Autismo: tra Israele e Italia un progetto comune

A Milano, Marina Norsi, neuropsichiatra a Beer Sheva, racconta l’esperienza israeliana.

di Daniela Ovadia

La buona volontà non basta: per aiutare i bambini con autismo a sviluppare al massimo le proprie potenzialità, ci vuole una tecnica precisa e molto, molto lavoro. È questo l’insegnamento che ha lasciato Marina Norsi, neuropsichiatra infantile dell’ospedale di Beer Sheva e una delle massime autorità in materia, a una platea di morim, genitori e operatori della riabilitazione riuniti il 21 novembre scorso nella sala conferenze dell’Acquaro Civico di Milano. La serata è stata promossa dal Bene Berith in collaborazione con l’Associazione medica ebraica (AME).

Claudia Bagnarelli nella sua duplice veste di presidente del Bené Berith e di coordinatrice delle scuole dell’infanzia e primaria della Comunità ebraica ha fatto gli onori di casa: “Da alcuni anni abbiamo a che fare con il difficile compito di aiutare due bambini affetti da autismo a seguire il programma di studi regolare nella nostra scuola” ha spiegato. “Abbiamo imparato moltissimo, anche grazie all’interazione con i genitori, che sono i primi maestri di questi piccoli. I morim hanno seguito corsi di aggiornamento e sono supervisionati da tecnici esterni. La nostra scuola, coerentemente con i principi che la animano, ha dato il massimo perché la sfida è grande, anche se le difficoltà non mancano, soprattutto sul piano economico. Dallo Stato otteniamo sempre meno mentre a ciascuno di questi bambini è necessario affiancare un insegnante di sostegno a tempo pieno”.

La serata ha avuto anche un altro scopo, come ha spiegato Giorgio Mortara, presidente di AME: illustrare i risultati di un progetto di ricerca congiunto, nato proprio grazie all’intermediazione di AME, che ha coinvolto il centro di Beer Sheva diretto dalla Norsi e il Centro neuropsichiatrico infantile Villa Santa Maria di Lodi, una struttura che aiuta bambini con disturbi cognitivi e dello sviluppo sia al domicilio sia con ricoveri. “Favorire una collaborazione scientifica tra Israele e l’Italia ha sia lo scopo di far conoscere l’eccellenza degli ospedali e delle università israeliane sia quello di mostrare un’immagine positiva dello Stato ebraico, non legata alla guerra e alle vicende politiche”.

Che la cooperazione sia fruttuosa lo ha confermato anche Gaetana Mariani, direttore generale di Villa Santa Maria. “Quando siamo andati in Israele abbiamo potuto imparare nuove tecniche di intervento ma anche scoprire quanto è importante che gli operatori – fisoterapisti, psicologi e assistenti sociali – vadano a casa dei bambini che hanno in cura, per scoprire quali sono le condizioni in cui vivono e per poter interagire davvero con i genitori, che restano le figure di riferimento per tutto ciò che riguarda le scelte da fare per lo sviluppo del piccolo. Quando abbiamo cominciato a fare lo stesso nella nostra Provincia, i risultati sono stati spettacolari”.

Lo conferma anche Marina Norsi, quando racconta delle difficoltà che ha incontrato agli esordi della sua carriera con le famiglie di beduini che vivono nei dintorni di Beer Sheva: “A cosa serve passare ore a insegnare a un bambino beduino affetto da autismo a stare seduto a tavola se a casa sua si mangia a gambe incrociate sul tappeto?”.

È questo, in fondo, il segreto per ottenere il maggior recupero possibile: strutturare la riabilitazione sulle caratteristiche dell’individuo, invece di usare una tecnica uguale per tutti. “Da alcuni anni abbiamo aperto a Beer Sheva due asili per bambini autistici, nei quali applichiamo due diversi metodi di riabilitazione, uno dei quali, l’ABA, è usato anche dalla scuola ebraica di Milano. Poiché in ambedue i casi si tratta di tenere impegnato il bambino per moltissime ore al giorno (come minimo una quarantina a settimana, se si vogliono vedere risultati), la scuola speciale è lo strumento più efficace per farlo”. In Italia le scuole differenziate sono state abolite a favore di un inserimento precoce dei piccoli con handicap nella vita scolastica e sociale normale: una scelta che ha innumerevoli vantaggi ma è sicuramente più dispendiosa. “Anche noi cerchiamo di inserire i bambini nelle scuole normali, seppure con una certa gradualità. Ma non sempre ci riusciamo” spiega Norsi. “L’autismo è un disturbo della comunicazione: non si tratta solo di linguaggio, che spesso è assente o carente, ma anche di comunicazione con l’ambiente, con gli oggetti e persino con il proprio corpo. Da ciò nascono comportamenti stereotipati, talvolta violenti contro gli altri o contro se stessi. Dal punto di vista intellettivo, però, si tratta a volte di bambini con ritardi molto lievi o addirittura assenti, quindi potenzialmente in grado di apprendere purché l’insegnamento si adatti alle loro particolarità”. Marina Norsi ha anche spiegato che l’autismo è in aumento, e colpisce attualmente un bambino ogni 2.000 nati, se si considerano anche coloro che sono colpiti da forme lievi dello spettro autistico, come la sindrome di Asperger. “La componente genetica è forte e spesso si scopre che un bambino malato ha dei genitori nei quali alcuni tratti caratteriali dell’autismo sono già presenti” spiega ancora Norsi. Dato che si tratta di un disturbo che non si può prevenire, l’unica arma vincente è la diagnosi precoce, che deriva dall’osservazione del piccolo fin dai primi mesi di vita. “Quando un lattante smette di seguire la madre con gli occhi, sembra poco reattivo all’ambiente o viceversa è irrequieto, è utile farlo controllare da un pediatra. Spesso arrivano da noi bimbi che hanno già 5 o 6 anni e che hanno perso molto tempo utile per una riabilitazione efficace”.Un messaggio, quello della prevenzione, che è stato ribadito anche da Ruggero Gabbai, consigliere comunale del PD e moderatore della serata: “Bisogna potenziare le strutture che, a livello territoriale, consentono di individuare precocemente i bambini bisognosi di aiuto e poi intervenire con tutto il sostegno possibile”.

Articolo tratto dal Bollettino