La Kabbalah e le tasse
Nella cornice suggestiva del Chiostro di San Paolo, nel quadro della Festa del libro ebraico di Ferrara, Haim Baharier tiene col fiato sospeso centinaia di persone, spaziando tra la Cabbalà e l’economia globalizzata, tra la giustizia, le tasse e i ricordi d’infanzia.
Come mai, si chiede Baharier, tra le prime norme impartite al popolo ebraico uscito dall’Egitto ci sono quelle relative alla schiavitù? Non è una “sberla” che il mondo appena liberato (una volta per tutte) cominci parlando della negazione della libertà?
Spiegano i Maestri che, trattandosi di vicende umane, la Torà vuole subito metterci in guardia: non esiste perfezione in questo mondo, e dunque il primo precetto serve proprio a regolare l’imperfezione, a bonificarla attraverso la legge.
Dimentichiamo i buoni sentimenti, lasciamo perdere il concetto di solidarietà, si opta per il diritto, per il compromesso migliore e compatibile con la realtà del mondo.
Significativamente, lo stesso percorso vale anche nel senso contrario: le norme dei sacrifici prevedono un moto dell’anima, una donazione spontanea di bestiame, ma questa elargizione può essere fatta solo prima di corrispondere le tasse, va vincolata alla norma per eccellenza, quella del pagamento dei tributi. Senza la norma, decade anche la fuga dalla norma.
Adam Smith parlava, a proposito del profitto, di “interesse proprio ben inteso”. Un compromesso tra particolare e universale realistico, praticabile e tollerato dal diritto. Lo stesso vale per la politica: nella sua dimensione più alta essa è arte del possibile, compromesso regolato, negoziazione continua verso il male minore o, se preferite, il bene possibile.
Insomma, la tradizione ebraica, le tradizioni religiose in generale possono contribuire al dibattito pubblico e al bene comune anche in un’epoca di crisi come la nostra, un’epoca in cui la politica ha bisogno di essere ricostruita, ma in cui c’è enorme bisogno di buona politica.
Tobia Zevi, Associazione Hans Jonas – twitter @tobiazevi