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  l1 agosto 2012 - 13 Av 5772
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david sciunnach
David
Sciunnach,
rabbino 


“Fai attenzione a te stesso e custodisci la tua anima …”(Devarìm 4, 9). Rabbì Israel Lipkìn Salant, padre e fondatore del movimento del Mussar, diceva: Ho visto molte persone, che si preoccupano troppo per cose che li riguardano fisicamente e per ciò che riguarda la spiritualità del loro prossimo. Così come coloro che sentenziano morale sul loro prossimo, che ai loro occhi non è rigoroso nell’osservanza dei precetti e che quando questo sbaglia in una cosa di poco valore sono pronti a farglielo notare non nascondendo la loro gioia nel errore da lui compiuto. Io credo che il vero Chassìd - pio, sia colui che si preoccupa sempre dalla sua anima e del corpo del suo prossimo.  Come risultato di ciò egli scruta se stesso in modo continuo con timore del Cielo osservando al massimo i precetti, e nello stesso momento si occupa  del fabbisogno dei suoi fratelli dando quello che può.

 Davide 
Assael,
ricercatore



davide Assael
Anche se ormai nota, la condizione dell’Ungheria non gode, a mio parere, della risonanza mediatica che le spetterebbe. L’ultima è la dichiarazione pubblica del premier Viktor Orban durante un discorso all’Associazione nazionale degli imprenditori: “Spero che non sia necessario introdurre un nuovo sistema che rimpiazzi la democrazia” perché, “L’unità nazionale non è questione di volontà, ma di forza.” Il tutto nei giorni in cui si sono riaperte le trattative col Fondo Monetario Internazionale per un prestito di 15 miliardi, che dovrebbe evitare il default al Paese. Devo dire che non riesco a comprendere questa durezza della comunità internazionale nei confronti della, certo non incolpevole, Grecia (tanto da far parlare di problemi di malnutrizione infantile) e così scarsa determinazione nei confronti del governo ungherese, che ormai dichiara apertamente di non riconoscersi nei valori del mondo occidentale. Pare che il modello di Orban sia Putin. La Russia modello per un ungherese!?

davar
Daf Yomi - L’altra metà del cielo, tutti i giorni
In questi giorni molto si è scritto dei festeggiamenti per il termine del Daf Yomi, il programma di studio che prevede di affrontare l’approfondimento di una pagina del Talmud Babilonese ogni giorno. Sottolineando la presenza (numerosa) delle donne alle celebrazioni. Cercando però in internet l’insieme delle parole women+daf+yomi, la prima pagina che esce riporta una lettera - presumibilmente vera, ma sul web è difficile verificare - di una donna che chiede come gestire la serietà con cui suo marito si dedica allo studio quotidiano. Col risultato di non vedersi praticamente mai. L’impegno di lui ha un effetto collaterale a cui non si pensa immediatamente, anche se sarebbe logico: quando rimane in genere il tempo per studiare? La sera, rinunciando ad altro. E un impegno così totalizzante come quello che mira a completare lo studio del Talmud Babilonese in sette anni e mezzo di sicuro non può essere portato avanti nei ritagli di tempo. Però dal punto di vista di questa donna si sta parlando di 2711 sere, di solitudine. La soluzione che parrebbe più ovvia, ossia studiare insieme, ovvia non è affatto: la pratica del Daf Yomi non è parte del mondo femminile. O meglio, non lo era. Sono già migliaia, in realtà, le donne che partecipano in tutto il mondo a questa rigorosa pratica quotidiana; un segnale sorprendente, forse, che lascia intendere come anche nell’ambito dell’ortodossia ebraica più rigorosa la situazione non sia così semplicisticamente rigida come sarebbe facile pensare.
Identificati dalla società circostante come gli anacronistici difensori di un sistema ideologico reazionario e integralista, molti haredim preferiscono oggi richiamarsi ai valori dello studio e del confronto fra opinioni diverse, che l'approfondimento dei testi ebraici inevitabilmente comporta. In quest’ottica è bello sapere che non solo moltissime donne in tutto il mondo parteciperanno alle celebrazioni ma addirittura che a Gerusalemme c’è un luogo - il Matan Women’s Institute for Torah Studies, fondato del 1988 e che ha più di 3mila iscritte ai suoi programmi di studio (nell’immagine una delle insegnanti) - in cui saranno loro a condurre la giornata. E sarà occasione particolarmente festosa perché per il Matan Institute sarà la conclusione del primo ciclo Daf Yomi di sette anni e mezzo.
Il centro non ha una specifica affiliazione, ma molte delle studentesse si riconoscono in una denominazione Modern Orthodox; per il Siyum Hashas del 2 agosto sono attese un centinaio di partecipanti. Yardena Cope-Yossef, il motore iniziale del gruppo Daf Yomi al Matan Institute, racconta che “studiare il Talmud in questa maniera è fare parte di qualcosa di profondo, di molto più grande di me stessa”. In realtà il suo studio è iniziato molto presto, quando – a Chicago all’inizio degli anni ’80 – un rabbino della sua scuola accettò di studiare con lei, in un contesto in cui non era affatto previsto che le ragazze si dedicassero al Talmud. “Certo, si trattava di pochi minuti durante la colazione, ma è stato un inizio, che mi ha segnata profondamente”.
L’immagine di un gruppo di donne che studiano il Talmud è ancora del tutto estranea negli ambienti ultra ortodossi ma ci sono parecchie partecipanti che raccontano come durante lo studio, quando si trovano in unluogo pubblico o in viaggio, capiti spesso che oltre a lanciare occhiate incuriosite gli uomini si avvicinino e, a volte, chiedano in prestito il testo.
Per le donne del Matan l’esistenza di un gruppo Daf Yomi rappresenta “una grande opportunità di partecipazione, non la volontà di lottare per conquistare un posto a cui dovremmo avere diritto naturalmente”. Inoltre, sottolineano, “non si tratta di portare avanti una rivendicazione delle capacità femminili, l’interesse risiede precisamente nello studio della Torah.” Notare come questo gruppo di donne sia riuscito a studiare le sue 2711 pagine, una per volta, è ancora una volta la prova che anche in questo contesto l’altra metà del cielo, senza bisogno di chiedere nulla a nessuno, semplicemente, c’è.

PS: la risposta ricevuta dalla signora che si lamenta della solitudine è che il marito dovrebbe cercare un gruppo che si riunisca in unorario differente: lo studio non passa davanti alle relazioni familiari ed è necessario trovare una soluzione condivisa.

Ada Treves - twitter@atrevesmoked

Londra 2012 - Una medaglia d’oro per Aly
Ha aspettato che le ultime note di Hava Nagila si spegnessero tra gli applausi del pubblico e le grida delle compagne. Poi si è sciolta in un pianto di gioia per un risultato lungamente sognato. Alexandra Raisman, la diciottenne capitana della squadra femminile di ginnastica artistica statunitense, ha coronato infatti con la sua performance nel corpo libero al ritmo di Hava Nagila un’impresa nell’aria sin dalla prima rotazione della finale a squadre: la conquista della medaglia d’oro. In lacrime davanti al trionfo delle americane le ragazze russe, che si sono dovute accontentare dell’argento, addirittura giù dal podio la squadra cinese campione a Pechino 2008. Aly e compagne si sono davvero superate, fornendo una prestazione superlativa in tutti gli attrezzi. Per “la brava ragazza del Massachusetts”, come la stampa americana descrive la Raisman, si tratta del più importante piazzamento raggiunto in carriera. E chissà che altre medaglie non possano venire nei prossimi giorni, a rendere ancora più scintillante la stella di Alexandra nella International Jewish Sports Hall of Fame: la Raisman prenderà infatti ancora parte alle finali di specialità di trave e corpo libero, dove vanta un bronzo mondiale e già domani gareggerà nell’All Around, dove ritroverà come avversarie anche alcune atlete italiane, Vanessa Ferrari e Carlotta Ferlito. Anche nella finale di ieri, che è già nella leggenda della ginnastica USA, la squadra italiana, per la prima volta, c’era. Una finale, quella chiusa al ritmo di Hava Nagila, che si può dunque ben dire abbia fatto la storia anche dello sport tricolore.

Rossella Tercatin - twitter @rtercatinmoked

La nostra Maturità
La conferenza di Wannsee e la preparazione della Soluzione finale, nelle parole di Hanna Arendt. È una delle tracce proposte quest’anno alle prove dell’esame di maturità per il tema storico. Un argomento complesso e delicato dalle implicazioni sia storiche sia filosofiche. Ma che significato ha uno spunto di questo genere? Quanto aiuta approfondire i meccanismi della Shoah? E in quali modi lo si può declinare? Abbiamo girato questi interrogativi ad alcuni dei nostri editorialisti, che si sono cimentati con la loro personale versione del tema di Maturità: una sfida non facile che ci aiuta a capire meglio.


TEMA I parte Tratto dall’opera La banalità del male di una delle maggiori filosofe ebree del Novecento, Hannah Arendt, nata in Germania ma emigrata prima a Parigi e poi negli Stati Uniti dopo l’avvento al potere di Hitler, il brano racconta la Conferenza di Wannsee, tenutasi a Berlino il 20 gennaio 1942, dove i nazisti presero la decisione definitiva di sterminare tutti gli ebrei d’Europa, che Eichmann stimava appunto intorno agli undici milioni ma che erano in realtà meno di dieci milioni. A quella data, però, lo sterminio era già in atto. A segnarne l’inizio fu l’attacco di Hitler all’Urss, fino allora suo alleato, il 22 giugno del 1941. Le truppe combattenti tedesche erano infatti accompagnate da unità speciali delle SS che procedevano sistematicamente all’eliminazione tramite fucilazione degli ebrei dei territori occupati, uomini, donne e bambini. Circa un milione di ebrei furono sterminati così, fra l’estate del 1941 e tutto il 1942. A quella data, inoltre, erano già stati creati molti dei ghetti in cui saranno rinchiusi, in attesa di essere assassinati, gli ebrei polacchi, russi e molti ebrei tedeschi. Nell’estate del 1941 era inoltre stata vietata l’emigrazione dai paesi occupati dal Reich tedesco, chiudendo gli ebrei in un’immensa prigione. La stessa costruzione dell’enorme campo di Auschwitz, al tempo stesso campo di concentramento e campo di sterminio, era iniziata nel 1940. La Conferenza di Wannsee si limita quindi a sancire processi che erano già in atto da tempo.
CONTROTEMA I parte Il racconto della Conferenza di Wannsee non è certo uno dei brani più significativi del libro che Arendt ha tratto dai suoi reportage sul processo Eichmann, e non consente nemmeno, preso in sé e senza approfondite spiegazioni (ma quanti professori avranno dato spiegazioni sufficienti, ammesso che fosse consentito farlo?) di porre i principali quesiti sollevati da Arendt: il primo, quello della natura del male, indagato attraverso la figura di Eichmann, quale emerge nel processo di Gerusalemme, il secondo, quello dei consigli ebraici e del loro ruolo nella Shoah. Il brano, molto specifico nel suo riferimento alla Polonia, non consente facilmente di descrivere lo svolgersi della Shoah e non induce a parlare né dei campi di sterminio né dei ghetti. Volto com’è soprattutto a chiarire il ruolo di Eichmann, il testo non induce il lettore a domandarsi cosa fosse già successo prima e può indurre a credere falsamente che la Shoah sia iniziata nel gennaio 1942.
TEMA II parte Nel testo, Arendt sottolinea con forza la mediocrità della figura di Eichmann, uno dei massimi esperti nazisti della “questione ebraica”, colui a cui faceva capo il funzionamento della macchina nazista della deportazione e dello sterminio. Al processo, Eichmann assunse la linea difensiva dell’obbedienza agli ordini ricevuti, una linea difensiva che ben corrispondeva al suo essere un burocrate sostanzialmente di secondo piano, un esecutore pignolo dello sterminio. Recentemente, tuttavia, questa interpretazione è stata posta in discussione, e il ruolo autonomo, di primo piano di Eichmann è stato riaffermato, anche sulla base di nuove documentazioni. Un creatore del male, o un suo semplice esecutore, insomma? Ma come non pensare che nell’affermare la “banalità del male”, Arendt abbia voluto sottolineare soprattutto il carattere non metafisico del male stesso e il fatto che esso alberga in ciascuno di noi e può produrre, come ha in effetti prodotto, altri stermini, altri genocidi, spesso nell’indifferenza del mondo.
CONTROTEMA II parte Le parole con cui viene descritto il comportamento di Eichmann a Wannsee non dimostrano nulla sulla natura banale o meno del male, sul fatto che la Shoah possa essere interpretata come il frutto del Male assoluto o come il frutto dell’obbedienza cieca, della meschinità di intelletto, del conformismo. Se il tema che si voleva introdurre era questo, forse un brano tratto da Uomini comuni di Christopher Browning, con l’interrogazione sulle motivazioni che ebbe un reparto di Einsatzgruppen di Amburgo, non tutto formato da antisemiti o nazisti, e libero di rifiutarsi di uccidere, nel massacrare centinaia di migliaia di ebrei. Non voglio con questo minimamente contestare la scelta del testo di Arendt, solo quella di questo brano specifico. Il testo di Arendt, che tante polemiche ha suscitato e su cui sono scorsi fiumi di inchiostro, merita a tutt’oggi tutta la nostra attenzione.
TEMA III parte Il processo Eichmann dava inizio, dopo un quindicennio di rimozione, a quella costruzione della memoria da cui sarebbe uscita l’immagine della Shoah come quella di un evento specifico e senza precedenti e da cui avrebbe preso le mosse la percezione che oggi ne abbiamo: quella di uno spartiacque radicale nella storia, quella di un evento che non tocca solo gli ebrei ma il mondo tutto intero, e in primo luogo quelli che lo hanno perpetrato. CONTROTEMA III parte In momenti in cui il negazionismo si riaffaccia con tutto il suo carico di menzogne, l’antisemitismo si diffonde nuovamente in Europa, e perfino la città di Roma si trova a dover fare i conti con la rimozione di molte pietre d’inciampo e la sparizione della lapide dedicata a Settimia Spizzichino, un tema come questo non può che essere apprezzato. Eppure… Eppure dobbiamo ricordarci che la memoria non basta, come non basta la buona volontà e che quello che la scuola deve insegnare sono fatti e interpretazioni, cioè storia. Per questo le poche righe di Arendt su Wannsee ci sono parse insufficienti al compito di spiegare, insegnare e soprattutto stimolare, una volta raggiunta la conoscenza dei fatti storici, la critica e l’interpretazione.

Anna Foa, Pagine Ebraiche, agosto 2012

pilpul
Ricordare, partecipare
Francesco LucreziCredo di non essere stato il solo, tra i lettori di questo notiziario, di fronte allo spettacolo della inaugurazione delle Olimpiadi di Londra, a essermi sentito diviso tra contrastanti sentimenti. Da una parte, il desiderio di partecipare, come tutti, a quella che vorrebbe essere una grande festa dell’umanità unita, l’idea di un mondo accomunato nel nome degli ideali olimpici di fratellanza, lealtà, solidarietà. I volti sorridenti dei giovani atleti, provenienti dai cinque continenti, non potevano non suscitare una spontanea simpatia umana, rievocando antiche, ingenue speranze di un futuro migliore per l’intera famiglia umana. Allo stesso tempo, come dimenticare che quella grande festa era stata organizzata nel segno di un eloquente, tristissimo rifiuto, quello di rivolgere un pensiero di commemorazione a dei giovani atleti trucidati, quarant’anni fa, proprio nello scenario olimpico, sfregiato e insanguinato in nome di un odio cieco e bestiale? Un rifiuto odioso, ma non certo sorprendente, se buona parte dei Paesi membri del CIO continua a non volere Israele nelle varie competizioni internazionali, asiatiche e mediterranee. Israele non esiste, nella politica, nella geografia e nello sport: i suoi atleti, da vivi, non devono giocare, e, da morti, nono sono mai esistiti, e non vanno commemorati. Ed è ricominciata puntualissima, d’altronde, la disgustosa buffonata degli sportivi ‘islamici’ che rifiutano il contatto con i “nemici sionisti”: ieri gli judoka libanesi hanno chiesto un paravento che li separasse, durante l’allenamento, dai ripugnanti mostri - richiesta, ovviamente, immediatamente esaudita -, ed è stata immediatamente smentita, con sdegno, la dichiarazione di un responsabile iraniano, secondo cui i suoi atleti non rifiuterebbero il confronto. Certo, le Olimpiadi non sono soltanto questo, ma sono anche questo: meglio fare finta di niente, e godersi le gare in santa pace, invece di farsi il sangue acido, come sempre?
Di grande consolazione, in questo triste scenario, la manifestazione “Just one minute”, che, il giorno prima dell’inaugurazione, ha visto spontaneamente riuniti, in tante città del mondo, alla stessa ora, gruppi di liberi cittadini, spinti a incontrarsi unicamente dal desiderio di ricordare i nomi di quegli undici atleti a cui fu impedito di gareggiare e di vivere, e di dire alle loro famiglie e al loro Paese che non tutti li hanno dimenticati, che il mondo non è solo il regno dell’odio, della viltà, dell’indifferenza.
Una vera perla di umanità e nobiltà d’animo la lettera di compiacimento che è stata inviata al Presidente del CIO, Jacques Rogge – per la sua scelta di non commemorare le vittime del ’72 - da Jibril Rajoub, Presidente dell'Associazione calcistica palestinese, secondo il quale “lo sport deve fungere da ponte per favorire l'amore, i legami e l'amicizia fra i popoli, e non deve essere utilizzato come fattore di separazione e di disseminazione di razzismo fra i popoli”. Complimenti. Per l’ennesima volta, l’ANP ha dato eloquente dimostrazione della sua interpretazione dei concetti di ‘amore’ e ‘amicizia’. Almeno, un contributo alla chiarezza. Da parte, si badi, dei ‘moderati’ dell’ANP, non certo dei ‘duri’ di Hamas.
Comunque, c’è poco da fare, la richiesta di Israele è stata respinta, il CIO, e il mondo, hanno dimostrato, ancora una volta, da che parte stanno, quelli di “Just one minute”, senza dubbio, sono una minoranza. L’ANP ha ragione di essere soddisfatta. Anche se forse, sempre in nome dell’amore e dell’amicizia fra i popoli, avrebbero gradito una commemorazione – del tipo di quelle che vengono regolarmente celebrate in Palestina, per casi analoghi - dei terroristi autori della strage di Monaco. Ma, forse, sarebbe stato chiedere un po’ troppo.

Francesco Lucrezi, storico

notizie flash   rassegna stampa
Justin Peyser in mostra a Napoli
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La Commissione Cultura del comune di Napoli, presieduta da Maria Lorenzi, ha incontrato questa mattina il rav Scialom Bahbout rabbino capo della Comunità ebraica di Napoli e Francesca Pietracci, dell’Associazione Culturale Approdi, per discutere del progetto di realizzare una mostra dell’artista Justin Peyser in uno spazio museale di Napoli. Erano presenti alla riunione anche l'assessore alla Cultura Di Nocera e la dottoressa Silvana Dello Russo, Direttore centrale Cultura, Turismo e Sport. Justin Peyser, newyorkese di origine ebraica, ha sempre avuto attenzione per lo spazio in relazione all’architettura, ed è coinvolto nel restauro e nella riqualificazione di aree degradate della città di New York, come il Bronx. La mostra, intitolata “Diaspora”, è attualmente allestita a Venezia ed ora potrebbe approdare a Napoli.

 

La notizia del giorno è la lettera inviata, tramite canali diplomatici, dal presidente egiziano Morsi al presidente israeliano Peres; una breve del Corriere la esalta con parole come: "mano tesa ad Israele da parte di Morsi" e solo alla fine cita la precedente inviatagli da Peres al momento dell'elezione, per di più dimenticando la seconda inviatagli più recentemente in occasione dell'inizio del ramadan. Non sembra un buon metodo di informare da parte del primo quotidiano italiano.


Emanuel Segre Amar

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