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  29 agosto 2012 - 11 Elul 5772
l'Unione informa
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moked è il portale dell'ebraismo italiano
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david sciunnach
David
Sciunnach,
rabbino 


“Quando uscirai a far guerra sul tuo nemico….”(Devarìm 21, 10). Un giorno i discepoli dello Tzaddìk Rabbì Naftali di Ropshלtz hanno chiesto al loro Maestro: "Dacci un consiglio affinché lo Yètzèr ha-rà - l’istinto malvagio, non ci insegua così da procedere con tranquillità senza distrarci dalla retta via! Rispose loro Rabbì Naftali: "Invece di preoccuparvi che lo Yètzèr ha-rà - l’istinto malvagio, non vi insegua, preoccupatevi di non essere voi ad inseguire lui".
 Davide 
Assael,
ricercatore



davide Assael
Credo che la categoria dell’odio di sé, di cui spesso  qui si discute, esista e che si manifesti nel desiderio di rimuovere la propria differenza identitaria per sentirsi uguali agli altri. In questo senso, pare anche a me sospetto il modo in cui molti ebrei cavalcano tesi palesemente occidentali, quando, dal punto di osservazione ebraico, se ne potrebbero denunciare i limiti, che, del resto, ogni approccio porta con sé. È, però, vero, come ci ha insegnato Jung, che le categorie mentali sono stimolate da una densità affettiva che le fa agire dove non si crederebbe. Così, l’odio di sé può manifestarsi anche in coloro che nutrono sensi di colpa nei confronti del proprio passato e che, proprio perché mossi da questi affetti, diventano i più oltranzisti difensori delle tesi che un tempo avversavano. Il filosofo Fulvio Papi una volta mi disse che lui, sempre stato socialista lombardiano, poteva parlare liberamente del comunismo perché non aveva niente da farsi perdonare. In ambito religioso, dove gli affetti coinvolgono costellazioni familiari in modo molto esplicito, il fenomeno è ancor più frequente. Per evitare di scambiarsi reciproche, sgradevoli, accuse che entrano nei tessuti soggettivi delle persone, io suggerisco di parlare della categoria dell’odio di sé per promuovere una riflessione collettiva, senza usarla come una clava da battere sulla testa di altri che potrebbero ribattere con gli stessi argomenti.

davar
Qui Venezia - "Architettura per capire il nostro tempo"
Ad accogliere il visitatore è un lussureggiante giardino tropicale mentre all’uscita alcune speciali cyclette consentono di caricare telefoni cellulari, ipod e ipad. Si gioca tra questi due poli, la natura primordiale e le nuove frontiere della tecnologia, il Padiglione Italia inaugurato ieri pomeriggio alla tredicesima edizione della Biennale Architettura a Venezia. Affidato dal governo alla cura dell’architetto Luca Zevi, anche Consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, il percorso espositivo, intitolato Le quattro stagioni-Architetture del Made in Italy da Adriano Olivetti alla Green Economy, offre una prospettiva di grande fascino sulla vicenda architettonica del nostro Paese e sulle prospettive di rilancio.
“L’architettura non è solo arte dell’eccezionale, non è riservata a momenti d’accezione né è solo un puro fatto di comunicazione”, ha sottolineato il presidente della Biennale Venezia Paolo Baratta all’affollatissima inaugurazione cui ha preso parte anche il presidente UCEI Renzo Gattegna. “Il Padiglione Italia – prosegue – lancia quest’anno un richiamo severissimo all’architettura italiana, esortando al tempo stesso gli imprenditori e la parte pubblica a occuparsi di questioni che vadano al di là della soglia di casa propria. Tra le cose che dobbiamo rivedere c’è infatti senz’altro la nostra capacità di gestire lo spazio comune in cui viviamo. L’auspicio è che questo progetto espositivo possa stimolare le coscienze e indurre a una chiara consapevolezza del nostro tempo”.
“Il Padiglione vuole proporre un’occasione per riflettere sul rapporto tra crisi economica, architettura e territorio – ha spiegato Luca Zevi – Deve essere uno spazio in cui immaginare un progetto di crescita del nostro Paese, il Common Ground che quest’anno dà il titolo alla Biennale Architettura deve tradursi in un progetto concreto e visionario, in cui cultura ed economia riescano a stringere un nuovo patto. L’architettura deve recuperare la sua capacità di prefigurare il territorio e il futuro”.
Per questo la prima stagione raccontata nel Padiglione si sofferma sull’esperienza di Adriano Olivetti, che nel secondo dopoguerra propose un modello di sviluppo in cui politiche industriali, sociali e di promozione culturale si integrano in una proposta innovativa. Ad affiancare i prototipi degli stabilimenti industriali immaginati da Olivetti e i suoi prodotti di design, tra cui le belle macchine da scrivere dalle linee pulite ed essenziali, ecco la stagione dell’assalto al territorio attraversata negli anni Ottanta. Quando iniziative di grande vitalità produttivo erodono il paesaggio punteggiandolo di capannoni e villette in stile chalet. Poi la stagione del nuovo Made in Italy. Un panorama che prende corpo quindici anni fa, animato da imprese specializzate che costruiscono i loro stabilimenti secondo progetti architettonici d’eccellenza, attenti ai luoghi e alle comunità.
La quarta stagione, quella del reMade in Italy è la grande scommessa sul futuro che attende il Paese. “Da questa crisi – dice Luca Zevi – si esce attraverso una trasformazione radicale del nostro territorio, con una crescita complessa e articolata che metta a sistema le imprese del Made in Italy nella direzione di un Green Economy che riveda i rapporti fra città e campagna, fra industrializzazione e produzione agricola”.
Il Padiglione Italia diviene dunque il luogo in cui progettisti, imprenditori e politici possono iniziare a confrontarsi anche alla luce di alcuni progetti modelli presentati in mostra. E, per mostrare che l’economia verde non è un’irrealizzabile utopia, lo stesso Padiglione diventa sostenibile e si trasforma in un ecosistema autosufficiente in cui i bisogni fondamentali di riparo, acqua, cibo ed energia sono organizzati in un ciclo chiuso che riduce al minimo gli scarti. Il raffrescamento dell’aria interna si ottiene grazie all’acqua della laguna che si estende a pochi passi, le piante ci rammentano quanto dobbiamo alla natura. E all’uscita ci si accorge che basta pedalare un po’ per ricaricare telefoni e quant’altro: si fa esercizio e al tempo stesso si risparmia energia.

Daniela Gross - twitter @dgrossmoked


Cinema di Israele sotto i riflettori
Oltre alla presenza a Venezia in occasione della Mostra Internazionale del Cinema che aprirà fra poche ore, un altro inatteso fenomeno israeliano sta cambiando l’Europa cinematografica. La Israel Theaters, infatti, sta portando avanti senza soste un piano di sviluppo nell’Est Europa grazie al quale i suoi complessi cinematografici (sia sale che studi per le riprese) saranno, insieme a tutti quelli già aperti in molti altri paesi, parte della terza catena europea, dopo la Odéon-UCI, che ha ben 2.153 cinema, e il gigante francese Gaumont Pathé, con 967 sale. Dalla Polonia alla Romania, dalla Repubblica Ceca alla Bulgaria fino alla Slovacchia lo stile israeliano fa furore: ogni sala è caratterizzata da un suo stile particolare, ha muri e pavimenti con decorazioni molto evidenti ed è illuminata da neon rossi. Ma non è solo l’aspetto ad avere caratteristiche peculiari: il modello israeliano importa in Europa anche uno stile molto particolare per quanto riguarda il modello di gestione. Tutti i manager sono israeliani, mantengono la residenza in patria e ogni due settimane si recano nelle rispettive sale. In ogni area viene invece selezionato un responsabile, che oltre alla gestione quotidiana ha il compito di sviluppare il potenziale specifico di ogni singolo cinema. Così per esempio si scopre che uno dei segreti che riempiono le sale ungheresi ha il profumo dei particolari pop-corn fatti scoppiettare nell’olio di cocco. Oltre ovviamente al fatto che in Ungheria il pubblico adora i block-buster e spesso vengono organizzate prime visioni a cui sono invitati gli attori, con enorme successo. In Polonia invece sono solo le sale 3D ad essere sempre piene e Roman Polanski è invitato ad ogni prima quando vengono proiettati film più impegnati. Ogni direttore locale ha i suoi segreti per riempire le sale e la gestione condivisa con i manager israeliani si sta dimostrando ovunque un ottimo modello di mélange culturale.

 a.t. twitter @atrevesmoked

Qui Milano - Umorismo oltre i luoghi comuni
Raccontare i segreti dell’umorismo ebraico. Superare gli stereotipi, quelle immagini che con più immediatezza si associano all’idea di ironia in salsa jewish. Un duplice obiettivo che rappresenta il filo conduttore del programma milanese per la Giornata europea della cultura ebraica il prossimo 2 settembre. A spiegarlo è l’assessore alla Cultura della Comunità di Milano Daniele Cohen “Nel preparare gli appuntamenti della Giornata abbiamo cercato di coniugare la riflessione e l’intrattenimento, nell’idea di sfuggire ai luoghi comuni proponendo qualcosa di nuovo - spiega Cohen - Penso che nel nostro programma siano molti i momenti emblematici di questo approccio: dallo spettacolo Rabbini sotto spirito. Viaggio nel sottile umorismo dei Maestri del Talmud, con la lettura di David Piazza e la performance di Miriam Camerini e Sabra Del Mare, alla conferenza di Andrea Grilli Dall’umorismo Yiddish a Omer dei Simpson. Senza ovviamente dimenticare l’approfondimento del rav Roberto Della Rocca e dello psicanalista David Meghnagi”. A intervallare gli interventi, saranno le visite guidate alla Sinagoga Centrale, una opportunità molto cara ai milanesi sin dalla nascita della Giornata della cultura ebraica. Non mancheranno poi altri appuntamenti ormai entrati nella tradizione della rassegna: il discorso-lezione del rabbino capo della Comunità Alfonso Arbib, la premiazione del concorso fotografico Obiettivo sul mondo ebraico della Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea. Relatore d’eccezione sarà poi lo studioso di mistica Haim Baharier.
Per la chiusura della Giornata della cultura nel capoluogo lombardo, l’appuntamento è allo spazio Oberdan, con il mosaico di immagini e parole Guardare una risata: l’umorismo ebraico nel cinema. Ruggero Gabbai, regista e consigliere comunale di Milano, il critico cinematografico Maurizio Porro e il giornalista Roberto Zadik, commenteranno una galleria di spezzoni di film per un racconto dell’umorismo ebraico con gli occhi dei registi che hanno fatto la storia del cinema mondiale.
La Giornata rappresenta a Milano anche il primo appuntamento in campo culturale dall’elezione del nuovo consiglio comunitario avvenuta lo scorso giugno. Daniele Cohen, già assessore alla cultura nella precedente giunta, assicura “Per quanto riguarda l’offerta culturale della Comunità, vogliamo proseguire nel segno della continuità e allo stesso tempo giovarci delle idee dei nuovi consiglieri. Anche se non abbiamo avuto ancora molto tempo per lavorare, stiamo già lavorando ad alcuni eventi in collaborazione con l’assessore alla comunicazione e ai giovani Iko Menda. In autunno avremo un appuntamento con un collegamento video del rav Jonathan Sacks, poi ripeteremo una manifestazione che ha già avuto molto successo a Roma, la serata tripolina con Hamos Guetta”.

Rossella Tercatin twitter @rtercatinmoked

Paralimpiadi - Il coraggio di Martine
Tra le tante straordinarie storie che animano la 14esima edizione delle Paralimpiadi al via quest'oggi spicca la vicenda di Martine Wright, pallavolista della nazionale inglese vittima del terribile attentato che colpì la metropolitana di Londra il 7 luglio del 2005. Martine quel giorno era in ritardo a lavoro dopo una notte di festeggiamenti legata all'assegnazione dei Giochi del 2012 alla sua città. Un balzo rapido per non perdere la vettura che l'avrebbe portata in ufficio appena in tempo sancisce il tragico incontro con l'ordigno esplosivo azionato dal qaedista Shehzad Tanweer. Cinquantacinque morti, svariate centinaia i feriti: l'orrore torna a colpire il cuore dell'Europa pochi mesi dopo la strage alla stazione dei treni di Madrid. Martine riesce miracolosamente a sopravvivere in un percorso di ripresa che sarà lungo e travagliato ma perde la funzionalità di entrambe le gambe.
È l'ora dello sofferenza, di una vita da incastrare con equilibri inattesi e complicati. Ma scatta anche la molla dell'orgoglio e della speranza, il desiderio di godere fino in fondo delle cose belle della vita senza farsi travolgere dalle avversità. Con pazienza Martine corona il sogno di una vita 'normale': si sposa con Nick, il compagno di sempre, e insieme hanno un bambino. Un nuovo fortissimo stimolo lo trova poi nello sport che 'scopre' in un ospedale londinese dove regolarmente si svolgono tornei per atleti con arti amputati sulla scia della strada aperta proprio in quella struttura dal padre delle Paralimpiadi, il medico ebreo di origine tedesca Ludwig Guttman. Martine si lancia entusiasticamente in questa esperienza: tennis, tiro con l'arco, persino paracadutismo. Arriva infine la pallavolo, disciplina in cui eccelle tanto da conquistare un posto da titolare nella rappresentativa nazionale. Da oggi inizia la sua avventura a cinque cerchi. L'emozione, per sua stessa ammissione, è fortissima. “È un qualcosa di indescrivibile, ma so di non essere sola”.

a.s - @asmulevichmoked

pilpul
Il drappo rosso
Francesco LucreziSbaglierò, ma ho la tragica impressione che l’attuale dirigenza dell’Iran desideri, esplicitamente, che Israele intraprenda un’azione militare volta a neutralizzarne la potenziale minaccia nucleare. Tutti i segnali della propaganda di regime mi sembra vadano in questa direzione. Non solo, infatti, il programma atomico procede a pieno volume, senza neanche bisogno di alcuna negazione, finzione o cautela, e non solo le minacce e le invettive contro il “nemico sionista” (“cancro da estirpare” al più presto, secondo il Presidente Ahmadinejad), diventano, di giorno in giorno, sempre più forti e martellanti, ma quel che mi pare particolarmente significativo è il modo in cui, in molte pubbliche dichiarazioni, diversi esponenti del regime hanno commentato l’eventualità di una possibile aggressione da parte dello Stato ebraico. Il giudizio più ricorrente, a questo proposito, è che si tratterebbe di un bluff, in quanto Israele non avrebbe le capacità militari per osare un’operazione così rischiosa e impegnativa. Applicando ai rapporti tra stati gli stessi criteri di interpretazione valevoli per i litigi fra adolescenti rissosi, queste parole sembrano assumere il chiaro, primitivo significato di una sfida. L’Iran potrebbe dire, con spirito pacificatore: “Israele non ha ragione di farlo, perché non lo minacciamo”; oppure, potrebbe dire, con tono aggressivo e minaccioso: “non gli conviene farlo, perché lo distruggeremmo”. In entrambi i casi, queste parole, tra ragazzini, equivalgono a un’implicita richiesta di tregua, di non belligeranza: “dài, andiamo a casa a fare i compiti, domani se ne parla”. Le parole “vediamo se ne sei capace”, invece, hanno un altro sapore. Chi le riceve, è invitato a dimostrare di essere “un uomo”. Se non raccoglie la sfida, non solo è disonorato davanti a tutta la classe, ma il suo antagonista ha ormai acquisito la prova certificata di essere il più forte, e ne terrà conto alla prima occasione utile, probabilmente subito, o comunque molto presto.
Logiche da ragazzini, certo. Non vanno applicate alla dirigenza iraniana, i cui componenti non sono dei ragazzini, ma qualcosa di molto peggio. E quanto a Israele, neanche il più intransigente critico dell’attuale governo, spero, potrà credere che esso possa cadere per ingenuità in una così evidente provocazione, precipitando il Paese e la ragione in una terribile tragedia per un meccanismo di mero bullismo politico. Resta il fatto, però, che Teheran continua a sventolare il drappo rosso davanti al suo toro, brandendo dietro la schiena (e facendola intravedere) la sua muleta nucleare. Sugli spalti, una folla eccitata (che, forse, dopo anni di attesa, comincia anche a dare i primi segni di noia: “ma insomma, questa benedetta guerra, volete farla, sì o no?”), ben simboleggiata dall’adunata dei 120 Paesi non allineati convenuti, in questi giorni, a Teheran (a fugare ogni equivoco, se mai ce ne fosse bisogno, riguardo alle simpatie della maggioranza del mondo nei confronti di Israele).
Che deve fare Israele? Come ho già avuto modo di dire, la grave responsabilità di ogni scelta (e anche il non intervenire, come in molti paiono dimenticare, è una scelta) compete al legittimo governo del Paese, sotto il vigile controllo e l’attento giudizio del Parlamento, dell’opinione pubblica, della libera stampa, della Corte Suprema, del Presidente dello Stato, delle Autorità civili e religiose. Al di là di tutte le legittime differenze di opinione, nessuno, credo, vuole che il Paese si comporti da toro o da ragazzino, e nessuno crede che si possa rimanere inerti di fronte alla minaccia di un nuovo Olocausto. Quanto agli amici di Israele, fuori dai confini dello Stato, ritengo che il loro compito sia quello di manifestare al Paese minacciato, in ogni modo, la propria solidarietà. Non “senza se e senza ma” (espressione forse abusata, e comunque discutibile), ma, diciamo, col cuore e con la mente. Chi davvero voglia evitare una guerra, si impegni, in tutti i modi possibili, per disinnescare la minaccia iraniana. Secondo me, è l’unico modo giusto per farlo. Chiedere al governo israeliano pubbliche assicurazioni contro un possibile uso della forza, non mi sembra la scelta migliore.

Francesco Lucrezi, storico

L'odio di sé
E adesso si teorizza anche su Moked, con mirata selezione di casistica, l'odio ebraico di sé. La cosa suscita un qualche fastidio in chi non condivide le sue idee e comincia a farsi imbarazzante. Oltretutto, come in una raccolta di figurine, qualche ebreo storicamente vergognoso di sé viene accostato a semplici ebrei critici, magari anche pesantemente critici. Il quadro fa una certa impressione, perché tende a dimostrare che qualsiasi ebreo si opponga alle idee 'giuste' di un altro ebreo (che funge da pietra di paragone e modello di perfezione) o si opponga a un certo 'sistema' ebraico è di fatto un ebreo che odia se stesso, e non un ebreo che la pensa diversamente o che vuol essere ebreo in modo diverso. Lo sforzo teorizzante sottende la volontà di dimostrare che o si è con Israele 'senza se e senza ma' oppure si è odiatori di sé e impliciti traditori della causa ebraica (ne ha scritto Sergio Della Pergola qualche tempo fa su queste pagine - 'hasbarah'.) È una posizione che suona terrificante. Terrificante come leggere che "diagnosticare" nell'ebreo l'odio di sé significa "provare a decifrare le radici ideologiche e psicologiche della sua posizione e suggerire la sua insostenibilità dal punto di vista ebraico, indicarla come esterna all'ebraismo". Insomma, qualcuno conosce il metodo scientifico per individuare la malattia dell'odio di sé e sa decidere chi è dentro all'ebraismo e chi non ha diritto di residenza. E ci sono dunque ebrei dal pensiero apolide e diasporico che devono essere espulsi, come ai bei tempi. Questa volta, però, per mano di altri ebrei, puri e perfetti. Siamo di fronte a una lotta per l'emarginazione del più debole e per la presa del potere (solo intellettuale?)? Il confronto di opinioni si sta facendo battaglia personale: per invalidare le idee si insulta e si delegittima chi le esprime. Teorizzare l'odio di sé non è una "diagnosi" (sarebbe psicologismo amatoriale), ma un insulto scientifico nelle mani di soggetti interessati. Terrificante perché si continua nell'assai eccepibile tentativo di mettere la museruola alla libertà di pensiero e di espressione, elevando a norma il pensiero unico e mettendo all'indice il dissenso. Terrificante e offensiva quanto sarebbe la posizione di chi sostenesse che coloro che assumono supinamente certe posizioni assolute sono deboli di spirito e di intelletto, che si lasciano plagiare da grandi lobbies o sono magari finanziati sottobanco dal sistema. Poiché io non mi sento odiatore di me stesso – anche se può capitare che qualcuno in malafede strumentalizzi le mie parole a fini di anti-israelianismo o di puro antisemitismo –, così come non credo affatto che chi non la pensa come me sia plagiato o finanziato da chicchessia per pensare ciò che pensa, insisterei a dire che il confronto sulla politica di Israele (o sul senso del witz) dovrebbe avvenire attraverso la contrapposizione e l'analisi delle idee e dei fatti piuttosto che mediante accuse personalizzate che cercano di individuare abusivamente nell'altro "le radici ideologiche e psicologiche" che detterebbero le sue supposte idee sovversive o autolesionistiche. Io (un io esemplificativo) il mio ebraismo lo vivo meglio sentendomi libero di pensare e dire ciò che penso e dico. Così chiunque ha il diritto di viverlo a suo modo, e nessuno lo accusa di secondi fini né gli 'diagnostica' malattie di alcun genere, contagiose o meno. Se però critico un governo di Israele non mi va di sentirmi accusare di lesa maestà o di tradimento e odio di me stesso, o di pensarmi accostato a Weininger che uccidendosi ottenne "il plauso di Hitler". È come se io cercassi di far prevalere le mie ragioni dicendo che lo stesso sforzo di teorizzazione ai danni di ebrei lo ha usato Hitler per dimostrare la loro inferiorità razziale e la necessità della loro eliminazione. Stiamo superando i limiti della decenza intellettuale e argomentativa. Fermiamoci e facciamo un passo indietro. Credo che nessuno sarebbe d'accordo di applicare gli stessi parametri logici al terreno dell'adesione religiosa, dove si diagnosticasse che chi aderisce alla riforma o al conservatorismo abbandonando il modello tradizionale e originale dell'ortodossia è un ebreo che odia se stesso, tradisce la propria origine e annacqua l'ebraismo fornendo armi al nemico, ossia all'assimilazione. Inviterei pacatamente a un riposizionamento intellettuale, a un ritorno alla tolleranza (absit iniuria verbis) e al rispetto dell'altro. Manteniamo il senso realistico della complessità delle situazioni che analizziamo, piuttosto che rappresentarle falsate dalla semplificazione. Del resto, nessuno può negare che l'ebraismo si esprime al meglio nella dialettica, senza arroganze di parte. Allora, da parte mia garantisco che, pur nella libertà ebraica del mio pensiero, io sarò sempre accanto a chi difende il diritto di Israele all'esistenza e alla sicurezza, ma mi aspetto che chi mi sta di fronte sia sempre accanto a me nel mio diritto a essere rispettato (anche da lui) per quel che penso e quel che dico. Un io esemplificativo, naturalmente.

Dario Calimani

notizie flash   rassegna stampa
Champions - Brusco risveglio
per l'Hapoel Kiryat Shmona

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Finisce il sogno Champions dell'Hapoel Ironi Kiryat Shmona. I campioni di Israele non sono infatti riusciti a recuperare il doppio svantaggio subito nella gara di andata in Bielorussia contro il Bate Borisov concludendo il match di ritorno davanti al pubblico amico valevole per l'ultimo turno preliminare della massima competizione calcistica europea con il risultato di 1 a 1. La squadra allenata da Gil Landau dovrà così accontentarsi dell'Europa League, vetrina comunque prestigiosa per il 'piccolo' Hapoel.



 

“Israele colpisce in territorio egiziano con un drone”; questo è il titolo pubblicato sul Foglio di oggi a presentazione di un articolo di Daniele Raineri nel quale non si esprime affatto questa “certezza”, tra l’altro neppure sfiorata da una trasmissione della CNN che Raineri cita.



Emanuel Segre Amar

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