricerca sull'antisemitismo ha riunito un focus group: "Bisogna sommare vari elementi per capire. Tenere conto dell'ambivalenza - afferma - e della criticità. Si deve marcare stretto un gruppo. Creare un contesto di comprensione." Purtroppo gli stereotipi sull'ebreo sembrano non cessare e si correla spesso l'antisemitismo all'antisionismo. L'ebreo viene così tacciato molte volte di attuare un comportamento isolazionista. Quale soluzione? "Bisogna evitare la sovraesposizione mediatica".
La vera risorsa dopo l'interessante dibattito di idee chiude il cerchio: per creare nuove risorse è necessario raccontare una bella storia. La nostra storia.

Rachel Silvera - twitter @RachelSilvera2


Olimpiadi - Memoria e impegno senza confini
L'attesa è tutta per il tardo pomeriggio odierno quando le vedove Ankie Spitzer e Ilana Romano presenteranno alla stampa i risultati della grande petizione internazionale lanciata negli scorsi mesi affinché durante la cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Londra venga tributato un minuto di silenzio in ricordo degli undici atleti israeliani uccisi dai terroristi di Settembre Nero ai Giochi di Monaco. Moltissime le firme che sono state apposte (oltre 103mila) con l'obiettivo di condividere questa grande battaglia di giustizia tra i popoli e di sensibilizzare le massime istituzioni dello sport ad aprirsi al mondo ripensando la scelta di una commemorazione low profile o comunque dietro le quinte. In attesa di conoscere la reazione del numero uno del Comitato Olimpico Internazionale continuano nel frattempo gli interventi di sostegno all'iniziativa. A favore tra gli altri il presidente degli Stati Uniti Barack Obama e il sindaco di Londra Boris Johnson. A sorpresa anche la Libia si schiera al fianco di Israele. “L'Olimpiade – ha detto il capodelegazione Milad Agila – è la festa dei popoli e della pace. La nostra delegazione è pertanto assolutamente favorevole al minuto di silenzio”. Forte e inequivocabile l'impegno che si riscontra anche in più ambienti della società italiana. Dagli atleti azzurri sbarcati nella capitale inglese, che proprio nel cuore del Villaggio Olimpico si riuniranno in raccoglimento su iniziativa del presidente del Coni Gianni Petrucci, alla classe politica nelle sue più alte espressioni con la Camera dei Deputati che quest'oggi alle 18.15 interromperà i lavori dell'aula per quei sessanta secondi di memoria ad oggi tristemente negati. Qualora l'ultimo tentativo delle vedove Spitzer e Romano andasse a vuoto – è previsto anche un incontro diretto con lo stesso Rogge – numerosi saranno i cittadini a ritrovarsi nelle piazze e nelle sinagoghe di tutta Europa domani sera al tramonto quando, alla vigilia della cerimonia di apertura dei Giochi, le Comunità ebraiche onoreranno il ricordo di undici persone innocenti con momenti di preghiera e riflessione senza per questo dimenticare lo sdegno nei confronti di una decisione che non sono in pochi a trovare avvilente e poco coraggiosa. Emblematico il titolo scelto per la manifestazione che avrà luogo al Portico d'Ottavia, in pieno quartiere ebraico di Roma: 'Le Olimpiadi profanate'.

a.s - twitter @asmulevichmoked

pilpul
Storie - Sami Modiano e la deportazione da Rodi
Mario AvaglianoNella storia della deportazione italiana c’è anche il capitolo di Rodi, l’isola delle rose, passata all’Italia nel 1912, dove all’epoca vivevano insieme, pacificamente, ebrei, musulmani e cristiani. Anche in questo paradiso le leggi razziali fasciste del 1938 cambiarono la vita della comunità ebraica, stanziata nell’isola dal XVI secolo, ad esempio con la brutale espulsione dei ragazzi ebrei dalle scuole.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, Rodi passò sotto il controllo tedesco. Il 18 luglio 1944 i nazisti, con il pretesto di un controllo dei documenti, arrestarono i capifamiglia della comunità e il giorno dopo, come ha raccontato Sami Modiano nel bell’articolo realizzato da Umberto Gentiloni su La Stampa, "chiesero a tutti i familiari di fare un fagotto con i beni di prima necessità: cibo, vestiti e oggetti di valore. Cercavano soprattutto oro. In silenzio andammo anche noi verso la caserma, mio padre Giacobbe era già lì. Restammo chiusi per alcuni giorni".
All’alba del 23 luglio 1944 ebbe inizio il lungo viaggio verso Auschwitz. Al porto circa duemila persone vennero stipate su alcune chiatte adibite al trasporto di animali. Una prima sosta all’isola di Kos per imbarcare altri nuclei familiari arrestati, poi rotta verso il Pireo. Ad Atene il trasferimento su un treno e la partenza per la Polonia, dove giunsero quasi un mese dopo, il 16 agosto. "All’improvviso la nostra adolescenza era finita del tutto", ha detto Modiano. "Già nel 1938 ero stato espulso dalla scuola italiana in seguito all’applicazione delle leggi razziali di Mussolini. Avevo un maestro bravissimo, lo ricordo ancora con nostalgia. Il viaggio fu davvero una marcia di avvicinamento verso l’inferno. Il caldo, gli odori, i bisogni e i primi cadaveri gettati in mare".
Il 23 luglio scorso, proprio a Rodi, sessantasette anni dopo quella tragica alba, Modiano ha incontrato uno degli altri pochi sopravvissuti (31 uomini e 120 donne) alla deportazione, Moshe Cohen, venuto come lui nell’isola a celebrare l’anniversario. Non si vedevano dal 1945, data del loro ultimo incontro a Roma. Modiano, dopo alcuni anni trascorsi nel Congo belga, vive oggi tra Rodi e Ostia; Cohen aveva lasciato l’Italia per combattere volontario contro gli inglesi in Medio Oriente, e dopo un periodo in Israele si è trasferito in California. Si sono riconosciuti dal braccio tatuato a Birkenau. Un lungo abbraccio e tanta commozione.
La stele di granito nella piazza Martiron Evreon (dei martiri ebrei), scrive Gentiloni su La Stampa, recita in sei lingue "Alla memoria eterna dei 1604 ebrei di Rodi e Kos sterminati nei campi di concentramento nazisti. 23 luglio 1944". L’antica sinagoga è lì vicino, ma oggi la comunità ebraica dell’isola, distrutta dai nazisti, non raggiunge le trenta unità. Modiano ha deposto un sasso in memoria della sua famiglia e di tutti gli altri: "Sono tornato vivo da quell’orrore per tutti loro, per poter raccontare a chi è venuto dopo o non credeva, per non disperdere la loro voce e la loro memoria".


Mario Avagliano - twitter @MarioAvagliano

La Shoah non è mai finita?
Francesco LucreziLa nera lista dei luoghi dell’orrore, teatro di raccapriccianti eccidi di ebrei – turisti, bambini, religiosi, donne incinte, anziani… si allunga sempre di più, fino a ricoprire l’intero globo di una lugubre rete di sangue, coinvolgendoci in uno sforzo sempre più difficile, sempre più impegnativo, di memorizzare località, date, numeri di vittime, inducendoci a cercare macabre analogie, a fare paragoni, celebrare ricorrenze, nel quadro di una sorta di orrendo “eterno ritorno”, di una plumbea galleria di sinistri “corsi e ricorsi storici”: Buenos Aires, Monaco, Roma, Mumbai, Eilat, Tolosa, Burgas…
Quando c’è stata quella strage, quando quell’altra? Lì morirono 85 persone, o solo 84? Quel posto è in Bulgaria o in Romania? E dove fu fatto saltare quell’autobus, dove fu sterminata quella famiglia? Non si può essere approssimativi o imprecisi con fatti tanto gravi, ma è così difficile ricordare tutto… Meno male che c’è internet… Ma poi, siamo sicuri che tenere una contabilità precisa serva a qualcosa? Si potrà, un giorno, presentare il conto esatto a qualcuno, chiedere “ora basta, per favore, si è già pagato un prezzo sufficiente”? Ma quale potrebbe essere questo prezzo? I sei milioni della Shoah sono stati sufficienti? Sembrerebbe di no.
“La memoria si satura, gli anniversari si sovrappongono”, scrive, in un triste, disperante contributo, apparso su questa newsletter lo scorso 22 luglio, Ugo Volli, e “ci ritroviamo con una terribile continuità a piangere persone uccise in quanto ebree”. "Una grande macchina dello sterminio di nuovo scalda i motori, misura la sua forza, si prepara ad agire”, tanto da obbligarci a prendere atto che “la Shoah non è mai finita davvero”. Sono vere, legittime tali asserzioni? O sono un’esagerazione? Al di là delle evidenti differenze quantitative, i morti di questi anni sono “altra cosa” rispetto a quelli del ’42-’45? O c’è un parallelismo, un’analogia, un’identità nel loro destino? E i carnefici di oggi in cosa somigliano, in cosa differiscono da quelli di ieri? Non c’è dubbio che sembrano molto diversi: parlano altre lingue (arabo, farsi, ma anche norvegese, inglese, francese…), non tedesco, indossano tuniche bianche, non camice brune, si dicono uomini di fede, non conoscono i miti di Sigfrido e le note del Tannhäuser… Ma quanto somigliano! E, soprattutto, quanto è simile, identico, l’atteggiamento, nei loro confronti, del “resto del mondo”, perennemente oscillante – fin quando è possibile, anche sull’orlo del baratro
tra i soliti atteggiamenti: noncuranza, paura, fastidio, incredulità… Tutto, tranne una sola cosa: la reazione, la lotta. Perché mai? Chi ce lo fa fare? Tanto, non riguarda noi, e poi, si sa, le cose si aggiustano da sole…
Ma si può davvero dire che “la Shoah non è mai finita davvero”? Nella mia nota pubblicata mercoledì scorso, 18 luglio, ho avuto modo di ricordare e criticare i giudizi sull’antisemitismo formulati da Hanna Arendt, rievocati, nel suo recente saggio, da Pierpaolo Punturello. L’asserzione di Volli sarebbe probabilmente respinta dalla Arendt, la quale mise in guardia contro concezioni dell’antisemitismo di tipo “eterno” e “metafisico”, utili, secondo lei, solo agli antisemiti stessi e a quegli ebrei che, in nome dell’eternità e dell’ineluttabilità dell’antisemitismo, cadrebbero nel vittimismo e nella mania di persecuzione, rifuggendo così dalle proprie responsabilità. Ma la Arendt è stata testimone della caduta del nazifascismo, e, come tanti, ha condiviso la speranza che le forze uscite vittoriose dalla guerra fossero portatrici di valori radicalmente diversi da quelli degli sconfitti, e che questi valori si sarebbero sempre più estesi e consolidati. Ha creduto alla possibilità di un mondo diverso, migliore, alla cui edificazione ha dato un personale, importante contributo. Ma, a quasi quarant’anni dalla sua morte, dobbiamo prendere atto che la storia ha preso un’altra strada. E la domanda, se la Shoah sia mai veramente finita, indipendentemente dalla risposta, può, purtroppo, essere posta.

Francesco Lucrezi, storico

notizie flash   rassegna stampa
Israele aumenta gli investimenti
nel settore dei trasporti elettrici
  Leggi la rassegna

Aumenta in Israele la dotazione di stazioni di ricarica per vetture elettriche. La società Better Place, titolare dell'innovativo e rivoluzionario servizio che si candida ad aprire un nuovo capitolo nel mondo dei trasporti, ha annunciato il lancio di un nuovo progetto che porterà entro il prossimo settembre all'attivazione di ulteriori 28 stazioni che andranno a integrare le 10 ad oggi operative permettendo l'attraversabilità dell'intero paese.


 

Ritengo opportuno, per una volta, iniziare questa mia rassegna invitando i lettori a leggere l'articolo di Giampiero Caragnano su Rinascita. Prendendo lo spunto dall'attentato di Burgas, senza una parola di partecipazione verso le vittime, dopo una descrizione delle divisioni tra le tante correnti religiose islamiche, Caragnano si chiede perchè Netanyahu abbia accusato proprio gli sciiti(...)


Emanuel Segre Amar

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