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10 agosto 2012 - 22 Av 5772
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ucei 
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alef/tav


Alberto Sermoneta,
rabbino capo
di Bologna
 

La parashà che abbiamo letto lo scorso shabbat, inizia con il racconto della supplica "va etchannan - e supplicai" con cui Mosè si rivolge a D-o per farlo entrare nella Terra di Israele. È interessante notare la formula della preghiera di Mosè e soprattutto il modo con cui invoca il nome divino. Nel testo leggiamo "A' Elokim" scritto però con una variante: il nome di D-o, quello che noi pronunciamo A', è scritto con le lettere dell'alfabeto Alef, dalet, nun e jod; mentre Elokim è scritto col tetragramma JHVH. Il Nachmanide prova a dare la seguente spiegazione: solitamente al Tetragramma viene attribuita la "middat ha rachamim - attributo della bontà divina", mentre al nome Elokim (scritto con le lettere dell'alfabeto, Alef, lamed, he jod mem) la "middat ha din - attributo della giustizia divina". Mosè prova, invertendo i nomi, cambiando cioè il loro modo di scrittura, a far sì che il posto della giustizia divina, sia sostituito dalla Sua misericordia. Ma anche se ciò è gradito al Signore, non farà sì che potesse essere perdonato. Nonostante ciò Mosè non entrerà nella Terra di Israele.

Laura
Quercioli Mincer,
 slavista



laura quercioli mincer
Nessuno dirà mai ad un adulto «vattene», ma a un bambino lo si dice spesso. Quando un adulto si dà da fare il bambino sta fra i piedi, l’adulto scherza e il bambino buffoneggia, l’adulto piange e il bambino frigna e piagnucola, l’adulto è vivace e il bambino irrequieto, l’adulto è triste e il bambino ingrugnato, l’adulto è distratto e il bambino tonto, sciocco. L’adulto è sovrappensiero, il bambino inebetito. L’adulto fa qualcosa con lentezza, il bambino perde tempo. Sono solo modi di dire scherzosi, ma quanto poco delicati. Un bimbetto, un marmocchio, un moccioso, un monello: e questo persino quando non è arrabbiato, quando vuole essere buono. Che farci, ci siamo abituati, ma a volte questo disprezzo dispiace e irrita. (Janusz Korczak, Varsavia 1878, Treblinka 1942)

davar
Torna a brillare la Menorah dell’esilio
Esistono oggetti che condensano in sé storia, miti, leggende, emozioni che vanno ben al di là di quanto qualsiasi approccio razionale possa accettare, così come esistono storie che hanno una portata molto superiore a quella che si potrebbe cogliere a una prima lettura. Alcuni di questi oggetti prendono nei secoli un carattere così mitologico da trovarsi al di fuori di ogni possibilità di comprensione, o sono talmente studiati, e con i risultati più eterogenei, da rendere impossibile una risposta definitiva. Altri perdono ogni contatto con la realtà per diventare addirittura, dopo un lungo percorso, protagonisti di fiabe per bambini. Ad esempio lo sviluppo della leggenda del Graal è stato tracciato in dettaglio dagli storici culturali: sarebbe una leggenda orale gotica, derivata forse da alcuni racconti folcloristici precristiani e trascritta in forma di romanzo tra la fine del XII secolo e l’inizio del XIII secolo, fino ai Cavalieri della Tavola rotonda. Poi ci sono i casi che riuniscono tutte queste caratteristiche (fino ad arrivare al finale più classico: la sparizione) e che sono diventati il simbolo di un popolo. E di uno Stato. È dunque evidente che restare indifferenti alla recentissima scoperta fatta a Roma è impossibile. Sono solo poche scaglie di colore, un pigmento giallo ocra brillante, ma sono loro a saldare in un unico momento di grande portata emotiva gli elementi di una storia millenaria. Si tratta della scoperta della colorazione originale della Menorah scolpita in uno dei bassorilievi dell’Arco di Tito. Una traccia di colore che in una specie di folle vortice temporale mette insieme narrazione biblica e storia, secoli di sofferenze e tradizione ebraica, miti, leggende, orgoglio. Tutto anche grazie alle più sofisticate tecniche di ricostruzione digitale e agli spettrometri 3D utilizzati dall’équipe del professor Steven Fine, che guida il progetto di restauro digitale dell’Arco di Tito portato avanti dal Center for Israel Studies della Yeshiva University. Già prima della scoperta l’entusiasmo era palpabile: “L’idea che l’Arco di Tito potesse avere un aspetto differente da quello attuale, che avremmo potuto comprendere meglio, che saremmo forse stati in grado di vederlo così come lo vedevano all’epoca è entusiasmante”.
E ora lo straordinario studio archeologico internazionale, guidato dallo Yeshiva University Center con la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, ha concluso una mappatura tridimensionale dell'Arco di Tito. Il lavoro verrà presentato nella sua interezza il prossimo autunno ma è già evidente che fra le scoperte più emozionanti c’è proprio quella di alcune tracce di giallo ocra sulla Menorah che gli ebrei deportati da Gerusalemme dovettero portare nella capitale dell'Impero come trofeo dei vincitori. Si tratta di una scoperta sensazionale per il mondo scientifico e di una notizia di portata travolgente per il mondo ebraico. Lo stesso Steven Fine ha affermato: “La Menorah raffigurata nell'Arco di Tito è stato il simbolo della determinazione ebraica per duemila anni e adesso è il simbolo del moderno Stato di Israele. Trovarci di fronte al suo colore originale è stato un autentico tuffo al cuore. Sono impaziente di vedere cosa altro troveremo".
La storia della Menorah inizia con queste parole: “Farai una Menorah d’oro puro, tutta di un pezzo: il piedistallo e il fusto, i suoi calici, i suoi boccioli e i suoi fiori da essa saranno” (Esodo 25:31). E, come ha spiegato il rav Adolfo Locci in alcuni suoi recenti interventi su moked.it, secondo Ben Ish Chay (Yosef Chayym di Bagdad 1832-1909) la Menorah è oggi simboleggiata dalla Amidah che si recita tre volte al giorno. Inoltre la recitazione dell’Amidah è uno degli strumenti per restaurare la Shekhinah, la presenza divina che, come la Menorah, deve avere alcune caratteristiche. Dev’essere di oro puro (cioè recitata con espressione chiara e senza errori) e tutta di un pezzo (ossia detta in un unica composizione, senza interruzioni) compresi il piedistallo - le preghiere di supplica che seguono la Amidah - e il fusto - le benedizioni che la compongono. I suoi calici rappresentano le singole lettere e parole che formano le benedizioni; i suoi boccioli simboleggiano il luogo del pensiero dell’uomo che deve esprimersi nella recitazione dell’Amidah, i suoi fiori sono le aggiunte che i maestri hanno permesso di fare all’interno delle benedizioni. Ben Ish Chay sembra dirci, svelando questa simbologia nascosta, che quando recitiamo l’Amidah, è come se stessimo davanti alla Menorah, anzi, come se noi stessi fossimo una Menorah. Spiegano i Maestri anche che l’olio per la Menorah, la cui luce simboleggia la Torah, rappresenta lo sforzo diretto di ognuno di noi nella propria attività di studio. Uno studio che deve essere continuo, perenne, fonte necessaria per alimentare la Torah come l’olio lo era per la luce che irradiava dalla Menorah. Quella originale, poi, fatta durante gli anni trascorsi a vagare nel deserto, era di forma meravigliosa: si narra che Mosè avesse gettato dell’oro nel fuoco e che essa si fosse formata da sola; invece quella rappresentata nell’Arco di Tito è probabilmente una delle dieci menoroth fatte da Hiram per il Tempio di Salomone e non l’originale mosaica, che era stata nascosta prima delle distruzione del Primo Tempio.
In definitiva sussistono varie ipotesi su dove possa trovarsi l'orignale della Menorah rappresentata nel bassorilievo: secondo alcuni è proprio a Roma, in Vaticano (addirittura il ministro israeliano Shimon Shitrit, nel 1996, ne chiese informazioni al papa), oppure nascosta in una grotta a Gerusalemme sotto la spianata del Tempio, o ancora nel Tevere, dove furono fatte anche alcune ricerche, vicino all'isola Tiberina. Ma potrebbe essere anche arrivata fino a Costantinopoli… Secondo il professor Fine, in verità, né quella né gli altri oggetti depredati dal Tempio di Gerusalemme sarebbero sopravvissuti all’antichità: furono probabilmente fusi, all’epoca della distruzione dell’Impero romano, nel V secolo. L’unica traccia tangibile è quindi in quell’Arco che, a sua volta, ha un altissimo valore simbolico per il popolo ebraico: un arco trionfale di più di quindici metri di altezza che ricorda a tutti il momento della Diaspora, al punto che per secoli la legge ebraica ha proibito agli ebrei di passarvi sotto, per non rischiare di dare in alcun modo onore ai conquistatori romani. E ora, a distanza di quasi due millenni, a pensare che proprio studiosi della Yeshiva University hanno portato alla scoperta di quel piccolo frammento color ocra, è inevitabile confessare la comparsa di un leggero senso di rivalsa.

Ada Treves, twitter @atrevesmoked, Pagine Ebraiche, agosto 2012

pilpul
Adeguarsi alla minoranza
Anna SegreL’inserto dell’Economist dello scorso 28 luglio distingue gli ebrei secondo quattro principali denominazioni: Ultra-Orthodox (haredì), Modern-Orthodox, Conservative, Reform. Dove stanno gli italiani? Fino a qualche anno fa credo si sarebbe potuto rispondere senza troppe esitazioni che si trattava di una categoria a sé, nominalmente ortodossa ma di fatto, nei comportamenti di gran parte dei suoi membri e anche in alcune scelte del suo rabbinato (per esempio sulle conversioni), a volte più vicina a forme di ebraismo non ortodosso. Oggi le cose sono cambiate: non saprei dire in quali proporzioni gli ebrei italiani si autodefinirebbero “orthodox”, “traditional” o “secular”, certamente il nostro rabbinato oggi è indubbiamente “orthodox” (più o meno modern), così come mi pare siano indiscutibilmente orthodox i nostri standard di kasherut, ecc. Ci siamo adeguati a un mondo globalizzato, ed era inevitabile che accadesse. La cosa curiosa è che, sempre secondo l’Economist, i modern orthodox sono oggi il 10%, i haredim il 22%, gli altri sono non ortodossi. Dunque non ci siamo adeguati alla maggioranza, ma alla minoranza. Può sembrare illogico, ma in realtà ci sono valide ragioni per questo: i non ortodossi, anche se ancora in maggioranza, tendono a diminuire considerevolmente, gli ultra-ortodossi aumentano ma sono culturalmente (almeno per ora) troppo lontani da noi perché possiamo pensare di diventare come loro; inoltre la scelta di un ebraismo modern orthodox appare l’unica potenzialmente in grado, pur tra molte difficoltà, di mantenere il più possibile l’unità dell’ebraismo italiano. Resta comunque il fatto che adeguarsi alla maggioranza può essere un automatismo, ma adeguarsi alla minoranza è inevitabilmente una scelta ideologica. In che misura siamo consapevoli di averla compiuta?

Anna Segre, insegnante

notizieflash   rassegna stampa
Noa incanta Roselle 
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La musica di Noa ha entusiasmato la Cava di Roselle. Per il Grey Cat Jazz Festival la cantante israeliana ha fatto una performance internazionale di altissimo livello, presentando il suo progetto “Noapolis”. Seppur non propriamente, ma piuttosto influenzata dal jazz, la musica di Noa al concerto alla Cava di Roselle, calzava a pennello con lo spirito del Grey Cat Festival. I pezzi presentati attingevano al vasto repertorio di Noa, un concerto coinvolgente che ha riscosso un meritato successo.
 
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