Qui Ferrara – De Mauro: “Il giornalismo non teme la crisi”

Internazionale torna a Ferrara. Il prossimo fine settimana, dall’1 al 3 ottobre, la città estense ospiterà per il quarto anno consecutivo il Festival dedicato al giornalismo e all’informazione. Prestigiose firme di fama mondiale si riuniranno di fronte a migliaia di persone per un weekend di approfondimenti, dibattiti, proiezioni su temi di attualità, politica, economia e molto altro. Da Dana Priest, reporter premio Pulitzer del Washington Post, alla giornalista cinese Hu Shuli, una delle dieci donne più influenti d’Asia secondo il Time; passando per la discussa Amira Hass, nota giornalista israeliana di Haaretz. “Oltre cento ospiti provenienti da venticinque Paesi: come fare il giro del mondo in tre giorni”, spiega il direttore di Internazionale Giovanni De Mauro. “Quest’anno – continua De Mauro, uno dei fondatori del settimanale, nato nel 1993 e ispirato al Courrier International – abbiamo avviato l’iniziativa del Festival a spreco zero, un esperimento per ridurre l’impatto ambientale che dimostra la nostra attenzione su questo tema. Non saranno tre giorni a cambiare le cose ma è comunque un modo concreto per dare risalto a un problema reale quanto grave”.
Porre l’attenzione su questioni meno conosciute o poco considerate dai media italiani, è stato il grande successo di Internazionale, una rassegna a cadenza settimanale con “il meglio dei giornali di tutto il mondo” (come si legge sulla copertina della rivista). Di questa fortunata scelta editoriale, del futuro del giornalismo, come di altri temi, abbiamo parlato con il direttore De Mauro.
Qual è l’idea guida della vostra rivista?
Cerchiamo di differenziarci dagli altri. Non ha senso appiattirsi sulle stesse notizie. Se lei prende due nostri quotidiani nazionali e ne confronta la prima pagina, vedrà che bene o male le notizie sono sempre uguali; non solo, spesso la gerarchia con cui sono presentate è la stessa. Tutti temono di prendere il così detto buco dagli altri, quindi se il Corriere ha una notizia, anche Repubblica dovrà pubblicarla e viceversa. Se invece confrontiamo due giornali inglesi, noterà che molto raramente le notizie coincidono. In Italia c’è la tendenza a uniformarsi e questo facilita il nostro lavoro: noi cerchiamo di occuparci di altro e la cosa non è poi così difficile vista la marea di argomenti a disposizione, lasciati liberi dagli altri giornali.
Si parla spesso di crisi dell’informazione, cosa ne pensa?
Non è l’informazione ad essere in crisi, ma i giornali. E’ la carta stampata che sta subendo una sensibile riduzione delle vendite. Ma d’altro canto, grazie a internet, alcune testate hanno raggiunto una diffusione inimmaginabile. Pensi al britannico Guardian che, come ha ricordato il suo direttore, nonostante abbia ridotto drasticamente le copie vendute, oggi conta ogni giorno oltre un milione di visitatori sul proprio sito. E’ la forma ad essere in crisi non il giornalismo.
In Italia forse il problema non è solo la forma. Questo è il titolo di un nostro giornale a diffusione nazionale ‘Dopo le case agli zingari, i milioni per gli immigrati’. Puntare il dito contro le minoranze, generalizzando, non può che creare pericolose divisioni e alimentare una già forte tensione sociale.
Da noi il problema nasce dalla spaccature in due del paese: ci sono due parti che guardano contemporaneamente due film diversi. Questo ha portato ad un progressivo distacco, non c’è più una base condivisa su cui intavolare discorsi. Il rispetto dei diritti, per esempio, non è più il terreno comune su cui confrontarsi e questa situazione rischia di minare la convivenza civile. Nel mondo del giornalismo tutto questo si riflette in una tendenza pericolosa per cui i fatti vengono incastrati artificialmente nella notizia in modo che la ricostruzione confermi l’opinione di chi scrive.
Manca dunque l’oggettività?
Secondo me il giornalismo oggettivo è una bufala. Qualsiasi giornalista compie una scelta quando scrive o fotografa qualcosa. Dà spazio a ciò che ha visto secondo i propri criteri, la propria visione del mondo. Per cui non esiste un giornalista imparziale ma esiste il giornalista corretto ed onesto che non nasconde i dettagli che trova scomodi alla propria tesi. Quando si riporta una notizia si stringe un patto con il lettore, bisogna essere onesti sia sulla ricostruzione dei fatti sia sul proprio punto di vista.
Dunque anche la scelta di Internazionale di dare spazio a una giornalista estremista come Amira Hass, tanto discussa in Israele, nasce da una visione determinata della situazione del conflitto israelo-palestinese.
Se c’è un conflitto, ci sono inevitabilmente due parti. Gli errori spesso vengono compiuti da entrambi ma in ogni caso bisogna prendere una posizione. E’ una questione troppo delicata per rimanere indifferenti. Noi di Internazionale abbiamo fatto una scelta di campo e il lavoro di Amira, con cui collaboriamo da oltre dieci anni, fa parte del nostro DNA. Lei ricostruisce i fatti, partendo da elementi apparentemente insignificanti, una telefonata, una scritta, comunque verificando sempre che la ricostruzione sia corretta. Poi se quello che scrive fa venire il mal di panca a qualcuno, ben venga. Il giornalismo è fatto per far discutere. Il giornalista non è un giudice imparziale ed obbiettivo ma deve sollecitare una riflessione.
Rimanendo in tema Medio Oriente, cosa pensa dell’informazione israeliana?
Non conosco molto le radio, ma il panorama informativo mi sembra estremamente variegato e complesso. In molti giornali si possono trovare diverse firme importanti e complessivamente mi sembra un mondo molto vivace e creativo, con posizioni decisamente diversificate. E’ un sistema che ha i suoi limiti, come tutti, ma garantisce comunque a tutti pari dignità. Perciò funziona.
In chiusura, a Ferrara lei interverrà su le Frontiere digitali nell’ambito dell’informazione. Come vede il futuro di questo campo?
Credo che il cambiamento arriverà quando le generazioni che oggi hanno 8-10 anni saranno cresciute. Ci stupiranno con un modo diverso di fare giornalismo, inventando oggetti e supporti tecnologici innovativi.
Perché?
Perché sono generazioni slegate dal passato, libere dal peso della carta stampata.
Comunque sono convinto di una cosa, il giornalismo ci sarà sempre. E mi trovo d’accordo con quanto ha detto alcuni anni fa il proprietario e direttore del New York Times Arthur Sulzberger Jr. “Io non so che forma avrà il New York Times fra cinque anni e non mi importa saperlo”.

Daniel Reichel